Nel 750° della nascita di Dante: Pubblico e privato nel canto di Farinata degli Uberti (Inferno, X), di Giovanni Caserta

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Inferno, Canto X: VI cerchio: Farinata degli Uberti, Cavalcante dei Cavalcanti

Ora sen va per un secreto calle,
tra ‘l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.

«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’ a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’ i coperchi, e nessun guardia face».

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.

Però a la dimanda che mi faci
quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».

E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ‘l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’ avesse l’inferno a gran dispitto.

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».

Com’ io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;
ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi».

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’ arte».

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ‘l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?».

E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

Le sue parole e ‘l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.

Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;

e sé continüando al primo detto,
«S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’ arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?».

Ond’ io a lui: «Lo strazio e ‘l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».

«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ‘nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ‘l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».

«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».

Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ‘l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ‘l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto».

E già ‘l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.

Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ‘l secondo Federico
e ‘l Cardinale; e de li altri mi taccio».

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.

«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ‘l dito:

«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio».

Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,

che ‘nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

L’episodio di Farinata degli Uberti, a cominciare dalle appassionate pagine di Francesco De Sanctis, è stato sempre letto come un episodio politico, che solo incidentalmente, e per la parte riguardante Cavalcante dei Cavalcanti, poteva guardarsi come dramma familiare. In realtà, l’introduzione di Cavalcante dei Cavalcanti, se si dà questa chiave di lettura, potrebbe apparire del tutto arbitraria, a meno che non si voglia giustificarla con ragioni puramente tecniche, e cioè come espediente introdotto per alleggerire la tensione, a cui era arrivato il dialogo-scontro tra Farinata e Dante. E’ vero, però, che Farinata non sembra più molto interessato alla sua militanza politica, almeno nel senso di militanza in un partito, tanto più che il suo partito, quello dei ghibellini, non esisteva più. E’ interessato, più genericamente parlando, a Firenze guardata come amata patria comune e, quindi, come patria dei suoi stessi avversari.

A distanza di tempo, e con la prospettiva distaccata che gli viene dall’essere ormai nell’altro mondo, Farinata può persino nutrire il dubbio di avere, suo malgrado, nociuto alla città, sua e dei suoi avversari, alla quale, per l’appunto, forse  fu troppo molesto. C’è persino – si direbbe – un desiderio di rimozione di quei fatti, che lo videro partecipe di una guerra civile, che non poteva non far male a tutti, travolgendo e spaccando le famiglie stesse. Si spiegherebbe, in tal senso, nella prima parte del dialogo, l’uso costante del passato remoto.

Viene da credere, dunque, che, almeno sul principio, ben altri fossero i pensieri e i desideri di Farinata degli Uberti. E riguardavano lo status sociale di Firenze, di cui Farinata vorrebbe avere notizie più sicure e aggiornate, soprattutto se si pensa che esse non potevano arrivare se non casualmente, in occasione dell’arrivo di qualcuno dalla terra. E’ quanto precisa lo stesso Farinata, rivelando a Dante lo strano modo di vedere degli eretici, che, come i presbiti, vedono bene le cose che stanno lontano. Poi, quando esse si avvicinano, la loro vista si affievolisce, fino a scomparire del tutto riguardo alle cose presenti. Il desiderio di sapere, da parte di Farinata, è perciò la molla che lo spinge a rivolgersi a Dante ansiosamente, e con fare cortese, chiedendogli di fermarsi.

Di Dante egli non sa ancora nulla, tranne il fatto che è un toscano, anzi fiorentino, stando alle sue inflessioni linguistiche, cioè alla sua “loquela”. Non ha mezzi termini Farinata, questo sì, perché è leale e sa assumersi le proprie responsabilità. La sua voce suona perciò netta e quasi rimbomba nel silenzio dell’Inferno. E rimbomba, in modo particolare, l’appellativo “Tosco”, che, rivolto a Dante, si accompagna ad una significativa successione di tante “o”: “O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai vai così parlando onesto, / piàcciati di restare in questo loco…” ( Inferno, X, vv. 22-24).

