Otto voci poetiche fiorite nel teatro italiano d’oggi (M. Gualtieri, C. Lievi, D. Maraini, M. Martinelli, E. Moscato, M. Palladini, F. Randazzo, G. Scabia), di Giorgio Taffon

1430109882_11150512_823782861051216_6097647898742119330_nIl Novecento letterario italiano dal secondo dopoguerra in poi, ha registrato presenze di scrittori e poeti che hanno elaborato scritture da offrire alla scena, spesso con importanti risultati anche spettacolari, da Pier Paolo Pasolini a Mario Luzi, da Giovanni Testori a Edoardo Sanguineti, per restare a nomi esemplari (per approfondimenti  rinvio a M. Ariani, Giorgio Taffon, Scritture per la scena. La letteratura drammatica nel Novecento italiano, Roma, Carocci, 2001). Con la fine del Novecento il rapporto tra poeti e mondo della scena, in alcuni casi, si è fatto più stretto, per cui lo scambio tra teatro e scrittura poetica ha registrato una reciprocità di influssi, di sintonie, di incastri, di reciproche seduzioni che ha raggiunto in talune esperienze notevoli valori artistici, formali e contenutistici. In alcuni casi è accaduto che i teatranti stessi, attori o registi o drammaturghi, si siano avvicinati alla scrittura in versi con ragguardevoli  risultati, e a volte raggiungendo autonomi valori espressivi indipendenti dalla scena stessa, in cui la parola non resta solo parola da dire o agire in teatro, ma anche da “leggere”.

Intendo in queste mie pagine individuare un gruppo di autori legati professionalmente al lavoro teatrale, e agli ambienti ad esso relazionati: uomini (e donne) di scena che hanno anche saputo raggiungere sul piano della scrittura in versi risultati di indubbio valore espressivo e mitopoietico, ancor prima di assegnare i loro testi al genere lirico o  a quello drammatico: in ordine alfabetico si tratta di:  Mariangela Gualtieri, Cesare Lievi, Dacia Maraini, Marco Martinelli, Enzo Moscato, Marco Palladini, Francesco Randazzo,  Giuliano Scabia. Di ognuno di loro ho preso in considerazione solo  una parte della loro produzione poetica (ripeto, sia che fosse dall’inizio destinata alla scena, oppure no): una raccolta, o anche una sezione di raccolta: insomma in qualche modo ho preso in esame  di ognuno una pars pro toto. Quel che importa in questa specifica  sede è verificare che dal terreno della  cultura teatrale italiana degli ultimi trent’anni circa, sono anche spuntati dei fiori poetici molto belli e variopinti. Ho seguito un criterio semplicemente cronologico nella consecutività dei nomi qui presenti, in base agli anni di uscita dei loro titoli presi in considerazione, avendo questo mio scritto  anche un carattere storiografico e riepilogativo. Gli autori da me considerati, in un arco di circa vent’anni, non costituiscono un elenco di nomi esaustivo: la situazione fattuale determinatasi nell’ultimo trentennio sicuramente ha rivelato tante altre individualità meritevoli di attenzione, ad esempio nell’utlima generazione di ventenni-trentenni: se ne potrà discutere in altre sedi, occasioni, situazioni. Mi auguro comunque di delineare un piccolo significativo capitolo di storia della poesia italiana di fine Novecento – inizio Duemila, suscettibile di ulteriori approfondimenti.

enzo-moscatoEnzo Moscato è considerato uno dei maestri  del teatro napoletano posteduardiano, e del teatro nazionale stesso (gli ha dedicato pagine di ottimo rilievo analitico l’italianista Franca Angelini, col suo Rasoi  teatri napoletani del ‘900, Roma, Bulzoni, 2003).  Attore regista e drammaturgo ha ideato un teatro dove sono rappresentati interni squallidi, piccolo borghesi, ma degradati, in una Napoli contrassegnata come metropoli disumanizzata, antropologicamente trasformata (un quadro in sintonia con le idee pasoliniane); personaggi soli, in piccole stanze anonime, accompagnati  dai nuovi mezzi di comunicazione di massa; personaggi ambigui, omosessuali,  travestiti, presi da squallidi commerci e assieme bisognosi strenuamente di affetto; figure femminili ansiose, nevrotiche, imperanti,  ossessive; personaggi immersi in oscurità notturne, presi dall’irrazionalità se non dalla follìa.

