Giovanni Floris, “La prima regola degli Shardana”, Feltrinelli – 2016, letto da Dante Maffia

6746630Ho cominciato a leggere questo libro con estrema diffidenza, non me ne voglia  Giovanni Floris; ci sono troppi giornalisti ormai che scrivono poesie e scrivono romanzi e lo fanno con linguaggio, piglio, struttura e modi propri della cronaca, cioè senza diventare “api dell’invisibile”, come dice Rilke. In loro regna sovrana la notizia, l’attualità, l’urgenza di entrare nell’agone del dibattito politico e sociale (raramente culturale) e i risultati sono quasi sempre deludenti se non disastrosi. Un romanzo è altra cosa da un reportage, dal racconto di avvenimenti scottanti; un romanzo, se è tale davvero, è vita che si svolge e si apre al lettore legandolo ai protagonisti, avendo con essi un rapporto di complicità o di scontro, ma un rapporto vero e autentico, carico di quegli echi umani e, perché no, poetici, che resistono al tempo e restano nella memoria e nel cuore. Non è comunque notizia, notizie che si accavallano e passano come uno scroscio di pioggia estiva. La prima regola degli Shardana riesce a creare un’atmosfera di verità quotidiana che coinvolge e fa sentire la forza di una identità, la fa toccare con mano: l’identità di una contrada, di un’epoca, di una situazione sociale che ci appartiene per molti aspetti e rispecchia, quindi, le problematiche cocenti e complicate del mondo in cui stiamo vivendo.

Siamo a Prantixedda Inferru, “un paesino dell’Ogliastra, nel bel mezzo della Sardegna.

Per chi non lo sapesse, la Sardegna non è un atollo. Non è solo spiaggia e mare. E’ una grande isola circondata (ovviamente) dal mare, ma all’interno è in gran parte un susseguirsi di montagne, burroni e boschi selvaggi. In particolare l’Ogliastra, la regione centro-orientale che affaccia da una parte sulle splendide spiagge della costa, dall’altra sui selvaggi monti della Barbagia, è una sorta di riassunto di tutto quello che si può trovare nell’isola” e Floris non nasconde il suo amore per la terra dei padri, ne sente il fascino e il richiamo, la bellezza sconfinata, la ricchezza umana. Ed è proprio da questa ricchezza umana che, a mio avviso, nasce e si sviluppa il racconto nel quale i tre protagonisti principali trovano una legittimità esemplare. Sandro, Giuseppe e Raffaele decidono di organizzare la squadra di calcio di Prantixedda Inferru per vincere la Coppa Sarda. Un sogno, al quale si oppongono il Sindaco e un riccone del paese con una tigna di cui non si comprendono bene tutte le ragioni. Vicende che si snodano su una scacchiera che a volte perde le connotazioni e diventa assurdità e che diventerà palese e visibile soltanto nel momento in cui finalmente la verità della “prima regola” viene a galla. A questo punto la mia diffidenza si è dissolta, perché Floris ha la mano felice del narratore e ha saputo spogliarsi di quella del giornalista riconvertendo il modo di entrare e uscire dalle vicende, riuscendo perfino a darci con esiti convincenti la psicologia dell’intero paese e quella dei protagonisti. Il risvolto di copertina avvisa che Floris ha scritto una “commedia alla sarda”, in realtà si tratta di una commedia vasta che investe non solo i modi e le abitudini, i vizi e le virtù degli italiani, ma dell’intero universo. In certi momenti lo scrittore si diverte, è perfino ridanciano, popolare, ma non abusa mai della sua abilità né espressiva né compositiva. Ha un forte senso della misura e calibra bene dialoghi e descrizioni, indagini introspettive, annotazioni sociologiche e politiche, di costume, di etnologia e di antropologia. Non ricordo bene se fu Balzac a dire che un romanzo deve avere una infinità di diramazioni che devono trovare il punto di coagulo o nello stile o nelle conclusioni delle storie che diventano storia. Mi pare che Floris riesca sia nell’una che nell’altra direzione senza lasciarsi andare a commenti (che avrebbero inficiato la felicità narrativa), creando anche momenti di suspence, di tanto in tanto soffermandosi sui particolari che danno l’idea dell’affresco generale per quadri. I riferimenti utilizzati spesso ricorrono al cinema di cui Floris è sicuramente un grande conoscitore perché non cincischia e va dritto al bersaglio, ma credo che alle spalle ci siano anche molte letture di autori come Alfredo Panzini, Cesare Zavattini, Achille Campanile, Giuseppe Dessì, Mario Tobino, Mario Soldati, Ercole Patti. Questo però ha poca importanza ai fini della riuscita del testo che dalla prima all’ultima pagina palpita irriverente e perfino sarcastico in taluni momenti.  So che la tentazione di molti critici di ricondurre nell’alveo di una Sardegna ancorata ai rituali antichi di Grazia Deledda e di Sebastiano Satta è una tentazione, ma credo che Floris abbia amalgamato modelli che vengono piuttosto di lontano, da Rabelais, da Cervantes, da Gogol, e ne abbia tratto una lezione di metodo che, unita alle suggestioni delle conversazioni coi genitori e i nonni, è diventata una raffinata lente d’ingrandimento sui vizi e le virtù di Prantixedda, metafora di qualcosa di più ampio. In tempi come quelli che stiamo vivendo nella narrativa italiana un libro così ben organizzato, fruibile, piacevole e ricco di mille sfumature e di colpi di scena, è senz’altro un avvenimento. Da troppo tempo stiamo avendo proposte di narratori privi di anima e di talento, non motivati e aggrappati a finzioni che non trovano la strada delle emozioni. Floris invece arriva al cuore, ci trascina nelle vicende, ci fa partecipare a ciò che accade, mette cioè la vita dentro le parole, non esercita solo e soltanto letteratura. Senza vita che palpita, che fa sentire il fiato, diceva Tolstoj, non si possono scrivere romanzi, ma tutt’al più saggi, e nemmeno troppo profondi.

Dante Maffia

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