Si direbbe che non sembra vero, a Farinata degli Uberti, di poter scambiare qualche parola con un suo concittadino, e non necessariamente sulla situazione politica. Come si vedrà, ad altro egli pensava ed altro vorrebbe sapere. Gli è capitato Dante; ma gli poteva capitare qualunque altro personaggio fiorentino. Vero è, però, che, per un uomo come lui, cui non piacciono i modi subdoli, diventa indispensabile sapere con chi ha a che fare. Di qui la immediata richiesta, fatta a Dante, di qualificarsi per la sua appartenenza familiare. “Chi fuor li maggior tui?”  (Inferno, X, v. 42) . E Dante, forse un po’ ingenuamente, certamente perché affascinato dalla personalità di chi gli sta di fronte, ma anche perché parimenti franco nel parlare, si diffonde con notizie particolareggiate (“tutto gliel’apersi”, Inferno, X, v. 44), tanto da svegliare un motivato orgoglio in Farinata degli Uberti, che ritrova improvvisamente la passionalità politica di un tempo, tanto da diventare persino arrogante, sia nell’atteggiamento, sia, soprattutto, nelle parole: “Ond’ei levò le ciglia un poco in soso; / poi disse: «Fieramente furo avversi / a me e a  miei primi e a mia parte, / sì che per due fiate li dispersi»” ( Inferno, X, vv. 46-48).

E’ stato un errore, da parte di Farinata, tirare fuori il suo orgoglio di politico che ebbe Firenze in pugno. Ed è stato un errore dettato solo dalla casuale circostanza di trovarsi di fronte ad un discendente dei suoi avversari. Purtroppo, si è andato a cacciare su un terreno scivoloso, perché si è imbattuto in un uomo altrettanto orgoglioso e, soprattutto, geloso della onorabilità familiare. Dante non aveva nulla contro Farinata, perché, anzi, ne era ammirato. Ne aveva già chiesto notizia a Ciacco (Inferno, VI, v. 79). E a Virgilio stesso, al momento di entrare nel cerchio degli eretici, aveva fatto intendere che voleva parlare con Farinata, visto che le tombe erano scoperchiate e nessuno vi faceva la guardia. Quando Virgilio gli ha indicato proprio Farinata, che si ergeva col petto e con la fronte, come avesse l’Inferno in gran dispitto, Dante si è precipitato verso di lui. L’ammirazione era autentica, perché era ammirazione per un uomo che, schierandosi tra i ghibellini, aveva avuto il coraggio di porsi contro il papa e il papato, tradizionali nemici del poeta. Né si poteva dimenticare che, spariti i ghibellini, il loro programma, a tutti gli effetti, era stato fatto proprio dai guelfi bianchi, cui Dante apparteneva. Lo stesso non poteva dirsi di Farinata degli Uberti, che ricordava gli Alighieri come guelfi e nulla più, cioè come suoi avversari. Di qui l’orgoglioso monito  di averli due volte sconfitti e, addirittura, “dispersi” da Firenze. E Dante, di rimando: ” S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte /…. l’una e l’altra fiata; / ma i vostri non appreser ben quell’arte” ( Inferno, X, vv. 49-51).