   Nel 1988, con la regia di Toni Servillo, anche interprete, debutta lo spettacolo Partitura (il testo è in L’angelico bestiario, Milano, Ubulibri, 1991), dove è la figura di Leopardi a farsi protagonista, personaggio teatrale che rinvia agli ultimi anni di vita del poeta, ospite a Napoli di Antonio Ranieri. Il testo è sostanzialmente un monologo in versi liberi, diviso in tre parti (tre atti): Meduse, Rondò, Schiume; linguisticamente è il dialetto napoletano a prevalere, infarcito in diversi passaggi dell’italiano standard, e di brevi rimandi al francese , allo spagnolo, all’inglese, al tedesco. Nel suo testo Moscato immagina un Leopardi che “legge” una realtà napoletana già avviata alla condizione di fine Novecento: il poeta Leopardi si fa alter ego del poeta Moscato, per cantare, maledire, esaltare, “Neapolis” e i suoi abitanti, compreso l’amato amico “Rainer”; ma, tutto ciò, sapendo fin dall’inizio che nessun verso, anche il più nitido, il più ispirato, è in grado di riscattare nelle intenzioni una città bordello, puttana, abitata da “bestie”, sporca, lurida, “zoccola”. Il Leopardi di Moscato è un poeta  ridotto all’anonimato, discretamente nascosto dall’amico Ranieri, perché  inadatto a inserirsi tra la plebe che popola i vicoli della città; ma, immagina l’autore, il Leopardi rischia di perdere la sua stessa immaginazione, assieme alla vista “fisica”: e sa che la mediocrità del Ranieri è tale da non capire il dramma intimo del poeta recanatese: la visione così s’incupisce fino al nichilismo, e al pensiero che come Ninive, Tiro, Sidone, Cartagine, Micene, anche Napoli è destinata a perire, a sparire: e allora al poeta non resta che <<o ritmo d’a lengua, / a rumba de’ parole, / a raspa, o naniana dei Perdigiorno! // Io sto ccà, al vicolo del Pero e moro. / Io, ‘o Scrivanello, ‘o Furastiero.>> (p. 272). L’unica immagine che nei vicoli della vecchia Napoli si ha del poeta è quella drammatica di un “diverso”, sia per la frequentazione strettissima col Ranieri, sia per essere stato visto furtivamente accanto ai femminielli (come recentemente nel film di Martone Il giovane favoloso, viene mostrato verso la fine proprio in omaggio a Moscato): e quel “S’agapò” che i femminielli gli avrebbero dovuto rivolgere <<neppure sapevano che volesse dire ti amo / o che nella più viva delle carni / iniettassero quel grido / come il più indelebile veleno.>> (p. 278). Tutto il testo è scandito come una continua cantilenante sequenza di immagini, di invettive, di ripetizioni ossessive, con riferimenti i più vari, alla cultura sia popolare che “alta” dell’universo napoletano (con una ripetuta ironica citazione “edoardiana”: <<A nuttata è passata…>>; come pure citato è Viviani). Le rime in genere ribattute nello stesso verso, o comunque poco dislocate l’una dall’altra, contribuiscono  a scandire moduli sintattici e prosodici ripetitivi, tramite i quali le invocazioni, o le maledizioni, o le esclamazioni, costituiscono un ritmo verbale percussivo. Il testo di Moscato resta ancor oggi esemplare, sia per la novità della scrittura drammaturgica, sia per un autonomo valore di scrittura e relativa lett(erat)ura.

