Appare come un polo alternativo e per certi versi ineludibile, Roma, tra i meandri carsici, ricchi di allusioni, di intermittenze, di suggestioni emesse dal non detto, che caratterizzano le memorie editoriali, culturali e generosamente umane di Giulio Einaudi. Frammenti di memoria si intitola il libro che Einaudi scrive e pubblica, nel 1988, con Rizzoli (ripubblicato dalle edizioni Nottetempo, nel 2009). Un modo per fare il punto su oltre cinquant’anni di appassionata e ininterrotta attività. Un’occasione imperdibile per chiunque abbia amato i libri dello “Struzzo”; o voglia gustarsi un interessantissimo spaccato “dal di dentro” della cultura novecentesca, scoprendo peraltro alcuni segreti fondamentali del mestiere dell’editore. Ebbene, Roma per Einaudi è il contraltare di Torino, dove vive la maggior parte della sua vita e dove, ventunenne, fonda, il 15 novembre 1933, quella che poi sarà una delle più importanti e prestigiose case editrici europee. Una lunga navigazione tra le onde e le tempeste del “secolo breve”: navigazione «pericolosa» e «audace», orientata alla scoperta dei maggiori talenti della cultura mondiale e bilanciata tra un «cauto illuminismo» e la «profondità dell’emozione» (Francesco Biamonti), come a dire fra testa e cuore. Che sono poi gli argini stessi entro cui procede la scrittura sobria e cristallina delle sue memorie. Einaudi frequenta a Torino il Liceo d’Azeglio al tempo in cui vi insegna Augusto Monti, il mitico professore che forma una intera generazione di studenti – futuri uomini straordinari – al culto etico della libertà, e al conseguente odio per il Fascismo. È la scuola, fra gli altri, di Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Franco Antonicelli. E tuttavia, ricorda Einaudi, il preside «ogni mattina si metteva all’ingresso dell’istituto ed esigeva il saluto romano».
Roma e la romanità, appesantite dalla pompa della nuova retorica, finiscono per coincidere con il regime, con la sua mistica di obbedienza assoluta al duce, alla sua immancabile e indiscutibile ragione. Per chi non si allinea ciecamente, e addirittura osa opporsi apertamente, sono guai: sorveglianza, sospetti, delazioni, retate, perquisizioni, arresti, bastonature, umiliazioni, confinamenti. Ne sa qualcosa Pavese: la mattina del 13 maggio 1935 la polizia irrompe nel suo studio di via Lamarmora, a Torino, dove trova una lettera del sovversivo Altiero Spinelli e lo dichiara in arresto. Pavese viene recluso nel carcere romano di Regina Coeli e poi, dopo un mese di detenzione, condannato a tre anni di confino, da scontare sulle rive joniche di Brancaleone Calabro. Le odiose coercizioni dittatoriali imposte dal potere centrale romano potrebbero indirettamente rendere questi intellettuali idiosincratici, se non ostili, alla Città Eterna, o almeno immuni dal suo fascino offuscato. Si tenga conto, inoltre, della cultura piemontese di origine, austera e poco incline a familiarizzare con le manifestazioni di una città sostanzialmente meridionale, ad occhi sabaudi, come Roma. Einaudi comincia suo malgrado ad avervi a che fare. Nel 1938 è a Bassano del Grappa, dove segue i corsi per allievi ufficiali degli alpini: tre mesi «intervallati da frequenti viaggi a Roma, convocato con telegrammi urgenti di servizio dall’ammiraglio Pini, capo di Stato Maggiore della Marina». Roma gli diventa più familiare allorché, nel pieno della guerra, per conquistare nuove fette di mercato e ampliare il numero di lettori, la casa editrice decide di aprire una succursale romana, in via degli Uffici del Vicario, n. 49:
«Gli uffici di via del Vicario a Roma erano sfarzosi. L’arredamento era del nobile palazzo: grandi specchiere. Mensole e lampadari di cristallo, tavoli, sedie e poltrone d’epoca. Al pomeriggio, sino a tarda sera, si susseguivano concitate riunioni, si progettavano collane e riviste».
Pavese si trasferisce a Roma, per guidare le attività della succursale insieme al gruppo dei giovani romani, tra cui Giaime Pintor, Mario Alicata e Carlo Muscetta. La confusione ingenerata dalla guerra porta ad errori nella numerazione progressiva dei volumi: «alcuni libri venivano stampati a Torino, e altri a Roma, senza che Roma sapesse dell’attività di Torino, l’Italia essendo divisa in due». In quel periodo tormentato, ma fertile di stimoli, Einaudi riceve da Roma una lettera ironica, in cui Pavese lo rimprovera di esercitare un «sistema di sfruttamento integrale», poiché non paga gli stipendi con la dovuta puntualità: Pavese, allora, minaccia scherzosamente di darsi alla bella vita, secondo un modello dissipativo che – al di là dello scherzo – sembra trarre proprio dall’esperienza romana: «C’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La natura insomma ci chiama, egregio Editore, e noi seguiamo il suo appello». Tragica invece, dopo il bombardamento di San Lorenzo, la lettera con cui Pavese invita Einaudi a smobilitare da Roma. Le parole, evidentemente inabili a rappresentare l’orrore della carneficina, si aiutano con «disegnini a penna di bombe e battaglie».
