Poemetto sul tempo
Alla memoria di Enzo Paci
Scavo di me ma al termine
del per ora semilungo viaggio
breve per poco nel lampo del tempo
lungo se ricongiunto agli altri
morti e vissuti
nella deriva degli anni
E tu magister che stai sempre all’erta
sentinella sul porto
della ragione nascosta e confondevi
vita e pensiero in una sola mistura
e camminavi a labirinto
nel sentiero del giogo
anche tu confondimi
abbatti le sterpaglie che sovrastano
la vista
tu poco sentinella e tanto
umile sguardo
in un lungo dirupo.
Acquattato resterò fin quando
avrò la forza di piegarmi
tutto raccogliendo in me
la sfera infinita dello sguardo.
Da qui comincio
dallo sguardo implume.
Dal suono di tromba e preghiere
dall’Ave e Gloria il primo
una sera d’ottobre
in una voce di coro giovane
puerile. Imparai che tutto
è aperto, vago, diverso
dal caldo del letto:
il mondo non è più bianco
denso come il latte
ma freddo riverso nell’opaco
numero di entrata
luce giallastra e gelo di passi
lungo la camerata.
(Il sole è un cerchio freddo
all’alba e più giù alle sette
al momento dell’adunata
nel velo dell’attesa).
La giornata si schiera
alberi muri marmi
e il passo scandito di passi
che introduce una preghiera).
(Tu madre risvegliami
se non ci sono ora a guardarti
giovane volto di sempre che prima
m’abbracciò. Tu padre sorvegliami
dall’alto da quella foto che salva).
Scrivevo allora un diario
e per poco morivo a nasconderlo
in un’ora anch’essa di carta.
Scrivevo nell’opaco
nel fluido lungoraggio di maggio.
Erano lettere in viaggio
tra me stesso e l’infinito che fuggiva:
tutto era definito circoscritto
limitato tra me lo scriba distratto
e il punto di partenza che languiva.
C’era lo scarto
il retrofaccia dell’inchiostro
la macchia in agguato.
Ma scrivevo senza copia
e tutto poteva finire
dimenticato.
Ma qualcosa restò
indecifrato nel giorno di carta
un foglio senza data
un cartiglio
un salto di sonno da oblio
ad oblio (un lapsus un flottio
d’alghe rimosse su sabbia accogliente)
un alto mormorio tra colonne d’alberi
e orti sospesi tra il mare e la collina
sorgente nel grigio e verde sibilare
di fogliame. Forse una serpe.
Di quale vecchio non ancora morente
anticipò la penna il breve sospiro?
e in quale tempo entrò del sogno
il candido capo bianco avvolto nel fumo?
“Antonio – sibilò la voce di fumo accogliente –
sono Antonio – il padre di tua madre la bianca
ragazza che t’abbracciò sulla spiaggia adriatica
e ti levò dall’acqua in alto verso il cielo”.
E scomparve nelle spire di fumo levante addio
ma per poco urlante tra le righe sommesse
piegate addormentate nel lieve tramestio.
Voltai pagine e riapparve mite consigliante:
“fa il bene e dimentica”, sgusciò la voce d’ombra
lambendo la memoria chiusa come argilla.
Fece il bene e morì, smarrii lo sguardo
del bene fatto; rimase il tarlo della voce
il tumulto di passi e le volute di fumo aereo
lente depositarsi, insediarsi nel legno
salire nel naso al centro del cervello
concimare nel giardino strappato
all’assalto del cemento.
Dormono altre voci inerti nel sonno:
opaco screziato tailleur su corpo
di bambina sgorgante. Ragazza
alla fermata del tram poi madre
al crocicchio d’altro tempo
dove il diario non passa.
Nasconde tra le righe il fermento
di penna e a libro si chiude.
S’insinua la notte d’insonnia
d’attesa fin che oltre la riga di case
il tumulto del giorno risorga
in un labbro corale.
Con questi sarò
con i pochi ricordati
ma dormirò con tutti gli altri
già affondati.
Roberto Taioli