Nel 750° anniversario della nascita di Dante: Brunetto Latini, colui che non capì dov’è il vero tesoro (Inferno, XV) di GIOVANNI CASERTA

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…la conoscenza süa al mio ‘ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ‘n dietro e lascia andar la traccia».

1310025463Brunetto Latini fu tra i più famosi intellettuali del Duecento. Maestro ideale di Dante, che ne seguì gli insegnamenti, visse tra il 1220 circa e il 1294. Scrisse in lingua d’oil, componendo una vera e propria enciclopedia, il Trésor, Il Tesoro,  cui seguirono il Tesoretto e il Favolello. Anche lui, accingendosi a scrivere il Tesoretto, come Dante immagina che, nel suo cammino verso il regno delle Virtù, si sia smarrito in una selva. Lo salva la Natura, che gli fa da guida. Dante, da discepolo a maestro, ne subì la suggestione e ne ebbe grande ammirazione. Perciò ha destato stupore il fatto che lo abbia collocato nel più profondo dell’Inferno, tra i peccatori più spregevoli. Lo pone, infatti, nel settimo cerchio, tra i violenti contro natura, cioè tra i sodomiti. L’incontro avviene all’uscita della selva dei suicidi, dove c’è stato il drammatico incontro con Pier delle Vigne.

Davanti a sé, uscendo dalla selva, Dante e Virgilio si son trovati il terzo girone, che, girando intorno intorno al settimo cerchio, lo chiude. Al di là ci sarà il salto nell’ottavo cerchio, nel gran “burrato” . In quel terzo girone sono puniti i violenti contro Dio, natura e arte. Non è difficile spiegare perché, nello stesso girone, si possano trovare quanti hanno peccato contro Dio, natura e arte. Dio era il creatore del mondo, compresa la natura. La natura, figlia di Dio, genera e si rinnova seguendo l’ordine voluto da Dio. Quanto all’arte, essa, in quanto attività umana, cioè lavoro, è volta ad agire sulla natura, assecondandola nelle sue leggi e contribuendo al suo processo generativo. Dante, perciò, giustamente  può affermare che, così considerata, l’arte “a Dio quasi è nepote” (Inferno, XI, v. 105).

A non seguire l’ordine divino, così descritto, sono, a parte i vacui bestemmiatori, anche gli usurai, che non hanno esercitato alcuna attività. Seduti dietro il banco o a casa, si sono limitati a raccogliere il frutto del lavoro altrui. Non per nulla portano attaccato al collo una tasca, in cui accumulano il denaro guadagnato dagli altri. Con gli usurai e i bestemmiatori sono i sodomiti che, non avendo esercitato l’amore secondo natura, ma contro natura, non hanno generato, cioè sono sterili. E sterile è il paesaggio entro cui si muovono tutti  i peccatori del terzo girone. Questo, infatti, è rappresentato da  un deserto di sabbia, su cui cade una pioggia, non di acqua ma di fuoco. I peccatori di sodomia, in movimento, corrono scuotendosi con le mani le fiamme. Non devono fermarsi, perché, se  lo facessero, sarebbero costretti a rimanere seduti per cento anni,  esposti al fuoco di sopra e di sotto, senza la possibilità di scuotersi le fiamme con le mani.

Per Dante e Virgilio si pone, ovviamente, il difficile problema dell’attraversamento.  Provvidenziale, anche in senso proprio, è la presenza di un ruscello, che sarebbe meglio chiamare canale, corrente su un letto di pietra, stretto fra due argini,  anch’essi di pietra. Tali argini hanno uno spessore adatto a far passare  una persona. Poiché dal canale si leva vapore acqueo, le fiamme, a contatto con questo, si spengono. Si forma, per dir così, una sorta di tunnel, entro il quale i due viaggiatori possono camminare, immuni dalle fiamme. Essi procedono l’uno dietro l’altro e possono comodamente guardarsi intorno. Si crea una condizione analoga a quella che si è riscontrata nel secondo cerchio, riservato ai lussuriosi e, quindi, a Paolo e Francesca, peccatori per eccesso d’amore, sia pure secondo natura, colpiti non da fuoco, ma da una tempesta di vento. Al sicuro da tale tempesta, i due  viaggiatori avevano potuto attentamente osservare quello che si apriva sotto i loro occhi, individuando due anime affatto particolari, che si distinguevano dalle altre, perché, andando insieme, sembravano colombe innamorate. Si trattava, per l’appunto, di Paolo e Francesca.

