Giorgio De Chirico e Roma, di Marco Onofrio

220px-Giorgio_de_Chirico_(portrait)Ci fu anche Roma (oltre a Firenze, Torino e Ferrara) tra le città determinanti, con la loro influenza storico-ambientale, per la “rivelazione metafisica” di Giorgio De Chirico. Stando anzi alle lettere all’amico Gartz, rimasto a Monaco di Baviera, tale rivelazione coinciderebbe con il viaggio a Roma dell’ottobre 1909: «È allora che, nel corso di un viaggio che feci a Roma in ottobre dopo aver letto le opere di Nietzsche, intuii che vi è una quantità di cose strane, sconosciute, solitarie, che possono essere tradotte in pittura; ci riflettei lungamente. Allora ho cominciato ad avere le prime rivelazioni». L’incubazione della metafisica segna proprio a Roma un passaggio-chiave che permette a De Chirico di meglio precisare certe suggestioni elaborate a Monaco, in Accademia, e arricchite dalla lettura appassionata di Nietzsche, Schopenhauer, Weininger, raccordando la matrice bökliniana (classicismo sospensivo e svelamento mitico, con apparato iconografico di centauri, sirene, tritoni, divinità marine… – già peraltro congeniale alla sua infanzia greca) con il nitore plastico della grande pittura antica. A Roma, oltre alle rovine, lo incanta la “Scuola di Atene” di Raffaello nelle Stanze Vaticane: riconosce in questo grande e celebre affresco il segnacolo e, in un certo senso, il viatico delle sue ambizioni di “pictor optimus”, di artista chiamato a cose eccezionali. De Chirico vi attinge i tre predicati dello spazio metafisico: trasparenza, chiarezza, concisione. La finestra che apre sul cielo solcato da nuvole è, al contempo, il cielo che tocca terra, entrando nell’interno architettonico: è il mistero che si affaccia nello spazio conchiuso dell’uomo. Un mistero che gli uomini sapienti contribuiscono a svelare: Platone indica il cielo e ha in mano il “Timeo”, dialogo cosmogonico; Aristotele indica la terra (cioè la rerum natura) e ha in mano l’“Etica” (cioè l’autodeterminazione dell’uomo superiore). Questo cielo turchino con nuvole viene acquisito in modo definitivo alla pittura dechirichiana, e nasce dall’esperienza del primo viaggio a Roma. La Città Eterna lo turba e lo conferma, instradandolo più decisamente verso certe costellazioni del senso e del pensiero. Scrive in Memorie della mia vita: «A Roma il senso del presagio ha qualche cosa di più vasto. Una sensazione di grandezza infinita e lontana, la stessa sensazione che il costruttore romano fissò nel sentimento dell’arcata riflesso dallo spasmo d’infinito che la volta celeste produce talvolta nell’uomo».

enigma-autunnoL’aurora metafisica di Roma viene poi doppiata dall’“alba” fiorentina del 1910, che vede la realizzazione del primo quadro improntato alla nuova tendenza, l’“Enigma di un pomeriggio d’autunno” (ed è la Firenze mistica e occultistica del «Leonardo»; la città di Giovanni Papini, col suo “tragico quotidiano” che rappresenta un po’ il corrispettivo letterario della “metafisica”; la città di Arnold Böcklin, proprio lui, che a Firenze ha vissuto quasi trent’anni, fino alla morte nel 1901, realizzandovi il capolavoro “L’isola dei morti”; e di Edward Gordon Craig, il grande innovatore della scena teatrale moderna, che vi si è stabilito  appena tre anni prima e vi opera con successo). A Firenze De Chirico rivive e ripercorre la scoperta niciana della Stimmung (cioè l’atmosfera morale) del «pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad essere più basso». Così racconta la sua esperienza di rivelazione: «In un limpido pomeriggio autunnale, ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze. Naturalmente non era la prima volta che vedevo questa piazza: ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale ed ero quasi in uno stato di morbida sensibilità. Tutto il mondo mi circondava, finanche il marmo degli edifici e delle fontane mi sembrava convalescente. Al centro della piazza si erge una statua di Dante, vestita di una lunga tunica, il quale tiene le sue opere strette al proprio corpo e il capo coronato d’alloro pensosamente reclinato… il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta e la composizione del dipinto si svelò all’occhio della mia mente».  Acquisendo la plastica classicità respirata a Roma, che De Chirico traduce in lezione di grande e ineccepibile pittura, cioè, in primis, di limpidezza dei valori della forma, prende corpo l’elaborazione di un nuovo, straniante spazio figurativo, dove il senso del reale sembra sfuggire alla stabilità e alle certezze di una rappresentazione oggettiva dell’esistenza. La pittura metafisica si slancia all’inseguimento delle «immagini della sospensione del tempo, dell’enigma, del mistero, dello spaesamento, di una realtà altra percepita nel silenzio e nell’immobilità, del meraviglioso che affiora dal quotidiano» (Calvesi). È in gioco il mistero dell’uomo e del suo esserci: la sua condizione di solitudine nel mondo, i suoi limiti spaziotemporali, il suo eterno anelito verso l’infinito. La scena metafisica è pervasa da un’atmosfera immobile, rarefatta e silenziosa, e da un misterioso senso di attesa: pare che il tempo si sia fermato, sospeso in una dimensione metastorica, mitica, assoluta. Dopo Firenze, anche Torino (con i suoi portici e le sue piazze: la città memore della follia di Nietzsche) e soprattutto Ferrara (con la sua tradizione esoterica e alchemica) avranno e daranno modo di precisare ulteriormente, con particolari, oggetti e simboli sempre nuovi, il complesso immaginario metafisico.

