Profondità abitate: la meraviglia dell’assenza nelle foto di Luigi Ghirri, di Fabrizio Milanese

“La fotografia è una grande avventura del pensare e del vedere, un grande giocattolo magico, che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza con il fiabesco mondo dell’infanzia” 

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Luigi Ghirri, Reggio Emilia, 1973

A ventiquattro anni dalla sua prematura scomparsa, Luigi Ghirri, ha ormai conquistato il suo meritato posto nel panorama culturale nazionale e non solo. Un eclettico “misuratore“ del mondo, ha saputo scuotere e rinnovare l’intero panorama italiano della fotografia dando molteplici punti di partenza per percorrere nuove strade e cercare nuove identità. Come Kipling che portava gli occhiali ma, nonostante la miopia, aveva una vista acuta e più che guardare, sapeva vedere e con questa virtù dello sguardo, che non appartiene al nervo ottico ma all’intelligenza, cominciò a scrutare il mondo che lo circondava, Ghirri inizia negli anni quella che sarà una vera e propria missione: fare della fotografia non un manufatto puramente estetico ma uno strumento dialettico e conoscitivo con alla base uno scopo specifico, quello di rinnovare una freschezza dello sguardo ormai contaminato ed incrostato dalla (in)civiltà delle immagini, ed una pratica di ecologia della visione esercitata con  un piacere quasi adolescenziale. C’è una frase di Borges, un autore che Ghirri amava molto e citava spesso, che sembra esprimere al meglio sta dietro alla strutturazione della sua opera:

“Il segreto, d’altronde, vale assai meno delle vie che mi hanno condotto ad esso”

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Luigi Ghirri, Argine Agosta, Comacchio, 1989

Ecco il punto allora: il segreto, la meta, il luogo della fotografia di Ghirri, per quanto alla fine forse anche identificabile e descrivibile, vale sicuramente meno delle vie, dei percorsi che in qualche modo a quella meta dovrebbero condurre. E comunque attenzione, perché proprio di “vie” e non di “via” in effetti si tratta. Lo stile Ghirri, per quanto ad un occhio non allenato e forse ingenuo possa apparire semplice e diretto, è in realtà quanto mai complesso e stratificato, sofisticato e sinfonico, capace, come appare, di far stare insieme cultura “alta” e cultura “bassa”, pittoricità e cartolinesco, sublime e kitsch. Alcune sue immagini appaiono dei fotomontaggi ma in realtà lui stesso li definisce “fotosmontaggi” ovvero fa un uso delle immagini per decostruire l’immagine stessa andando all’attacco dello stereotipo e della ossessiva messa in codice dell’immagine. La celebre definizione di “profondità abitata” coniata da De Chirico per la pittura metafisica, aderisce in modo perfetto alle immagini di Luigi Ghirri: si tratta di “profondità” perché in esse si intravede il mistero del quotidiano, si contempla la meraviglia dell’assenza, lo stupore di un vuoto sospeso, ma al tempo sono “abitate” perché l’impronta dell’uomo con l’eco della sua presenza, il senso della relazione con le cose è suggerita da ogni elemento del reale. Oltre l’opera fotografica, la quantità, qualità e rilevanza di scritti da lui prodotti mette al riparo in maniera inequivocabile la sua opera da facili interpretazioni riduttive e da superficiali sistemazioni critiche e lascia tutto lo spazio per affrontare lo studio della sua opera con tutto il rispetto e la serietà che un artista di questo genere merita. In effetti si tratta di fotografare una realtà che è ormai nascosta da una serie di immagini della realtà. Ghirri infatti sostiene che:

“Vi è una sovrapposizione di immagini. Sezionare un immaginario italiano è molto più difficile rispetto a quello di altri paesi, come gli Stati Uniti. L’immaginario visivo dei Novecento è, nel nostro paese, composto da immagini che derivano dalle fotografie degli Alinari, dai sussidiari, dalle cartoline illustrate, dai libri del Thuring Club e da mille altri luoghi. Sono cataste di immagini. Ogni fotografo vede l’Italia attraverso questa infinita miriade di immagini. Questo tende a costruire quello che definirei il “luogo comune”. Questo “luogo Comune” è la piazza dl San Pietro con il porticato, la cupola, magari un prete che la attraversa. Il problema è quello di vedere attraverso tutte le immagini precedenti quel luogo e nel contempo di cancellarle per avere una propria “prima visione” di piazza San Pietro.”