La risposta di Dante, così decisa e così netta, immobilizza Farinata degli Uberti e, per dir così, lo fulmina. Ma quella risposta è altrettanto insana quanto l’orgoglioso vanto di Farinata. Ambedue i contendenti, infatti, ripescando antichi livori e contrasti, dimenticano che, da certe lotte civili che spaccano la città, non possono derivare se non danni per tutti, perché vanno via valori e istituzioni fondamentali, quali l’affinità, legami di parentela, sentimenti di giustizia e di amicizia, ecc. Non ci sono mai vincitori e vinti nelle guerre, soprattutto civili. Di che mai, allora, i due avversari possono menar vanto? La ragion di Stato, se perseguìta fuori di ogni legge morale, tutto distrugge e dissolve. E perché i due contendenti possano riflettere sui loro errori e sulle conseguenze della “città partita”, ecco levarsi, in nome della ragione morale, o comunque dei sentimenti dell’amore, dell’affinità  e della famiglia, Cavalcante dei Cavalcanti. A lui dei contrasti politici e delle proprie vittorie su eventuali famiglie avverse nulla importa. Egli è soltanto padre, che antepone le ragioni della famiglia a quelle del partito. A lui interessa sapere solo notizie riguardanti il figlio Guido, che sa essere amico di Dante. E poiché è epicureo, cioè intellettuale laico e ateo, non crede se non in un solo elemento di distinzione e di nobiltà, cioè nel valore dell’intelligenza. Dal suo punto di vista, perciò, se Dante fa un eccezionale viaggio per l’aldilà, benché ancor vivo, non può dipendere se non da meriti di ordine intellettuale. Di qui lo sbalordimento per non vedervi il figlio Guido.

E’ in un certo senso vero, dunque, che la figura di Cavalcante dei Cavalcanti è stata introdotta per sospendere il contrasto e quasi scontro politico che si stava accendendo fra Farinata e Dante. Ma la spiegazione non è tecnica, o almeno non è solo tecnica. Essa è soprattutto di ordine morale, perché vuol essere un modo per far riflettere ambedue i contendenti, richiamandoli all’errore che si commette quando si diventa fomentatori o sostenitori di partiti e logiche di partito, ignorando l’esistenza di altri valori. Cavalcante dei Cavalcanti era parente di Farinata degli Uberti. Per dir meglio, ne era consuocero, perché suo figlio Guido aveva sposato Beatrice, figlia di Farinata. E si era trattato di un matrimonio di rappacificazione tra famiglie politicamente avverse. Che senso, dunque – sembra ammonire la figura paterna di Cavalcante dei Cavalcanti -, che senso possono avere  i livori di parte, protratti anche nell’aldilà? E Guido, come si è detto, era fraterno amico di Dante Alighieri. Cavalcante dei Cavalcanti è, perciò, figura equidistante dai due contendenti, sicché è chiamato quasi a far da paciere e da raccordo fra i due, richiamandoli alla ragione e ai risvolti negativi dell’azione politica, quando essa si fa contesa e odio. L’unico vero dolore, per Cavalcante dei Cavalcanti, è sapere o credere di sapere che il proprio figlio è morto. Certo, dal punto di vista teologico, anche lui sbaglia, perché, con la morte terrena, non finisce nulla, ma anzi comincia la vera vita. Ma tale errore è del filosofo, che a nessuno nuoce, se non a sé stesso. Diverso è il discorso per Farinata e Dante, che corrono ancora dietro i livori e i contrasti di parte.

Quando, dunque, Cavalcante dei Cavalcanti risprofonda nella tomba, il suo messaggio l’ha trasmesso. Il discorso ritorna allora ai due contendenti, ritrovandoli più ragionevoli e più calmi. Ferito nel suo orgoglio, Farinata degli Uberti è ormai disponibile a capire e a perdonare. Lo stesso dicasi per Dante. Farinata, definito da Dante “magnanimo”, per tutta la comparsa sulla scena di Cavalcante dei Cavalcanti “non mutò aspetto, / né mosse collo, né piegò sua costa”(Inferno, X, vv. 75-76). Altro, però, si è fatto il tono della sua voce, certamente mortificato e dolente. Se i suoi parenti – dice – hanno male appreso l’arte del ritorno in patria, ciò gli duole più che l’Inferno stesso. Ma il ritorno è difficile  per tutti, quando scattano rancori di fazione che accecano. Anche Dante vedrà quanto è difficile ritornare in patria. Né serve aver operato per la patria, in buona fede e nell’interesse di tutti. Ancor più tragico, poi, è che, quando scattano certi  meccanismi, non sfuggono alla vendetta nemmeno i figli, i nipoti e i discendenti tutti, anche per più generazioni. Questo è il colmo dei colmi. Non si possono far ricadere sui figli le colpe che sono dei padri; non si può tollerare che si arrivi alle vendette trasversali! Questo è il vero dolore di Farinata degli Uberti, padre e patriota; e questo è anche il vero dolore e rammarico di Dante, i cui figli, a quattordici anni, venivano puntualmente cacciati da Firenze, per punire, attraverso loro, il  padre.