Nel girone dei sodomiti, come nel cerchio dei lussuriosi, ai due viaggiatori, come da un sicuro osservatorio, è consentito avere tutto lo spettacolo che gli si muove intorno. L’inizio è da racconto. “ Già eravam – scrive Dante – da la selva rimossi / tanto, ch’ i’ non avrei visto dov’era, / perch’io in dietro rivolto mi fossi, // quando incontrammo d’anime una schiera   / che venian lungo l’argine, e ciascuna / ci riguardava come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna; /  e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia / come ‘l  vecchio sartor  fa  nella cruna” (Inferno, XV, vv. 13-21).

Quei dannati, aguzzando lo sguardo e “riguardando”, cioè guardando con intensità e fissità, son curiosi di sapere chi sono quei due che, al sicuro dalle fiamme, procedono e vanno oltre. Ed ecco che, inaspettatamente, uno dei dannati prende per la veste Dante, ansioso di farsi riconoscere e di parlare con lui. Si tratta, per l’appunto, di Brunetto Latini, cioè del maestro che, pur scoperto tra laidi peccatori, non sa resistere all’impulso affettuoso e quasi protettivo che, nei confronti del discepolo, ebbe in terra. Per lui Dante è come un figlio. Infatti, “O figliuol mio – dice – non ti  dispiaccia / se Brunetto Latino  un poco teco / ritorna ‘dietro e lascia andar la traccia” (Inferno, XV, vv. 32-33).

Ovviamente la critica e i lettori, anche i più semplici, si domandano perché Dante abbia collocato il suo maestro, pur amato, nell’Inferno. La cosa appare tanto più stupefacente, quanto più si pensi che, a parlar di un Brunetto Latini sodomita, è solo Dante.  Non l’avesse fatto, non se ne sarebbe saputo nulla. Qualcuno ha osato dire che il peccato di amore contro natura, in realtà, adombrerebbe, nel pensiero di Dante, teorico e padre della lingua italiana, altro “peccato” commesso da Brunetto Latini, cioè quello di aver adoperato, nei suoi scritti, una “lingua straniera”, cioè la lingua d’oil. Ma si tratta, come appare ovvio, di una spiegazione che non ha nessun fondamento logico. Né serve fermarsi sul senso di meraviglia che prende Dante  alla vista inaspettata di Brunetto Latini (“Siete voi qui, ser Brunetto?”, Inferno, XV, v. 30”), che vorrebbe, secondo alcuni, attenuare la “colpa” e quasi chiedere scusa per aver accusato il maestro di un peccato tanto avvilente.

La verità e la spiegazione, invece, sono da cercare altrove. Dato per certo che nessuno obbligava Dante a dar notizia del peccato del maestro, la scelta è stata fatta in perfetta coerenza col piano e col programma della Commedia, che voleva essere opera educativa e, quindi, di denunzia e monito per l’umanità. Dante era convinto che, per dare maggior forza alla sua missione, bisognava colpire in alto, tra i personaggi in vista. Questo, in seguito, gli avrebbe detto il trisavolo Cacciaguida, quando, giunto in Paradiso, Dante si confrontò con lui circa il rischio di parlar male dei potenti, del cui soccorso, da esule, poteva aver bisogno. “Rimossa ogni menzogna – gli dirà Cacciaguida, – / tutta tua vision fa manifesta; /e lascia pur  grattar dov’è la rogna  […]. /  Questo tuo grido  farà come vento, / che le più alte cime  più percuote; / e ciò non fa d’onor poco argomento. // Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e nella valle dolorosa [cioè nell’Inferno e nel Purgatorio] / pur l’anime che son  di fama note, / che l’animo di quel ch’ode, non posa /né ferma fede per essemplo ch’aia / la sua radice incognita ed ascosa / né per altro argomento che non paia” (Paradiso, XVII, vv. 127-142). Insomma, più le notizie sono clamorose, e più i personaggi son famosi, più impressionano e più convincono. Lo sanno bene i giornalisti. E Dante, tutto sommato, fu giornalista, cioè cronista dei suoi tempi.

In questa ottica, è facile riscontrare come i personaggi più altolocati, e più noti a quel tempo, siano proprio quelli che più popolano l’Inferno e, successivamente, perché pentiti, il Purgatorio. Spesso sono personaggi insospettabili. Di qui la ripetuta meraviglia di Dante, che, nel suo cammino verso il fondo dell’Inferno, via via incontra personalità che mai si aspetterebbe di trovare fra i peggiori dannati. E’ il caso di Farinata degli Uberti, di Pier Delle Vigne, di Cavalcante dei Cavalcanti, di Tegghiaio Aldobrandi, di Iacopo Rusticucci, di Mosca de Lamberti, di Guido Guerra e numerosi altri, compresi papi, re e imperatori. Del resto, pur di raggiungere il suo obiettivo, Dante non si ferma nemmeno di fronte ad amici e parenti. Di Guido Cavalcanti, come se non bastasse averlo mandato in esilio per assicurare pace e quiete a Firenze, dice che è destinato all’Inferno. Nel caso specifico di Brunetto Latini, avendolo posto in una vasta schiera di “cherci / e litterati grandi, e di gran fama” vuol dire che non bastano gloria mondana e meriti culturali per accedere al Paradiso.