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Luigi Ghirri, Bologna, 1987

I luoghi sono di tutti, appartengono a tutti, anche a chi non li conosce direttamente, per cui non si tratta di ritrovare ciò che si conosce ma di esperire generalmente il mondo partendo come pretesto da un determinato luogo. Scriveva ancora Ghirri:

“Vedere un paesaggio come se fosse la prima e ultima volta, determina un senso di appartenenza ad ogni paesaggio del mondo; un sentimento che ritrovo guardando i paesaggi di Bruegel o di Hopper, le fotografie di Evans, o ascoltando la meravigliosa semplicità delle canzoni di Dylan, un sentimento che mi ricorda il gesto naturale di stare al mondo”.

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Luigi Ghirri, Cervia, 1989

Questo ha saputo fare Ghirri e il suo accanirsi a ritrarre il marginale o addirittura il vuoto trova giustificazione proprio nella necessità di partire da una materialità non invadente così da lasciare emergere in tutta la sua forza il senso della nostra relazione con le cose. Volendo ricorrere ad un paradosso si dovrebbe dire che lo scopo di Ghirri non era quello di fare fotografie ma di usare le fotografie per raccontare il suo modo (il nostro modo) di sentire il mondo. Un rapporto volutamente complesso, ramificato, ricco di suggestioni.

Fabrizio Milanese

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Luigi Ghirri, 1984

Nato a Scandiano (Reggio Emilia) Il 5 gennaio 1943, Inizia a fotografare nel 1970 lavorando prevalentemente per artisti concettuali. In seguito la sua ricerca si orienta ai paesaggi delle periferie ed un interesse particolare è rivolto al mondo delle comunicazioni e delle pubblicità. Dal 1980 si confronta con la fotografia di architettura nel territorio collaborando con Aldo Rossi e Paolo Zermani; in quegli stessi anni stringerà un’amicizia con lo scrittore Gianni Celati. Numerose le mostre sia in Italia ce in Francia dove nel 1984 viene invitato dall’Università della Sorbona a tenere un conferenza sull’”Opera Fotografica”. Seguono mostre a Charleroi, Vienna, Parigi e in Canada a Montreal e Ottawa, collettive a Mosca, Leningrado e Pchino oltre che corsi di Storia della fotografia in Italia. Nel 1985 su invio di Aldo Rossi realizza una serie di fotografie sui luoghi della cultura veneta. Svolge diverse ricerche, sulla città universitaria di Roma, sulla Basilicata e sul castello ed i giardini di Versailles. Nel 1986 collabora con diverse riviste italiane oltre a lavorate per la Triennale di Milano e per una monografia su Aldo Rossi. Nel 1987 inizia una indagine sul Paesaggio Padano ed espone questi lavori alla Triennale di Milano, assieme a ricerche su Bologna e Venezia. Nello stesso anno mostre a Genova, Torino, Milano, Marsiglia, Aix en Provence, Colonia oltre all’allestimento per la Triennale dl Milano della sezione “Fotografia” nell’ambito della Mostra Le città del mondo, il futuro della metropoli, che si apre nell’autunno del 1988. Nello stesso anno realizza un volume sulla mostra dei Fenici a Palazzo Grassi per l’Editore Fabbri e la mostra Giardini in Europa per Il comune di Reggio Emilia. Nel 1989 mostre a Losanna, Ginevra, Vicenza, Rio de Janeiro. Realizza lavori sulle opere di Plecnijk. Figini e Pollini, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti. Dopo alcune mostre in Italia e all’estero, nella primavera del 1989 dà alle stampe il volume Paesaggio italiano per la Electa Edizioni e inizia la realizzazione del libro Il profilo delle nuvole con testi di Gianni Celati per la Feltrinelli di Milano. Partecipa a mostre riguardanti i 150 Anni della fotografia in Francia, Italia, Austria e Canada. Muore prematuramente il 14 febbraio del 1992 all’età di quarantanove anni.

 

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