220px-Dacia_Maraini_2012Nel 1998 la Rizzoli fa uscire un’antologia delle poesie di Dacia Maraini, Se amando troppo (Milano, Rizzoli, 1998), un macrotesto vero e proprio, essendo stata compiuta la scelta dei componimenti, dall’autrice stessa, che li accorpa in varie sezioni, ma non in ordine cronologico, né in ordine rigorosamente tematico, piuttosto seguendo nuclei d’ispirazione anche esistenziali. Non sono poesie strettamente e tematicamente legate al mondo del teatro, se si eccettuano quattro testi. La Maraini è drammaturga, regista e organizzatrice teatrale fin dalla sua giovinezza (si veda su tali aspetti D. Maraini, E. Murrali, Il sogno del teatro. Cronaca di una passione, Milano, Rizzoli, 2013): un teatro votato alla difesa dei diritti delle donne e in genere  delle vittime, anche quelle del mondo dell’infanzia; un teatro in cui i suoi testi hanno raggiunto platee internazionali, con riscontri paragonabili a quelli ottenuti dalla sua narrativa (è il caso, ad esempio, di Maria Stuarda  del 1981). La scrittura poetica tout court sembra restare irrelata rispetto a esigenze espressive sceniche, per cui senz’altro deve essere letta come dimensione creativa letteraria comunque autonoma. In realtà, fissate le dovute distinzioni (l’autrice stessa afferma che la scrittura tetrale è “verticale”, e quella narrativa è “orizzontale”), non si deve, a mio parere, separare le varie modalità di scrittura. Compresa quella lirica, poetica. Già Niva Lorenzini nel suo studio Poesia e disarmonia (in Scrittura civile. Studi sull’opera di Dacia Maraini, a c. di J. C. de Miguel, Roma, Giulio Perrone editore, 2010) sottolinea l’apertura di significazione che attuano sia la presenza del corpo, della corporeità, che la presa di coscienza del mondo a partire dalla relazionalità: sensi del soggetto–realtà. La studiosa, opportunamente, sottolinea nella poesia della Maraini la frequenza con cui un Io si rivolge ad un Tu, e come, specie quando quel tu rinvia alla figura paterna, si registri una frattura, una “disarmonia” sintattica pur in una costruzione del verso essenzialmente denotativa e discorsiva. L’allestimento del volume antologico Se amando troppo   organizzato dalla scrittrice-drammaturga-regista, a mio parere, non fa altro che confermare che le sue scritture si rapportano come vasi comunicanti: come a teatro dove massimamente si comunica la presenza significante del corpo e il tropismo sensoriale e sensuale tra attore e spettatore, è la corporeità a far da molla mitopoietica fondamentale (<< ho parlato col mio amore / la sua bocca marina / i suoi occhi sciolti ossidati>> (p. 15), corsivi miei; <<se  questo è amore amore mio / mi taglio subito un capezzolo / e te lo mando per posta>> (p. 17); <<ho amato il tuo lungo corpo di ragazzo / che cantava seduto su un cippo>>(p. 20). La poesia di Dacia è anche canto delle cose che la circondano, di oggetti, cibi, animali, come nella sua narrativa: tutta un’iconografia che non può non rinviare ad un’attenzione scenografica da teatro, a un senso scenico del décor : <<cosa pensa lo specchio sul muro? / cosa pensa il libro sullo scaffale? / cosa pensa il piatto sulla mensola?  / cosa pensa il mio vestito appeso al sole?>> ( p. 66);  e naturalmente anche in questo libro antologico sono spesso dei personaggi a prendere vita, come sul foglio del drammaturgo che scrive per gli attori, o come le figure fisicamente presenti sulle tavole di un palcoscenico: personaggi che pirandellianamente, a detta dell’autrice, abitano a lungo nel suo pensiero e nell’immaginazione e pretendono di essere poi concretamente espressi: <<Tu padre prendi un tè verde / nel freddo della tua veranda / e annusi  l’aria di vecchie città capovolte / dentro fotografie in bianco e nero>> ( p. 57):  sorta di ritratto del padre che è visto in azione più che delineato fissamente; <<come la chiamerò / quell’unica madre / che mi è toccata in sorte / eternamente ragazza / chiacchierina e infedele?>> (p.109); <<i tuoi calzoni neri, le tue scarpe a / punta, la tua cravatta rossa. Mi hai / baciato un attimo e sei scappato. Nella / coppa della mano tengo un poco del tuo seme.>> (p. 188). Naturalmente è l’Eros ad essere forza vivificante, ma è anche reso come parola  non detta, come sottotesto, nello stesso modo in cui soprattutto a teatro si alternano detto\non detto (<< di lontano lontano lontano / una formica uscì / dalla cornetta azzurrina / per salutarlo ballando / dall’altra parte del mare / provò a chiamare il suo amore / ma fece cilecca, poveretta!>> (p. 147).