E  ciò ha una spiegazione, che è filosofica. Come è noto, accogliendo la dottrina di Aristotele e di san Tommaso, che è, poi, quella del cattolicesimo ufficiale, l’uomo, secondo Dante, è a due dimensioni. C’è il corpo  e c’è l’anima, l’uno corruttibile e l’altra incorruttibile. C’è la terra e c’è da costruire, su  questa terra, una felice Gerusalemme terrestre, “ut in areola ista mortalium  libere cum pace vivatur” -“affinché in codesta aiuola di mortali liberamente e in pace si viva” (De Monarchia, III, 16). Ma l’uomo non può e non deve fermarsi a questo. Bisogna che faccia un ulteriore salto e che si proietti verso la Gerusalemme celeste. A creare la Gerusalemme terrestre, scrive ancora Dante, bastano gli insegnamenti dei filosofi e le virtù cardinali (prudenza, fortezza, giustizia e temperanza); ma, per raggiungere la Gerusalemme celeste, bisogna che si seguano le virtù teologali di fede, speranza e carità. Quindi, per meglio chiarire il suo pensiero, aggiunge che, a reggere la Gerusalemme terrestre ci dev’essere l’imperatore; a guidare verso la Gerusalemme celeste, invece, ci vuole il papa.  Ne segue che Brunetto Latini, come altri famosi, pur  grande uomo su questa e per questa terra, non ha avuto slancio verso il cielo. E’ vissuto ad una dimensione. Cosa  molto ricorrente. Infatti, quanto più grande è l’amore per le cose terrene, tanto più debole è l’anelito al cielo, perché inevitabilmente scattano superbia e invidia, nemica della carità. Nel Purgatorio esiste un luogo, detto “della valletta dei principi negligenti”, in cui questa “condizione“ è ben rappresentata. In quella valletta, a purificarsi del loro peccato di ambizione, di cui per loro fortuna si sono pentiti, ci sono spiriti che furono di alto prestigio sulla terra. Uno è Sordello da Goito, che è tra quelli che, pur principi “gentili”, proprio per essere stati troppo attenti a meritarsi onori terreni, hanno ”negletto” i comandi divini.

Altro esempio è quello di Giustiniano, l’imperatore saggio che compare nel canto VI del Paradiso. Con lui sono altri spiriti che ebbero gloria in terra. Parlando di sé e del pericolo corso,  è proprio Giustiniano a dire che, quando lo sguardo è troppo intensamente rivolto a terra, è quasi inevitabile che non si avverta il desiderio di guardare verso l’alto. Indicando il cielo di Mercurio, che è il cielo degli spiriti ambiziosi, così Giustiniano si esprime: “Questa  picciola stella si correda / di buoni spirti che sono stati attivi / perché onore e fama  li succeda: / e quando li disiri  poggian quivi , / sì disviando, pur conviene [cioè è fatale] che i raggi / del vero amore in su poggin men vivi” (Paradiso, VI, vv. 112-117). Tragico fu il caso di Ulisse. Anche lui fu ambizioso, ancorché di conoscenza. Era una legittima aspirazione, strettamente connessa alla natura dell’uomo, così voluta da Dio. Ma guai a non unire virtute e conoscenza. E Ulisse, per amor di conoscenza, violò i confini del mondo, disobbedendo a Dio e avventurandosi in un mare che non era per lui. In vista del Purgatorio, la sua nave, per punizione, si inabissò. Ora è nell’Inferno, fra i consiglieri di frode.

