Personalità prepotente e aggressiva, Dante è anche il creatore di poche, ma delicatissime figure femminili, in cui riflette quel bisogno di amore, delicatezza e gentilezza, che sicuramente non riuscì a dargli Gemma Donati, la quale non solo non compare mai come destinataria dei versi del marito, ma, sul piano umano, non riuscì a capire quanto questi avrebbe gradito che ella, lasciando Firenze e parenti, si fosse ricongiunta a lui negli anni dell’esilio, dandogli la possibilità o l’illusione di crearsi una nuova condizione di stabilità e tranquillità. Invece sembra – ma non è assolutamente certo – che solo nel 1318 ella si decidesse a raggiungere il marito, ormai stanco e allo stremo della resistenza, destinato a morire tre anni dopo.
Certamente, comunque siano andate le cose, Gemma Donati non fu una buona moglie, né fu amata, se bisogna dare un senso ad alcune avventure sentimentali del marito, anche durante l’esilio, e se, soprattutto, bisogna dar valore alla dichiarazione del Boccaccio, secondo il quale Dante “fu sposato” dai suoi parenti per fargli dimenticare Beatrice. Ciò sarebbe avvenuto intorno al 1290-91.[1] In realtà le cose andarono ancora peggio, sia pure secondo il costume dei tempi. Il fidanzamento di Dante con Gemma Donati, infatti, avvenne, sempre per volontà dei parenti, quando Dante aveva solo dodici anni, nel 1277, “trovata una giovane quale alla sua condizione era decevole”.[2] Così stando le cose, era difficile che si avesse un matrimonio felice. Nessuna meraviglia, perciò, se Dante, “una volta partitosi” da Gemma, “mai né dove ella fosse volle tornare, né sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai, con tutto ciò che di più figliuoli egli fosse parente”.[3]
Da qui, per contrapposizione, la mitizzazione di Beatrice, ma soprattutto, a livello di immaginario, la creazione di figure femminili, che, dolci e devote, sopportano fino in fondo il proprio ruolo, anche quando, in cambio, abbiano ricevuto solo torti e dispiaceri. Tale è il caso di Francesca da Rimini, la quale, costretta a sposare, per contratto politico, un uomo che non amava, avendo poi fatto una propria scelta, sia pure sbagliata, ne porta e ne accetta dignitosamente e rassegnatamente tutte le conseguenze. Non una parola di rammarico o di incomprensione o di rimprovero ella muove a Paolo, che con lei ha consumato e condiviso la tragedia d’amore. Anzi vi è profondo affetto e persino pietà per quell’uomo, che, “preso” dalla splendida e irresistibile bellezza di lei, fu quasi fatalmente trascinato nel vortice del duplice omicidio. “Amor – dice Francesca – ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui della bella persona / che mi fu tolta; e il modo ancor m’offende”. Francesca, in altre parole, tende a scagionare da ogni responsabilità Paolo, assumendo su di sé, e sulla fatalità, tutto il peso e tutta la colpa di quanto è successo. Questo, e solo questo, spiega il motivo per cui a parlare è lei e non invece Paolo, che, per tutto il tempo del racconto di Francesca, tace e piange (Inferno, V, vv.100-138).
Non meno dolce e pudica, cioè “gentile”, è l’allusione di Pia dei Tolomei al marito, che, a quanto si crede, si volle liberare di lei, buttandola dalla torre, solo perché aveva altra donna a cui intendeva unirsi. Non spiega, Pia dei Tolomei, come morì; rimanda allusivamente e vagamente al marito, dicendo: “Salsi colui che innanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma” (Purgatorio, V, vv.130-136). Anche in questo caso non c’è rancore, ma solo, al massimo, pena per chi ha saputo commettere così atroce violenza.
Altrettanto carico di dolcezza e pietà è il racconto di Piccarda Donati (Paradiso, III, vv. 97-123), che non nomina i suoi persecutori, ma semplicemente si limita ad indicarli in modo vago e generico, come “uomini… a mal più ch’ a bene usi”. Proprio quell’espressione, tuttavia, nella sua genericità, può avere un significato più vasto e più amaro di quanto possa apparire, perché, se il tono vago toglie ogni carica di rabbia e di vendetta personale alle parole della donna, ormai beata, contemporaneamente vorrebbe indicare una generale condizione di violenza nella società del tempo. Automaticamente si punta ad identificare uomini e violenza. Dal quale intreccio strettissimo sembrano escluse le donne, le quali, condannate non ad agire, ma a subire le decisioni altrui, non hanno che la superiorità del distacco e del perdono. Nel mondo, cioè, esse non hanno peso e spessore; gli uomini fanno di loro quello che vogliono, sicché, nella società, risultano comparse fuggevoli e sfuggenti.