Scabia11-1024x665Nel 2003 esce la raccolta poetica di Giuliano Scabia, Opera della notte (Torino, Einaudi, 2003), divisa in tre sezioni, Opera della notte Viaggio d’inverno della cerva  Albo notturno. L’attività artistica e creativa di Scabia si è sempre articolata su più piani: la drammaturgia scritta, la narrazione orale, la fondazione del Teatro Vagante (operante tra gli anni Sessanta-Ottanta), la mobilitazione, attraverso l’invenzione artistica, a favore di cause sociali e politiche, come nella <<azione teatrale>> Marco Cavallo, in appoggio alle battaglie basagliane per la liberazione dei malati di mente; così pure il suo impegno di docente di Drammaturgia all’Università di Bologna ha sempre teso alla scoperta espressiva (e ri-scoperta) della lingua italiana, a partire (ma non per finire) dai suoi strati linguistici dialettali. Si può intuire da tale brevissimo excursus dell’impegno scabiano come l’artista abbia privilegiato le dinamiche del suo lavoro come un processo piuttosto che come un “prodotto” stabile e definitivo; questo dina- mismo lo ha portato al coinvolgimento collettivo dell’espressione artistica, al radicamento nella cultura popolare, e al suo immaginario simbolico; e a collocare le sue intuizioni e “visioni”  tra mondo della realtà storica e quello della fantasia, come pure a privilegiare l’impostazione ludica, e al recupero di memorie locali (quali quelle dell’Appennino emiliano, o della vita di pianura nel territorio padovano). Di conseguenza a tali presupposti teorici e pratici Scabia ha insistito molto sulla sua ricerca linguistica, puntando sull’oralità della parola: il tono del narratore, la “cantabilità” della materia narrativa, delle storie, delle favole: il suo portare il racconto tra colline e monti dell’Appennino, in mezzo a boschi come teatri “viventi”, in ambienti fatati, hanno offerto una ragion d’essere all’invenzione di storie fiabesche, “paniche”, ove tutte le creature fanno parte di una visione del mondo che lega comicamente bestie e uomini e divinità nella ricerca di verità antiche, profonde, archetipiche, da riscoprire tramite una parola evocativa e linguisticamente sempre viva. Cosicché tale ricerca di Scabia è ribadita anche in questo volume di poesie del 2003: la scrittura poetica per lui significa immergersi nell’acqua molto profonda dell’inconscio della stessa scrittura, una scrittura che risuona nel teatro della coscienza, dove si sviluppano “visioni” notturne: <<La notte è densa – molto attraversata. / Lucciole e grilli – come sposi e spose – / come in un cartone animato / al piede chiaro sembrano // inneggiare – come a un dio che appare>> (p.7). Nello spazio-tempo notturno che si apre nelle visioni abitano “camminatori” luminosi e Fate benevole, le cui apparizioni portano il poeta a dichiarare:<< Che le fate non esistano è una fola: / loro sono là, lo so, / aspettano l’ombra e la neve, / il suo lieve agguato alla notte.>> (p. 12). E la figura della Fata diviene riassuntiva della creaturalità uni-versale: <<Le rondini – dice – / e le api, le vespe, i serpenti / e tutti gli esseri viventi sono fate>> (p. 14). La fata esige parole “fatate”, che le rime  in cantilena pongono sul fine verso con effetto ritmico efficacissimo: <<guarda, fata, / […] / tu sei il puledro – noi gli occhi delle bestie: / noi la notte e tu lo stormire del vento: / tu la foresta e noi lo strumento: /  tu la voce e noi il turbamento: / tu l’inizio e noi il proseguimento.>> (p. 16). C’è nella poesia di Scabia l’antico sogno pascoliano del poeta che “nomina” il mistero delle cose, del poeta che abita il mistero, specie in uno spazio-tempo favorevole alle solitarie “visioni”: << Ah, in queste rare notti delle visioni / quando camminando, quando volando / l’anima sente arrivare le apparizioni / e di nascosto, gentilmente segreti // si aggirano per i boschi i poeti / con la bocca luminosa / e dicono il nome a questa e a quella / cosa che si rivela nell’ombra!>> (p. 20).