3_-Interno-metafisico-con-mano-di-David-Inv_-29Ma la traccia lasciata da Roma risulta, forse, la più durevole di tutte: la più decisiva. Anche a livello biografico. A Roma De Chirico torna nella primavera del 1911, ma è ancora un soggiorno fuggevole. Per il primo vero contatto con la realtà romana occorre attendere il 1917, quando dal 9 al 12 aprile partecipa a una mostra collettiva nel foyer del Teatro Costanzi, in occasione dei Ballets Russes di Diaghilev. Poi, tramite il pittore ferrarese Roberto Melli, conosce Mario Broglio, ormai prossimo a fondare, insieme alla futura moglie Edita Walterovna zur Muehlen, la rivista «Valori Plastici», di cui De Chirico diverrà, fin dal primo numero (15 novembre 1918), assiduo collaboratore. Nel 1918, data la consistenza dei contatti e delle situazioni ormai poste in essere, decide di trasferirsi a Roma. Raggiunge la madre che alloggia al Park Hotel, adattandosi a dormire su un materasso poggiato sul pavimento. Sono tempi difficili, e De Chirico placa i morsi della fame con qualche crocchetta di patate acquistata nella rosticceria del ristorante Canepa. In maggio espone in una collettiva organizzata da Mario Recchi. Nel febbraio del 1919 tiene la sua prima personale romana, presso la Casa d’Arte di Anton Giulio Bragaglia. Per l’occasione De Chirico pubblica, su «Cronache d’attualità», lo scritto programmatico Noi metafisici. Ma la mostra è un fiasco: solo De Pisis la recensisce positivamente. Resta famosa la stroncatura di Roberto Longhi su «Il Tempo» del 22 febbraio, dal titolo Al dio ortopedico, in cui la pittura di De Chirico viene giudicata un atroce e strambo “illustrazionismo”, carico di effetti scenografici, dove non c’è nulla di veramente classico, ma solo mal digeriti riferimenti tardo-romantici. De Chirico però non si scoraggia: frequenta Armando Spadini, Riccardo Bacchelli, Vincenzo Cardarelli, e il salotto di Olga Signorelli. E poi comincia ad andare per musei, specialmente quello di Villa Borghese. «Fu al Museo di Villa Borghese, una mattina davanti a un quadro di Tiziano, che ebbi la rivelazione della grande pittura». Da quel momento c’è la definitiva conversione al classicismo: De Chirico si dedica assiduamente a copie e interpretazioni da Leonardo, Lorenzo Lotto, Mantegna, Raffaello, Rubens, e altri maestri. Cerca il “demone lineare” dell’arte classica, che già lo ha tanto colpito dinanzi alla “Scuola di Atene” nel 1909. La classicità indica un primato qualitativo: classicus è sinonimo di eccellente. De Chirico si fa strenuo sostenitore di un “ritorno al mestiere” della pittura, cioè in definitiva alla “magia” della naturalezza e della verità, oltre l’accademismo, sì, ma assolutamente contro le approssimazioni modernistiche dei “francesi” (sostenuti dal mercato e dalla moda imperante). Scrive appunto in Ritorno al mestiere: «Disegnare una volta una mano, un piede in modo tale che, se per un miracolo diventassero vivi, potessero trovarsi con le ossa, i muscoli, i nervi e i tendini a posto». De Chirico si fa vedere a casa di Armando Spadini, dove spesso si riunisce il cenacolo de «La Ronda» (equivalente letterario di «Valori Plastici»): Saffi, Bacchelli, Cecchi, Montano, Cardarelli. E poi c’è la famosa “terza saletta” del Caffè Aragno, ben frequentata sin dalla mattina (ma Cardarelli arrivava sempre verso mezzogiorno). «Quando il tempo era bello, quando c’erano quelle terribili giornate romane che in ottobre si chiamano ottobrate, ma che continuavano ad essere ottobrate anche in pieno inverno, si organizzavano all’Aragno grandi spedizioni nelle osterie fuori porta. Uno dei principali animatori di queste spedizioni era Mario Broglio. Si trattava di andare a mangiare la porchetta o l’abbacchio, da Gigi, da Nino, da Peppe, dalla Sora Prima o dalla Sora Gaetana; queste spedizioni nelle osterie finivano qualche volta tristemente, in seguito a discussioni velenose ed anche a pugilati».