Per analogia o contrappasso, nel presentare le anime del cielo della luna, Dante ne sottolinea il carattere evanescente e sfumato, senza rilievo di contorni. Si è pensato che ciò fosse in relazione con lo loro vicinanza alla terra. Non sono, infatti, splendenti di luce e di riso come le anime superne. E’ preferibile, però, pensare che ciò sia in conformità con la scarsa forza di volontà e l’impalpabile personalità che esse dimostrarono nel mantenere fede ai loro voti, tanto che facilmente cedettero alle violenze altrui. E se si pensa che quello di Piccarda Donati è il canto di personalità femminili, l’aspetto sbiadito delle anime non può non identificarsi con la condizione generale delle donne e col loro ruolo marginale nella società. Si vuol dire che, non avendo Dante notato e collocato alcun uomo tra le vittime della violenza, e avendo, invece, indicato i prepotenti nella loro connotazione di “uomini”, non si può non pensare ad una evidente allusione ad una società organizzata per soli uomini, che, perciò, sono i primi, se non gli unici responsabili della condizione in cui versa il “mondo”, parola chiave, che condensa tutta la concezione pessimistica che della società ebbe Dante.
Il “mondo”, in Dante, ma in particolare nel passo citato, è sempre contrapposto al cielo; il cielo è su, mentre il “mondo” è giù. Nel “mondo” uomini prepotenti possono impunemente, per ragioni politiche, cioè di potere, costringere due donne, come Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla, ad uscire dal convento e sposarsi, così come costrinsero Francesca da Rimini a sposare Gianciotto, uomo da lei non amato. Chiaro è il riferimento ai matrimoni medievali, che mai, o quasi mai, avvenivano per amore. Il vero amore, perciò, come accade nei cicli cavallereschi, era quello coltivato fuori del matrimonio, perché solo quello si sottraeva ad ogni contratto o compromesso.
Sfuggire al matrimonio forzato si poteva, da parte delle donne, anche se non sempre, solo facendosi suore, cioè contraendo altro tipo di matrimonio: quello con Cristo. E proprio in termini matrimoniali si esprime Piccarda Donati, allorquando riferisce dell’ordine delle Clarisse, in cui ella volle chiudersi, perché potesse “vegliare” e “dormire” con quello “sposo” “ch’ogni voto accetta / che caritate a suo piacer conforma”. Per tale sposo Piccarda fece la sua “fuga”, ma non verso il “mondo”, bensì dal “mondo”. Né si trattò della fuga di una donna che aveva perso qualsiasi speranza di altro matrimonio, ché bella essa era e “ancor giovinetta” (Paradiso, III, vv 97-108). Già nel Purgatorio (XXIV, vv.13-15), al momento dell’incontro con Forese Donati, fratello di Piccarda, Dante aveva precisato che difficile era dire se Piccarda fosse più bella che buona, o viceversa. Ancora alla bellezza di Piccarda Dante allude nel passo in esame, facendo dire alla stessa che “non la celerà l’essere più bella” (Paradiso, III, v.48). Soprattutto, però, si sottolinea la giovane età di Piccarda, che era nel fiore delle illusioni e delle speranze, e quindi ancora in età matrimoniale.
“Dal mondo … giovinetta fuggi’mi” – ella dice ai vv. 103-104; né dice di essere entrata in convento, bensì di essersi “chiusa” in esso, come in luogo riparato e protetto. Lì ella promise di percorrere la “via” della “setta”, di Santa Chiara. Si evidenzia, così, non solo la separatezza, ma anche la contrapposizione che c’è tra “mondo” e “setta”. Di tale contrapposizione e separatezza sono prova tragica quegli uomini che, entrando come profanatori nel “dolce” chiostro abitato da sole donne, gettarono queste in mezzo alla strada, cioè tra le braccia avide di altri uomini come loro.
Che la condizione di Piccarda fosse quella generale delle altre donne, sembra attestato dal fatto che ella estende naturalmente la sua vicenda a quella di Costanza d’Altavilla, donna d’alto lignaggio, imperatrice, che, pur essendo in una condizione privilegiata, non riuscì a sfuggire, nemmeno essa, ad analogo destino. Costanza d’Altavilla ha, perciò, valore ancor più emblematico. Così Piccarda la coinvolge nella sua morte: “Ciò ch’io dico di me di sé intende; / sorella fu, e così le fu tolta / di capo l’ombra delle sacre bende” (Paradiso, III, vv. 112-114).