francesco_randazzo_primo_classificatoSempre nel 2003 un giovane  drammaturgo e regista, Francesco Randazzo, fa uscire la sua raccolta Come un pesce azzurro (Roma, Edizioni Il Filo, 2003). Randazzo è tutt’ora un  uomo di teatro e  di cultura di notevole valore, che ha saputo rinforzare i succhi vitalistici delle sue origine siciliane con il gusto di un teatro “alto” e internazionale; anch’egli si è espresso  su più piani, dal teatro  (Il Viceré dell’isola Ferdinandea, Siracusa, Quaderni degli Ostinati, 1997; Otello il Nìvuru di Mazzària, Roma, Bulzoni, 2006, Kren L’isola dei maiali – Dialogo col bambino, Perugia, Edizioni Era Nuova, 2014), alla narrativa (Cronache di prodigiosi amori, Lampi di Stampa, 2005), alla poesia. In Come un pesce azzurro la parola conserva, come a teatro, un alone più denotativo che connotativo: specie nella sentenziosità di battute fulminanti, o di apoftegmi, di sentenze ironiche e aggressive, insomma in quelle figure tipiche anche della retorica del discorso teatrale. Il ritmo dell’elocuzione, come sulla scena, obbedisce più al respiro del recitante-scrivente, o alla sua necessità di affabulare lo spettatore-lettore per via di tropismo psicologico e sentimentale, piuttosto che per acrobazie formali o musicali della parola. C’è pure ad agire nella sua poesia una logica dei contrari, tipica del grande teatro classico (ma potremmo anche definirla una bi-logica, come com-presenza di contrari): sembra che Randazzo abbia fatto propria la stessa lezione shakespeariana, per cui le emozioni possono  sia potenziare la ragione ma anche opporvisi per prendere il sopravvento: <<A volte però, / in sogno o forse no, mi tuffo / nel mare e divoro trangugiandolo / sveltissimo un pesce azzurro ancora vivo. / E in quell’acqua, dopo, posso respirare.>> (p. 14); <<Improvvisamente vidi / non la luce ma  /  un abisso vertiginoso / e abbagliante, bianco / di paura.>> (p. 54).