L’intermezzo di Cavalcante dei Cavalcanti, dunque, portando in primo piano gli affetti familiari e la famiglia, ha riportato il discorso e l’incontro di Farinata con Dante sul terreno del privato, o, meglio, sul terreno dell’etica. Ciò che era presunzione ed orgoglio del politico è diventato rammarico e dispiacere del genitore. Rivolgendosi a Dante, con fare dimesso e anzi persino un po’ sdolcinato, Farinata dice: “Voglia il cielo, o Dante, che tu possa ritornare nel dolce mondo. Ma dimmi, perché il popolo fiorentino è così cattivo contro i miei discendenti in ciascuna sua legge?”. E Dante, che nel frattempo ha saputo che anche lui patirà l’esilio, sicché è meno disposto alla inutile polemica e alla contrapposizione, con altrettanta gentilezza gli fa notare che, nella battaglia di Montaperti, lui, Farinata degli Uberti, fece strage dei suoi concittadini. E quello, di rimando, giustificandosi, si appella alla necessità del momento, perché non certo “sanza cagion co li altri si sarebbe mosso” (Inferno, X, v. 90). In ogni caso, quando ad Empoli si decise di radere al suolo la città di Firenze, fu lui solo a “difenderla a viso aperto”(Inferno, X, v. 93). Non contano, dunque, siffatti meriti? Non conta che Dante, nel supremo interesse della città di Firenze, quando fu priore, mandò in esilio l’inquieto Guido Cavalcanti, suo amico, sacrificandolo ai supremi interessi della città?

            Ormai l’intesa tra Farinata e Dante è completa, sia perché ambedue, se guerra hanno fatto, l’hanno fatta solo nel supremo interesse della città, sia perché  ritengono che, comunque, delle proprie azioni deve rispondere solo chi le ha commesse, e non già figli, parenti e persino discendenti. E’ questo un tasto dolente per Dante, o, per dir così, è ferita sempre aperta. A Farinata, che gli aveva fatto l’augurio di poter ritornare sano e salvo sulla terra, a sua volta Dante rivolge l’augurio che possano goder della pace i suoi discendenti; per Cavalcante dei Cavalcanti, invece, lascia un messaggio che lo consoli, ricordandogli che la presunta morte del figlio è stata solo un equivoco. Insomma il canto, che sembrava essere tutto politico, e fondato su contrasti e fraintendimenti, si chiude come in un cerchio, sigillato da uno scambio di reciproche cortesie, da cui deriva il trionfo della concordia e dell’armonia, per le quali soltanto bisognerebbe vivere, e alle quali soltanto devono tendere le lotte politiche. Queste, nel mentre devono sempre anteporre l’interesse generale a quello particolare, mai devono essere, per altro verso, pretesto per vendette personali e, comunque, contrastare con l’etica. Che è poi la stessa cosa. Anche le azioni politiche, insomma, devono svolgersi sotto la guida e la luce di Beatrice, rappresentante della ragione e della fede. Non per nulla il canto si chiude proprio con l’immagine di Beatrice, il cui “bell’occhio, [che] tutto vede” ( Inferno, X, v. 131), sembra alfine risplendere, e di fatto risplende, in contrasto con quel mondo convulso di passioni e di eccessi ciechi, che fanno perdere la vista, ovvero il senso della realtà e della misura. Come nei presbiti, appunto, che, proprio per questo, sono anche eretici.

Giovanni Caserta

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