“Sul Cammino dell’Amore”di Stanislao Donadio, Apollo Edizioni, letto da Francesco M. T. Tarantino

12239526_773833812740045_1171177178615589488_nIn aggiunta al titolo possiamo leggere: Simone di Cirene e altre storie minime, è infatti l’oggetto/soggetto, il punto di vista, la prospettiva, il diorama in cui si muove l’Autore: nessuna teologia nessuna competenza dottrinale, a suo dire neppure una lettura dei Vangeli dove i personaggi delle poesie si muovono e mediante i quali noi ne siamo venuti a conoscenza. E allora cosa resta in questo libro che Stanislao Donadio ci ha voluto regalare, quasi come un dono di Natale, vista la coincidenza dell’uscita con la ricorrenza? Resta lui, il poeta, il suo estro, il suo fardello dell’intimo sentire, la sua poetica, il suo cuore, la sua anima, quel dono di Dio sintetizzato nel suo cognome: Donadio accanto ad un nome altrettanto eloquente: Stanislao che vuol dire: persona gloriosa. Composto di sole dodici poesie riguardanti figure cosiddette marginali dei Vangeli, queste diventano delle vere e proprie liriche intrise di pathos e commozione, di travaglio e sospiri in un rimando di domande senza alcuna pretesa di risposte, senza verità da enunciare o da scoprire, senza un’ermeneutica da definire. Stanislao al più ci pone dei versi da meditare, da sedimentare, da elaborare, non tanto a livello epistemologico quanto esistenziale dal momento che, bene o male, il fenomeno del cristianesimo ha informato l’intera storia di duemila anni in ogni manifestazione culturale, politica, economica, sociologica, morale nonché filosofica e dottrinale. Già il titolo dell’opera Sul Cammino dell’Amore, ci orienta nel percorso di lettura che l’Autore intende indicarci come un sentiero da seguire tra dubbi, incertezze e sconsiderate considerazioni che lasciano intravedere i moti dell’anima e le scaturigini di un cuore in continuo spostamento; una mente che non riesce ad assopirsi nella quiete del già detto, del già asserito, del già definito, come un discorso preconfezionato e definitivo dove non è prevista la replica. Stanislao non ci sta, e a dispetto del prestabilito e dell’assolutizzazione vuole mettere in discussione lo scorrere omologato della narrazione oramai obsoleta e rispondente ai canoni della tradizione. Donadio non vuole il sonno dell’anima e la risveglia continuamente interrogandola, quasi tormentandola per avere almeno la certezza di essere vivo, e questo ne fa un poeta autentico! Se i Vangeli sono narrazioni, le poesie di questa raccolta sono canti dell’anima, un levarsi mattutino di una luce che si dispiega durante il giorno e nell’ora del crepuscolo ne raccoglie gli ultimi raggi per disporre l’anima alla sublimazione del canto stesso in una transustanziazione dell’umano in divino e lì si acquisisce la consapevolezza del vivere in pienezza in una prospettiva ontologica e propositiva che lascia traccia sulla pagina. Come ha giustamente annotato Francesco Fucile nella prefazione, le storie minime di cui il libro parla sono materia di valenza concettuale di grande portata che sfociano in una provocazione culturale prima ancora che poetica […] che ci riguarda tutti da vicino. Ecco una chiave di lettura possibile: leggere questa silloge come un qualcosa che ci tocca, che ci riguarda, che è dentro di noi. Chi non avrebbe voluto, dopo averlo visto morire, assistere come la Maddalena (Maria di Magdala), alla resurrezione di un morto, soprattutto quando lo si è amato e seguito per anni? Ecco che Stanislao si fa interprete di ciò che noi tutti avremmo desiderato e che forse desideriamo:

“L’uomo per cui aveva prima pianto
Dopo tre giorni risorto a nuova vita
Dal buio eterno rinato nell’incanto
Di un cielo terso che smuove la fatica”

È la chiusa della Poesia di Maria di Magdala, l’ultima quartina che chiude il libro che si eleva nell’essenza del mistero cristiano che preannuncia la nostra resurrezione: Di un cielo terso che smuove la fatica, infatti da risorti non avremo a che fare con la fatica. Ma c’è un’altra quartina, sempre nella stessa poesia, in cui la coscienza vigile dell’Autore denuncia il misfatto dell’uccisione del Cristo:

“Di un assassinio ingiusto come tanti
Architettato da poteri infami
In ogni tempo uguali, lestofanti
Sporchi nel cuore e sporchi nelle mani”

crocefissioneNon è un’attualizzazione del sacrificio di Gesù di Nazareth ma è l’attenta lettura dei fatti di duemila anni or sono che Donadio non sa tacere pur facendone una lirica che ci smuove il pianto per una morte ordita dai poteri di allora, che non sono cambiati poi tanto. Qui emerge la coscienza civile di Stanislao che già in altri libri ci aveva dato prova di possederla unitamente all’indignazione e alla rivendicazione di stare dall’altra parte. Facendo un cammino a ritroso, c’è una poesia stupenda che s’intitola: Poesia degli ulivi nella quale il poeta supera, a mio avviso, se stesso, sia nei contenuti, sia nella versificazione con un ritmo incalzante ma nello stesso tempo calmo come un adagio che induce alla meditazione di cose non viste ma certe e immanenti e che l’occhio del poeta intravede:

“A voi che avete visto, a me che sforzo
La mente solo per immaginare
Cercando le parole giuste e il morso
Del calabrone che uccide l’animale

In me presente quando prevale il male”

E meno male che il poeta non ha pretese teologico-religiose altrimenti chissà cosa sarebbe stato capace di concepire ed elaborare, sempre in versi s’intende! Trovo questa poesia alta liricamente e nei contenuti dove l’Autore individua negli ulivi i testimoni di un dramma che stava per compiersi interiorizzandone L’Accaduto in un movimento di traslazione da un orto al proprio cuore. C’è nella Poesia del gallo un lirismo fuori dal comune che richiama una poetica, oserei dire, leopardiana non facilmente riscontrabile nelle altre opere di Donadio, qui raggiunge un apice di maestosità che veramente punge il cuore per la tematica messa a nudo che ci coinvolge tutti:

“Sapremo mai da quale pio cortile
Proveniva la voce del mistero
Che per tre volte cantò quel suo sottile
Canto notturno di tradimento estremo”

5498do01Ed ogni verso che segue reca in sé lo stesso ritmo cadenzato e musicale. Ma è nella Poesia del “buon” ladrone che si coglie una potenza evocativa del mistero del perdono che fa rinascere e sperare di poter correggere la propria storia modificandone il destino e riconoscendo nell’altro la propria stessa identità:

“E nonostante il tuono il mancato sorriso
Gli dissero domani sarai con me in paradiso
Gli dissero stasera verrai con me in paradiso”
[…]

“Dicono fosse giorno invece era penombra
Agli inferi discesa e ridiscesa
La chiave in tasca e al collo il medaglione buono
Dell’ora del tramonto e della resa”
[…]
“Mistero dei misteri e storie che ne cogli
Le verità minori i piccoli raggiri
Le truffe ed i castighi gli intrighi dei mattini”

Forse è nella Poesia di Giovanni che ognuno trova sintonia con una frustrante abdicazione al ruolo di figlio ormai cresciuto ma che porta il segno della figliolanza in un cordone mai reciso che incide le carni ed annuncia una morte prematura e ci si addolora nell’abbandonare la propria madre e la si affida ad un saluto struggente ed inquieto che ci fa dire:

“Madre ti affido questo figlio nuovo
E tu sii figlio di questa stanca madre!
Madre mia un tempo ora quell’approdo
Per te che il giorno finale è più lontano”

225px-Pietro_Perugino_012Se ci sono lacrime da versare questo è il momento! Continuo ad inerpicarmi tra queste liriche fino ad imbattermi nella Poesia di Giuseppe d’Arimatea, dove questa figura, dicono minore, emerge in tutta la sua possanza: Giuseppe discepolo nascosto chiede il corpo del suo salvatore perché aveva intuito che quell’uomo era la sua salvezza, e Stanislao riesce magistralmente a raccontarcelo in versi:

Si perse, Giuseppe, come tante
Comparse sul cammino dell’amore
Scomparve nel giro di un istante
Scontato testimone del dolore”

Non c’è traccia nei Vangeli di questa figura che appartiene alla tradizione ma che ha un alto valore simbolico di umana pietà che induce alla compassione e alla condivisione dell’insostenibile Via Crucis a cui fu sottoposto il nazareno, una Via Dolorosa in quattordici tappe che lo videro patire sotto il disprezzo degli astanti assetati di sangue e di vendetta per aver inquietato le loro coscienze e tolta la tranquillità del sonno per notti e notti: finalmente ora sarebbero potuti tornare tranquilli al loro sonno interrotto da un sedicente messia, ma qualcuno coraggiosamente mostra pietà per tanto dolore e sangue: lei la Veronica:

“Vinse pietà trionfò quel cuore d’oro
L’esile mano che ne palpò il dolore
Per quella sera per mille sere dopo
Ad ogni canto di cicala al giogo

Ed è mistero che si rinnova ancora
A sole buio a luce che perfora
E chiara acceca come neve il borgo
A notte in tasca a spento nuovo giorno”

Questo è Stanislao Donadio, un poeta autentico capace di traslare una narrazione in versi lirici di alto spessore poetico esplicitando il significante della narrazione stessa. Andiamo alla Poesia di Simone di Cirene, un onest’uomo indotto a portare la croce di Cristo non per soccorrerlo ma per costrizione. Anche di questa disavventura il poeta ne fa un piccolo capolavoro scrivendo quasi ispirato:

“Fu da vicino che venne a quel martirio
Spinto da mani ruvide all’aiuto
Quasi improvviso e certo non voluto
Osservatore per caso del delirio”

Ed ecco un’altra figura importante, anche questa detta minore, ma nel piano della salvezza nessuno è da meno di un altro, e Donadio lo sa, perciò scrive di ogni minore con la stessa enfasi di uno ritenuto maggiore. La Poesia di Barabba è un altro inno alla misericordia che promana dall’elevazione di un rivoluzionario che combatte contro il potere costituito e si smarrisce dinanzi all’uomo che lo guarda con simpatia:

“Merce di scambio col Figlio dell’Eterno
In un processo che burla definire
È riduttivo, le pene dell’inferno
Passò quell’uomo prescelto dal Potere”
[…]
“Fu riportato dalla cella al sole
Che il giorno dopo sarebbe ancora nato
Per riscaldarne le membra e le parole
Senza più forza dopo tanto fiato”

Questa poesia è accompagnata anche da un coro bellissimo in cui il poeta si esprime con una lirica veramente corale che lascia percepire lo smarrimento delle folle davanti al mistero.

“In quella piazza si era proprio in tanti
A regolare i battiti del cuore
C’erano i falchi c’erano gli astanti
Qualche colomba qualche pescatore”

c_675044Un’altra poesia riguardante figure minori è la Poesia di Pilato o del Calvario o del centurione anche qui si nota il coinvolgimento dell’Autore nel descrivere quel che gli alberga nell’animo e senza smarrirsi si pone le domande che ci attanagliano da sempre e ci fanno sospirare per la mancata risposta che ognuno di noi non sa darsi. Anche Stanislao non cerca una risposta ad ogni costo, a lui basta meditarci sopra ed elevare un canto per raccontare ancora l’evento di quel Gesù di Nazareth morto crocefisso e risorto per portare un messaggio di pace, di giustizia, di salvezza:

“Sciacquò Pilato le mani nel lavabo
L’altro era già lontano chissà dove
Mi piace immaginare cosa a tavola
Pilato quella sera ingurgitò”
[…]
“Che picchiò duro fino alla collina
Così ci piace fantasticar le croci
Trine e già pronte fin dalla mattina
Irte più tardi nel mormorio di voci”
[…]
“Descrivono le cronache del tempo
Che tremò terra si sentì un boato
Un grido estremo si ascoltò nel vento
Fuggì l’agnello si pentì il soldato”

Sono potenti le poesie di questa silloge che è nata per un bisogno del poeta di cimentarsi col racconto evangelico dei patimenti del Cristo attraverso queste storie minime che pur inquietandolo ne hanno permesso la liberazione coinvolgendolo in un comune intimo patire. La Poesia di Lazzaro è la chiave interpretativa per una lettura proficua di comprensione e ristrutturazione del pensiero di Donadio che quasi ci prende per mano insegnandoci a camminare, appunto, Sul Cammino dell’Amore, attraverso l’incontro di persone in carne ed ossa che hanno conosciuto l’amore: quello di Gesù Cristo!

“Lazzaro forse per molto tempo visse
Forse scomparve a fine settimana
Quello che è certo si perse nell’eclisse
Di un’altra minima storia di richiamo

Sicuramente fu prova generale
Di ciò che avvenne più tardi a sua memoria
Resuscitò sé stesso nel finale
E fu l’inizio di una grande storia”

cristo20E sono giunto all’ultima/prima poesia: Poesia del contrario, quella dei “se”, quella che vorrebbe raccontarci una storia contraria, non codificata, forse la storia che piacerebbe a tutti quanti, da inventare con un lieto fine e con le luci di Natale e la commozione davanti al presepe, la storia che annulla il tradimento e i patimenti dell’uomo Gesù, la storia che lo vuole soltanto uomo o quella che lo vuole soltanto Dio e magari senza incarnazione, senza quegli scalmanati dei discepoli e senza aureola né miracoli, senza moltiplicazioni di pani e pesci e senza folle al seguito. Un Cristo fuori dalla storia relegato nei cieli ad accontentarci ad ogni richiesta. Un idolo fatto su misura per ognuno di noi da indossare come un abito alla moda quando va di moda. Un feticcio scaramantico e inerte che non ha mai incontrato nessuno perché mai è venuto sulla terra: uno sconosciuto senza sentimenti, in modo da poter dire:

“Saremmo alberi senza frutto
Grano che non si fa pane
Tutte le volte che accendi forno
Saremmo a terra nel nuovo giorno
Stormo di anatre migratorie
Lune spezzate
Saremmo storie
Scorie del Tempo da reiterare
All’infinito per spiagge e mare”

Un bel libro veramente, da leggere e rileggere e meditare. Se sia o meno un capolavoro non ha alcuna importanza; come dice l’Autore stesso, l’importante è essere fiero di averlo scritto!

Francesco M. T. Tarantino

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