Si direbbe che, nel suo pensiero, fedele ad Aristotele, Dante rifiuti l’intellettualismo etico di Socrate, secondo il quale, conosciuto il bene, necessariamente lo si mette in pratica. Brunetto Latini, infatti, è il caso di un uomo dotto che, pur conoscendo il bene, non l’ha applicato. Né si è pentito del male. Oggi, per tal motivo, è in una condizione di grande diversità, e anzi di inferiorità, rispetto al discepolo di ieri. Questi è sul cammino della salvezza. Se attraversa l’Inferno, è solo perché quel viaggio è necessario e indispensabile per raggiungere il Paradiso, in alto. Brunetto Latini, al contrario, è eternamente condannato alla sofferenza, ancorché abbia tanti meriti sotto il profilo culturale, sociale e politico. In certo qual modo, si può dire che si rovesci il rapporto tra Dante e il suo maestro. E’ una differenza figurativamente rappresentata da un Brunetto Latini che torna indietro, cioè regredisce, per accompagnarsi a Dante. Ed è di un gradino sotto di lui. E’ il gradino che gli è mancato per salire verso la Gerusalemme celeste.  Il suo discepolo, invece, procede più in alto, sul muro che fa da argine al corso d’acqua. Il che, a dir la verità, sembra creare qualche problema di ordine psicologico al vecchio alunno, che altro non può fare se non inchinarsi verso il maestro. “Io – scrive Dante – non osava scender  della strada / per andar par lui; ma ’l capo chino  / tenea  com’uom che reverente  vada” (Inferno, XV, vv. 43-45).

Pur in questa condizione, tuttavia, Brunetto Latini, trasportato da sincero affetto, non può rinunziare al suo ruolo di educatore. Ha molto da insegnare ancora. Naturalmente i suoi moniti non possono toccare quella sfera che per primo ha ignorato e alla quale, per sua sventura, è stato estraneo. Si vuol  dire della sfera teologica e del soprannaturale. La sua competenza è tutta circoscritta alle cose di questo mondo, in cui ha primeggiato e di cui ha molta esperienza. E poiché, come dannato dell’Inferno, ha il privilegio di leggere nel futuro, così come  con altro intento e in  altro contesto aveva fatto Farinata degli Uberti, anche lui preannuncia  a Dante la sventura dell’esilio, permettendosi di dargli utili e severi moniti. Si vuol dire che essere dannato dell’Inferno, per peccato di sodomia, non significa che in lui sia venuta meno l’intelligenza o sia venuto meno l’ardore etico e tutto laico di chi volle un mondo diverso. Con dolore, perciò, a Dante profetizza una condizione di lotte cittadine furenti, durante le quali dovrà guardarsi prima dai nemici, poi dagli stessi amici.  Accadrà anche che, un giorno, con lui vorranno stare amici e nemici; ma non si mescoli l’erba buona con quella brutta: ”Faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme, e non tocchin la pianta, / s’alcuna surge ancora in lor letame, // in cui riviva la sementa santa / di que’ Roman che vi rimasero quando / fu fatto il nido  di malizia tanta” (Inferno, XV, vv. 73-78). Anticipando un pensiero che sarà anche di Cacciaguida, Brunetto Latini vuol dire che è sempre meglio stare con sé stessi che non in cattiva compagnia.

Dante, di fronte a tanta affettuosa sollecitudine, nulla può dire e nulla dice sulla condizione del peccatore e sul suo peccato. Sarebbe come raschiare in una ferita aperta. Può solo dire che se ne “accora”. Esprime invece tutta la sua gratitudine verso l’uomo che  gli fu di grande aiuto negli studi e nel cammino verso il sapere. Perciò, dandogli il “voi” dovuto per rispetto, pur avendone ricevuto il “tu” , gli riconosce il ruolo di padre e gli dice: “Se fosse tutto pieno il mio dimando … voi non sareste ancora  / dell’umana  natura posto in bando; // che ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona imagine paterna / di voi quando  nel mondo, ad ora ad ora  // m’insegnavate come l’uom  s’etterna” (Inferno, XV, vv. 79-84).  A sua volta, Brunetto Latini, nel salutarlo frettolosamente, forse riconoscendo i limiti della sua esistenza e dei suoi insegnamenti, tutti rivolti agli studi e alla gloria mondana, così lo prega: “Siati raccomandato il mio Tesoro / nel qual io vivo ancora, e più non cheggio” (Inferno, XV,v v. 119-120). Può essere un atto di superbia o di ostentazione o di presunzione; invece, è un atto di umiltà, avanti ad un alunno che percorre altra strada, giusta. In una vita sbagliata, che almeno sia salvato quello che di buono si è realizzato. Per la gloria letteraria il buon maestro si è impegnato; che almeno gli resti quella. E chi meglio di un alunno potrebbe farlo? Aver peccato  di un vizio non significa aver sbagliato tutto. Che si dia dunque, a Brunetto Latini, quello che ha meritato. E’ il riconoscimento che un alunno deve al suo maestro per il dovere  cui ha  assolto, come maestro e come filosofo. Come infatti diceva Seneca in De vita beata, i filosofi fanno molto per il solo fatto che concepiscono e insegnano cose oneste”.

Giovanni Caserta

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