Si diceva che tutto il canto è al femminile, tanto inconcepibile era, allora, che un uomo si lasciasse trascinare fuori del convento e fosse costretto a sposarsi. Avevano tentato i genitori di San Francesco con San Francesco, cercando di separarlo da donna Povertà; ma non ce la fecero. La conclusione stessa del canto di Piccarda è al femminile. Infatti, “Ave Maria” – canta Piccarda Donati ai vv. 121-122 -, invocando quella fortunata Donna, la cui vita matrimoniale e familiare non fu decisa da uomini, ma da Dio. Ed Ella ne fu contenta, tanto da dichiararsi subito a disposizione di Colui che così aveva deciso. “Ecce ancilla Domini” – fu la sua risposta. Per questo fu benedetta fra le donne, e per questo fu piena di grazia.
Immersasi nel canto di Maria, e ormai immedesimandosi nel celeste destino della Vergine, l’anima di Piccarda, che fu “leggera” in terra, può finalmente riacquistare la sua “gravità” e la sua sicurezza. Lei, a cui fu vietato di rimanere “chiusa” nel “suo” convento, può ora avvolgersi e chiudersi definitivamente in altro Convento, quello dei beati, scomparendo lentamente in esso, “come per acqua cupa cosa grave ” (Paradiso, III, v. 122). Di là, certamente, nessun uomo potrà mai più strapparla.
Così letta, la vicenda di Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla può dar ragione a chi, per anni, ha sostenuto che la questione femminile è la questione stessa della giustizia e della pace nel mondo, così come ci fu chi ritenne che tutto si riduceva a questione operaia. Ché, nel giorno in cui fossero cessate le discriminazioni nei confronti della classe operaia, investita di una vera e propria missione, al mondo avrebbero trionfato solidarietà e cortesia, gentilezza e amore. Lo stesso sarebbe successo con l’approdo delle donne al potere.
Si direbbe, cioè, a leggere Dante, ma anche molti altri poeti di tutti i luoghi e di tutti i tempi, che altra sarebbe la vita umana, se in essa ugual ruolo svolgessero le donne. Era, per fare un esempio particolare, la stessa convinzione del Manzoni, che, nel coro del Conte di Carmagnola, si domandava: “Ma spose non hanno, / non han madri gli stolti guerrieri? / Perché tutti i lor cari non vanno / dall’ignobile campo a strappare?”. Se ciò non accadeva, era solo perché esse non avevano autonomia di scelte e, sottomesse ai loro uomini, erano da essi brutalizzate. Tale, in forma clamorosa, è il caso delle donne dei bravi. Quando fra Cristoforo percorre il suo cammino verso il castello di Don Rodrigo, lungo la strada vede le donne dei bravi deformate nel corpo e nello spirito. E Manzoni aggiunge significativamente, per indicare il loro livello di abbrutimento, che avevano facce “maschie”, cioè erano più uomini che donne. E avevano “braccia nerborute, buone di venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse”. Insomma, avevano perso la loro femminilità.
L’ingresso della donna nella società, oggi, è in gran parte, se non completamente, avvenuto; ma né gentilezza né finezza hanno trionfato. Con i mafiosi, con i camorristi e con i sequestratori di persona, anche di bambini, spesso si arrestano le loro mogli, figlie e sorelle. E non perché esse siano costrette dai loro uomini. Spesso si son messe in proprio e dirigono. “Persino nella trasgressione le donne escono dallo stereotipo, abbandonando il ruolo subalterno – scrisse Silvana Mazzocchi su “Repubblica” di venerdì I novembre 1991, citando il caso di due impiegate romane che riscuotevano tangenti. “L’emancipazione – continuava la stessa giornalista – ha omologato le donne alla cultura corrente”. Ella, però, non spiegava perché la cosa sorprendeva e scandalizzava. In realtà Dante, Manzoni, Ariosto, Tasso e infiniti altri, creando il mito femminile, altro non avevano fatto se non interpretare un inconscio collettivo, che ha sempre sperato in un nuovo ordine di cose, affidando una funzione salvifica ora a questo ora a quello, generalmente a chi non ha ancora raggiunto il timone del potere.
Come si poteva pensare ad una donna spietata? E come si poteva pensare ad un operaio senza scrupoli, che, una volta diventato padrone, sottopagasse il suo antico compagno di lavoro e lo sottoponesse alle stesse o peggiori angherie, cui egli pure era stato sottoposto? In verità, dopo tanto operaismo e femminismo, anche queste due illusioni se ne sono andate. E’ un dato di fatto; non è nostalgia e non è rammarico. La questione morale, insomma, non è né questione di classe né questione di sesso. Ognuno, in campo etico, sceglie sempre e solo per conto suo, assumendosene tutte le responsabilità. I geni della donna, in tal senso, non sono migliori di quelli dell’uomo. Salvo un razzismo alla rovescia.
Giovanni Caserta
[1] G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in Opere in versi, Corbaccio, Trattatello ecc., a cura di Giorgio Ricci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p.581.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p.586.