140324-festival-regia-1-3-030Cesare Lievi fa uscire, per i tipi delle Edizioni l’Obliquo di Brescia, nel 2008, la sua raccolta Nel tempo. Regista, drammaturgo, poeta, traduttore, docente presso l’Università di Milano, Lievi ha coniugato i caratteri di un teatro d’autore d’alto livello (con forti influssi culturali mitteleuropei) con le aperture espressive  di un teatro di ricerca, riuscendo  a inserire queste sue peculiarità anche nei teatri di tradizione e nei teatri stabili italiani, dopo aver lavorato alcuni anni nei paesi di lingua tedesca, assieme al fratello scenografo Daniele, prematuramente scomparso a 39 anni. Nel tempo segue le raccolte Stella di cenere (Venezia, Marsilio, 1994), Altrove qui (Brescia, L’Obliquo, 1998), Ardore infermo (Milano, Scheiwiller, 2004). Il nesso profondo tra espressione lirica ed esperienza della scena nella  silloge del 2008, lo vedo in particolare nell’articolazione immaginativa inevitabilmente condizionata dalle dimensioni del tempo e dello spazio.  A ben riflettere, sulla scena teatrale il tempo lo si può “manovrare”, pur nella finzione: da lineare che è nella vita e nella realtà fisica (diversamente, però, che nella visione della meccanica quantistica) il tempo può tornare indietro (avviene, di fatto, per gli attori nelle prove, ad esempio), può “saltare” in avanti, può essere circolare; e lo spazio, che a teatro è una dimensione fondamentale anche espressiva, attraverso l’immaginativa registica, può rimpicciolirsi e ingradirsi a dismisura e a piacere, può aprire nella libertà o chiudere claustrofobicamente i personaggi e  per tropismo gli spettatori; può determinare l’identità stessa del  personaggio se è uno spazio reso vivo, cioè sovradeterminato da coloro che lo abitano. Il teatro permette, insomma, pur nella finzione e nell’immaginazione di non sentirsi obbligatoriamente prigionieri nel tempo e nello spazio, e così pure la poesia. E come spesso a teatro i morti Forse è la primavera che li fa tornare, come detta il titolo di una breve sezione della raccolta: <<Non ti ho più rivisto neppure in sogno: / sei un po’ ovunque ora, in un mai più / sempre presente. Mi manchi, e sorrido / confessandolo a me stesso, perché // ne rideresti tu […] Da solo // non te la cavi tanto male – / diresti – e io qui sono…>> (p. 50). Spesso la figura assente è quella del fratello, è come un personaggio teatrale che appare come una persona vera e propria ma materialmente non è quella persona stessa: << e sei apparso senza te / come fai solitamente / senza parlare / tra il tavolo, la finestra ed il lago.>> (p. 51). La sezione Poesie per il monte Baldo ( luogo d’elezione del poeta di Gargnano, montagna prospiciente e sovrastante il lago di Garda) mostra come il poeta ribalti i metri di osservazione e giudizio del reale tramite il dettato lirico, e di pensiero poetante, per cui il monte  è: <<Da sempre lì / a volte vicino, a volte lontano – / […] // confine del mio cielo così dentro / la testa ormai che penso / il mondo una delle sue forme / uno dei suoi mille travestimenti>> (p. 33): la sua montagna si fa spazio assoluto, diventa IL mondo;  e penetra addirittura in una scena d’interno assumendo tratti del tutto antropologici, al punto che il poeta lo fa vivere organicamente, a rappresenatre un assente ancor più presente: <<Di pietra e vento a volte così dentro / queste stanze da sembrare / umano, mano, piede, occhio di chi / è scomparso da tempo>> (p. 34).