Nell’ottobre 1944 Einaudi conosce a Roma Palmiro Togliatti. Poi arrivano i giorni tanto attesi della Liberazione. La conclusione della guerra ha per Einaudi lo scenario e il sapore di una Roma stranita, caotica, sfilacciata e contrastata, piena di tensioni irrisolte, seppur festante:
«Il 25 aprile 1945, il giorno della Liberazione del Nord, mi trovò a Roma. Ebbi l’impressione che la città burocratica, ricca ancora di aristocrazia nostalgica e papalina, fosse divisa dalla Roma popolare e laboriosa, aperta alle speranze del futuro. Su questa città soffiò per alcuni giorni il vento del Nord, un vento gelato, che mi sembrò aumentare le paure degli uni e raffreddare gli entusiasmi degli altri. Con Aldemaro Ossella, uno dei compagni di Bassano del Grappa, a quel tempo sempre punito per indisciplina, scorrazzavamo la notte per il centro di Roma, con una macchina sgangherata ».
Nel 1948 il grande economista Luigi Einaudi, padre di Giulio, viene eletto presidente della neonata Repubblica. Resterà in carica fino al 1955 e morirà, a Roma, il 30 ottobre 1961. Giulio intensifica i suoi viaggi a Roma, anche sotto forma di rapide incursioni, per motivi e incontri professionali. Nel libro ci s’imbatte, fra i moltissimi altri, con tre personaggi che per Einaudi assumono la veste, episodica o iterativa, di indimenticabili “occasioni romane”. Eccoli in ordine di apparizione.
Carlo Levi:
«Frequentai Carlo a Roma per lunghi anni. Arrivavo in treno da Torino, alla mattina presto, sbrigavo i miei impegni e verso le due del pomeriggio andavo al suo studio. Spesso lo coglievo ancora nel sonno e faticavo a convincerlo a pranzare con me, prima della mia partenza»;
Thomas Mann:
«Distinto, poco comunicativo, girava per Roma accompagnato da Bianchi Bandinelli che gli faceva da cicerone. Molto attento, si documentava non solo sugli scavi dei monumenti romani, ma anche sulla politica, ed era particolarmente sorpreso dalla diversità dei comunisti italiani. Nel 1954, prima della sua partenza dall’Italia, insieme ad Alberto Mondadori gli offrimmo un ricevimento all’Excelsior di Roma. Si fece attendere per più di un’ora, e arrivato, salutò tutti e se ne andò dopo pochi minuti»;
Eduardo De Filippo:
«(…) tra noi le occasioni di incontro furono rarissime. Una di queste fu a Roma, il giorno di un suo compleanno, al teatro Eliseo. Improvvisò lì per lì un discorso sul suo mestiere e restai folgorato e direi invidioso per la sua capacità di giungere all’essenza delle cose senza retorica, con delicata semplicità. Lo incontrai altre volte nella sua bella casa romana di via Aquileia».
L’interpretazione che Einaudi dà dell’ambiente romano avverte sottotraccia, forse, l’ombra dello stereotipo negativo elaborato dagli intellettuali piemontesi, e in genere settentrionali, circa le mollezze corruttrici della capitale: «Ho notato una certa diversità nelle serate tra amici a seconda che si svolgano a Roma, a Torino o a Milano pur essendogli argomenti della conversazione sempre gli stessi, politica, letteratura, costume». Ed è soggetta inoltre a dinamiche peggiorative, che riflettono – pur con le dovute differenze – il processo generale di scadimento del dibattito culturale, lungo il corso del secondo Novecento.
«A Roma, nei piccoli incontri tra amici, i discorsi che un tempo, con Calvino, o Moravia, o Pasolini, erano tesi su un filo di intelligenza, di arguzia, di illuminazione, oggi con altri, pur colti e intelligenti, scivolano spesso nella piccola cronaca quando non nel pettegolezzo».
Roma, in fin dei conti, è la città fatua del “chiacchiericcio”, e non ha né la vivacità di Milano né la serietà di Torino. Per dire questo Einaudi si basa anche su un confronto internazionale tra i caratteri urbani, generalizzati, delle “conversazioni” che ha ascoltato e osservato durante i suoi frequenti viaggi, in Italia e all’estero: Torino, così, finisce per assomigliare a Londra; Milano a New York; Roma a Parigi.
Marco Onofrio
Molto interessante vedere Giulio Einaudi “da vicino” e, per quello che mi preme, Cesare Pavese nella sua attività all’Einaudi, dove traduceva , scriveva i suoi racconti dettando alla dattilografa, scriveva lettere severe ma ironiche al suo editore. La vicenda del suo arresto è più complessa, ma questo saggio è su Giulio Einaudi, non su Cesare Pavese.
Grazie.
Giorgina Busca Gernetti