le muse inquietantiPoi però i rapporti con «Valori Plastici» si allentano progressivamente: alla metafisica di De Chirico si preferisce quella “più italiana” di Carrà. De Chirico è, a suo stesso dire, oggetto di livori sotterranei e subdole manovre di boicottaggio; ma lui tira dritto per la sua strada, continuando instancabilmente le sue ricerche tecniche e apprezzando, di Roma e della sua campagna, «magnifici motivi di studio, di osservazione e di meditazione» che lo ripagano di tante amarezze. Il fatto è che «Roma, di tutte le città d’Italia, è quella che conta il più gran numero d’intellettuali, cioè di irritati e di scontenti. Essi sono stati e saranno sempre i miei peggiori nemici poiché in me vedono quello che essi vorrebbero essere, nei miei quadri vedono quello che essi vorrebbero avere: cioè il talento, la potenza, il sapere». Proprio per questi motivi comincia a distaccarsi dall’ambiente romano. Ma, prima di trasferirsi a Parigi, fa in tempo a ricevere la visita di Paul e Gala Éluard (per Gala firma la prima copia de “Le Muse inquietanti”) e ad incontrare la futura prima moglie, Raissa Gurievic Krol. Negli anni Trenta la presenza di De Chirico a Roma è legata a episodi sporadici, come ad esempio le Quadriennali d’Arte Nazionale al Palazzo delle Esposizioni o le scenografie firmate per La figlia di Iorio di D’Annunzio, regia di Luigi Pirandello, al Teatro Argentina (1934). A Roma non torna a vivere prima del 1944, con la seconda moglie Isabella Pakszwer Far, e stavolta per sempre: prima in via Gregoriana, poi in via Mario de’ Fiori, infine a Piazza di Spagna, nello storico Palazzetto dei Borgognoni, in una casa di due piani con grandi terrazze. Queste terrazze sono magnifici luoghi di osservazione, anche e anzitutto di cieli romani. Così può ancora scrivere, nel 1960: «Dalla terrazza del mio studio vedo spesso splendidi spettacoli celesti, cieli tersi e cieli caliginosi, tramonti infuocati, notti di luna ed effetti notturni con le nubi cerchiate di giallo pallido, come in certe marine di maestri olandesi e fiamminghi». Il “pictor optimus” continua per anni a sviluppare le sue ricerche, sviluppando iconografie già storicizzate come i Manichini e introducendone via via di nuove, come gli Archeologi, i Cavalli in riva al mare, i Gladiatori, i Bagni misteriosi, i Paesaggi nella stanza e i Mobili nella valle. Passerà così l’ultimo scorcio della vita, tra mostre personali in ogni parte del mondo e anche a Roma, celebrità ormai acquisita, riconoscimenti pubblici (soprattutto internazionali), e infinite polemiche sull’autenticità delle sue opere (oggetto di molti “falsi”). Anche da anziano gli piaceva uscire di casa, di tanto in tanto, e percorrere il breve tratto fino al suo locale preferito, il Caffè Greco di via Condotti. In fondo De Chirico amava Roma e ci stava bene: sapeva di averla scelta come dimora definitiva della sua lunga e combattuta esistenza. E Roma, alla fine, lo ricambiò. Si fece appena in tempo a festeggiarlo in Campidoglio per i novant’anni (10 luglio 1978): De Chirico sarebbe spirato in una clinica romana quattro mesi dopo, il 20 novembre. Nel 1998, al compimento del ventennale della morte dell’artista, la casa-studio di Piazza di Spagna è stata trasformata in Museo.

Marco Onofrio

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