saba3Nel 2009 per i tipi di Zona di Arezzo, esce la raccolta Iperfetazioni di Marco Palladini, scrittore, poeta,  critico, e assieme drammaturgo e regista per un teatro alternativo e libero. Prima di questa raccolta come poeta aveva già pubblicato, tra le altre sillogi, Autopia (Roma, Joyce & C. , 1991) e La vita non è elegante (Roma, Fermenti,  2002). Vi sono poeti, e Palladini è sicuramente tra questi, i cui versi aspirano a saltar fuori dalla pagina scritta, a farsi voce, a farsi grido, a divenire materiale vivo per la scena. Certamente è il polemòs, è lo spirito guerriero (Foscolo?) a vivificare la scrittura lirica di Palladini, che, dall’omfalòs più viscerale, va verso gli altri, dia-logicamente. Ecco che all’autore occorre una parola che “attraversi”, che rompa legami di senso, passando tra più lettori-uditori: è per questo che, avvicinandosi a sperimentazioni che vanno oltre il postmoderno, e semmai contro il postmoderno, la sua invenzione elocutiva, retorica, lessicale inventa nuovi coni, o “ricompone” parole lavorando sul significante, o parodizzando segni linguistici  standardizzati: <<Tra GODot e GODzilla>>; <<Torrida l’estate orrida>>; <<l’uomo del banco dei segni>>; <<italieni>> per dire degli italiani alieni o\e alienati. La poesia di Palladini dunque prende totalmente le distanze dalle opzioni di scrittura tutt’ora vigenti o strettamente elegiache e intimistiche, o “politicamente corrette”. In Iperfetazioni troviamo ripetuto come un riff, in una ballata pop\rock <<Sono cose che vorrei non aver sognato / E comunque cose che mi hanno segnato >> (corsivi miei). Una poesia, dunque, straniante la sua, che implicitamente esige l’agorà, in cui poter demistificare, secondo moduli  brechtiani,  i poteri neocapitalistici, con una visione, come hanno affermato alcuni suoi lettori critici (ad esempio Francesco Muzzioli, Antonino Contiliano), da  materialista stoico.

marco-martinelli-portraitMarco Martinelli, fondatore a Ravenna, assieme a Luigi Dadina, Ermanna Montanari,  Marcella Nonni, di un ambiente teatrale  di primaria importanza, il Teatro delle Albe, fa uscire nel 2010, con Editoria & Spettacolo di Roma, il testo Rumore di acque, già portato precedentemente in scena: è un monologo in versi col quale l’autore rende protagonisti, anche se assenti, centinaia e centinaia di vittime annegate nel Mediterraneo, migranti disperati inghiottiti dai baratri delle acque. La soluzione drammaturgica di gran valore sta nell’invenzione del personaggio monologante: un impiegato diabolico, ma misero, un po’ strampalato e servile, del “Ministero dell’Inferno”, che enumera e registra man mano le vittime in un atroce infinitamente tragico elenco: è quasi un demonietto di dantesca memoria. Questo è il primo testo in versi di Martinelli drammaturgo, che si fa assolutamente apprezzare anche per il valore di scrittura letteraria, poetica, tout court. I versi sono continuamente spezzati, non c’è argomento su cui indulgere con versi distesi, di lunga misura: occorre che il lettore/spettatore venga continuamente incalzato, colpito, portato all’indignazione. L’autore ha scelto molto opportunamente un punto di  vista rovesciato: dalla dimensione del male, diabolica, si osservano le vittime, coloro che ovviamente sono state calpestate, trattate come numeri, non riconosciute né da vive né da morte. <<tenere la lista aggiornata / degli annegati / le sembra cosa da poco / signor ministro? / Le sembra cosa da poco  / questa montagna di morti / che si alza immacolata verso il cielo / le sembra cosa da poco? / La vede Lei la cima / signor Ministro?>> (p. 58). Immedesimarsi in un personaggio che, alla Arendt, vive “banalmente” il male ha permesso all’autore un’efficacissima inversione dei punti di vista; e le figure retoriche legate alla ripetizione sono coerentemente finalizzate a rendere la stolidità del monologante, incapace di articolare il suo pensiero e di portarsi verso una lettura del reale pregna di giustizia e verità (Si veda per un’esemplare studio interpretativo gli interventi a cura  di G. Guccini, Il Perhindérion delle Albe. Storia di un teatro tra Africa e dialetto, in “Prove di drammaturgia”, IV, n. 2).

mariangela_gualtieri_1_1287403857-199x300Sempre nel 2010 Einaudi fa uscire la raccolta di Mariangela Gualtieri Bestia di gioia (è recentissima la raccolta, sempre per Einaudi, 2015, Le giovani parole). Quella della Gualtieri è una poesia-poesia che quasi nasce dentro il palcoscenico, scritta perché venga recitata e agita dagli attori del Teatro della Valdoca, diretto da Cesare Ronconi (un teatro di ricerca e sperimentazione di grande rilevanza nazionale, che ha esaltato la scrittura dell’autrice, ad esempio per raccolte quali Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, edita da Einaudi nel 2003, e Paesaggio con fratello rotto, pubblicata da Sossella nel 2007). Una poesia da sempre corporea e incorporata, in cui la “bestialità”, cioè la creaturalità del mondo della vita, e lo stato dell’anima della gioia, appaiono inscindibili: la vita, intesa come zoè, è immensamente infinitamente gonfia di un’energia che ha anche qualcosa di divino in sé.

Bestia da stile consta di cinque sezioni (opportunamento in quarta di copertina del libro si ricordano i cinque atti della drammaturgia classica): il metro prescelto, tradizionale, si fonda su endecasillabi e in generale su versi regolari: <<al centro di me / una bestiola accucciata si sveglia>> (quinario + settenario); <<Per tuo sorriso infante, bambino mio, / darei tutto il mio orto>> (endecasillabo + settenario). Lo stesso lessico è qui maggiormento inserito nella lingua italiana standard ma sempre assolutamente ricca di echi e risonanze di significato anche tramite padronanza dei significanti, tipo le paronomasie, o non superficiali “bisticci” fonetici.. Sono scelte che costituiscono un correlativo oggettivo formale di una ricerca interiore, che molto deve, a detta della poetessa stessa, ad autori quali Raimon Panikkar, James Hilmann, la drammaturga Nelly Sachs; ma anche al Libro dello Splendore (Zohar) della tradizione ebraica, che è uno dei riferimenti delle dottrine cabalistiche medievali, costituite di misteri e di luminosità. Direi che la ricerca della Gualtieri, qui, si apre a visioni cosmologiche, dove s’incrociano limiti umani e desideri con afflati di respiro universale: << Sii dolce con me. Sii gentile. / È breve il tempo che resta. Poi / saremo scie luminosissime. / E quanta nostalgia avremo / dell’umano. Come ora ne / abbiamo dell’infinità.>> (p. 114). A mio parere il dettato lirico si affina ancor di più raggiungendo vertici davvero alti nella quinta sezione Mio vero, dove è l’Amore, assunto come energia universale, spirituale, materiale, ma al di fuori di presupposti religiosi istituzionalizzati, a ispirare la scrittura di Mariangela, a dettare la di lei ricerca: <<Se questo è amore, mi dico. Ma sì, / questo è l’amore che conosciamo. Ora. / Amore appiccicato, che incolla / quel poco di ala modesta sulla schiena. / Amore legato. In cui si ripete la solfa / del tu e dell’io. Non siamo capaci / di essere insieme acqua e moto, / sale e onda, unica impresa spettacolare. / Come il mare laggiù, lo vedi?>> (p. 126). Il pensiero poetante si nutre di visioni orientalistiche, quale è l’a-dualismo tipicizzante la tradizione hindu e buddista: << C’è nella tristezza un contagio / amore mio, e da questo si vede / che abbiamo fatto comune cuore / e siamo uno che pare due. / Allora io / insemino la gioia / in questa cosa che non consiste / però esiste e tiene entrambi appesi. / La gioia ce la metto io.>> (p. 127). Quella della Gualtieri diviene poesia del e sul mistero, intuito come mancanza da presentificare, che si cela nel silenzio (ma non nel mutismo della Vita, del Cosmo, e dell’Amore): << Te lo dico io / che ascolto / il tonfo della pigna e della ghianda / la lezione del vento / e il lamento della tua pena / col suo respiro ammucchiato sul cuscino / un canto incatenato che non esce. // Ascoltare anche ciò che manca. / L’intesa fra tutto ciò che tace.>> (p. 128).

Giorgio Taffon

 

 

2 commenti
  1. Ignorare il mondo poetico delle nuove generazioni porta a restringere il campo e a non mirare nomi che già fanno vibrare le corde delle cetre, per troppo tempo in silenzio, dopo l’assassinio di Pier Paolo Pasolini.

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