“Oh il vostro cristianesimo” gli dico.
“O crepato trabocca in tutto l’altro, sia pure il deserto,
oppure è un fiumicello da nulla
che stagna fra gli orti sotto casa e gli ammorba”.
Subito in un risucchio della mente
riascolto come da un disco
crudele quelle parole nette,
ancora mie eppure già lontane dall’intento,
là nella parte amorfa del pensiero che aspetta un’esca.
Non so se il mio disagio gli è visibile,
deglutisce un sorriso inespresso e si fa piccino
cercando fermezza di risposta
proprio lì nel suo aspetto di pretonzolo e di oscura formica.
Cedere, cedere all’infinito il campo,
non opporre niente – decifro bene il suo contegno,
sia l’antica tattica o il fardello
d’una pazienza senza luce, ma non senza calore per questo.
E penso al pane della salvezza tenuto in serbo,
gustato in quell’odore di canonica
e altro non desidero che il male e il vento.
“Credi?” rompe infine quella pausa che solo a me è sembrata lunga
volgendomi di sotto
in su la cornata di uno sguardo
non tanto offensivo quanto aguzzo.
L’animale violato nella sua tana, penso,
e ne sento la forza insospettata
crescere, crescere fino a un’obbrobriosa sicurezza.
Ed ora è lì uomo diverso e fermo
come se aspetti il mio ritorno al passo
alla stalla dolorosa da cui ero partito in fuga springando.
“Gente che come voi si crogiola
nella certezza della buona norma ignorando il resto mi offende”
e ormai non è più l’amore storto
e riottoso che parla in me ma l’alterco.
Male, male, ma non c’è altro verso
di sapersi avvinti
a uno stesso dolore che questo diverbio,
mi dico mentre il viso gli si allenta
e così rilasciato sotto il colpo
si corona di un’imbronciata infanzia;
e solo allora osservo la stanza
e in essa, con un limìo dentro, una vita
penosa che mi parla di sé da qualche suo lacerto.
“Tu che forse sei uscito dalla casa
e solo per ciò la trovi angusta
t’inebri alla ventata
non perché avviva ma solo perché distrugge.
Puoi riconoscerti in molti ma non avere conforto
mi dice poi mentre schivo la sua occhiata
guardando fuori la montagna che avvalla
e l’ultima ragazza in giù sfrecciante
e dietro a lei uno spolverio di neve
controsole nella distesa deserta.
Mario Luzi tocca una delle piaghe meno rimarginate della crisi dei nostri giorni, cioè la validità di conservare il cristianesimo e l’istituzione della Chiesa che lo rappresenta per il mondo cattolico. L’autore distingue subito dalla cerimoniosità ufficiale, sontuosa e secolarizzata con uno scarto che ammette una severa, puntuale condanna. Il rapporto instaurato in “Tra quattro mura” si risolve nel dibattito tra una religione colta nel suo appetito di libertà, polmone naturale, senso di allargare gli orizzonti il più possibile, una fede trascritta come un ciclico martirio stagionale, atto giornaliero che con spirito dolente ma caparbio riconosce i limiti di un esistere. Il cattolicesimo del poeta è ostaggio fra due termini di paragone, il corpo di Cristo e il vasto orizzonte terreno: ogni strumento che frapponga ostacoli è inesorabilmente respinto indietro, per attribuire significato all’ostia consacrata appena ricevuta prima della discussione. Il colloquio prende piede in una parrocchia di campagna, si svolge a voce bassa ma con un fascino duro e violento tra l’autore che antepone un credo di notevole respiro come “il mare e il vento” e il prete che resta relegato alle sue stanze e a un vivere recluso. L’insegnamento di Gesù nazareno o è un fiume che attraverso le spaccature di una diga trabocca dagli argini e travolge l’umanità restante o è un rigagnolo meschino. Luzi istintivo ha pronunciato “in un risucchio della mente” espressioni micidiali, alla maniera dell’acqua abbondante del fiume anche se ben presto la sua psiche si smorza ristretta come nell’alveo e può riascoltare quanto pronunciato, quasi fosse riprodotto da un disco, in forma nitida da dargli un penoso disagio, incoerente e inattivo pronto a lanciare sfide alla “preda” seduta davanti (che aspetta un’esca). Il poeta contestatore muove l’accusa che il sacerdote voglia schermirsi con una rinuncia a lottare, relega l’atteggiamento a una tattica preparata per poi ricredersi e ammette possa trattarsi di una grigia ma non insensibile pazienza. Le parole pronunciate poc’anzi nella condizione dell’alterco rendono però sincero chi puntualizza quando esce la confessione che si tratti di un gesto malvagio nei confronti dell’altro, con la certezza che soltanto attraverso la lite i due uomini possano sentirsi membri partecipi di un medesimo dolore. E il volto del parroco che sotto il colpo di una nuova offesa dimentica la tensione precedente e si incornicia di luce infantile, come un bambino che tiene il broncio, si trasforma in innocenza. La soluzione di dove sia il torto o la ragione non viene certificata. Solo un’inquietudine poetica rappresenta l’uomo moderno che “uscito dalla casa” e ebbro “alla ventata”, senza conforto è gettato allo sbaraglio di un’autonomia individuale priva di sbocchi. Fulcro del contesto e dell’ossatura lirica rimane il canonico, che gradualmente ritratto nelle sue iniziali veci di bestia disprezzabile e mediocre, a rilento si muta nella coscienza interlocutrice e rende se stesso innocente, si uniforma alla “vita pensosa” che chiacchiera di sé come gocciasse da uno sbrego sanguinante o da un brandello di carne. Il dramma conclusivo della conversazione non deve finire qui. Il poeta non ce la fa a guardare il parroco negli occhi perché gli pesano nell’anima. Pure convinto in fondo della rettitudine dell’interlocutore non resiste a guardar fuori, oltre, dove lo attrarrà hodie et semper l’orizzonte spalancato ma ancor così umano di quella montagna che avvalla. La complessità dell’esistenza, la sua contraddizione assurda coglie un motivo importante di essere: è il ritmo sinergico e il naturale afflato di una giusta presenza divina che va siglata specie all’interno delle strutture false in cui la persona agisce. Una denuncia di quel male che rende opachi e fumosi: riconoscere la verità rende rispettabili e meritevoli di onore nonostante la ricerca sia difficile e accidentata, uno sforzo teso dentro la materia magmatica in perenne moto e spesso imprevedibile che il vivere serba. La fede positiva del dovere imposta dalla vita è un tono virile di contemplazione e proprio questa intima pietas, a volte purgatoriale e doppia all’interno di protagonisti diversi (il prete, il poeta), rende la lirica documento severo del cristianesimo di ogni epoca, legge pensosa all’interno di una medesima anima turbata e divisa.
Michele Rossitti
Mario Luzi è e rimarrà per sempre un grande maestro di poesia, non fosse altro perché da senatore a vita ebbe il coraggio di alzarsi e dire a chiare lettere quel che pensava di Berlusconi e del suo governo, e non fosse altro perché Maurizio Gasparri, grande pensatore a cavallo tra il XX e il XXI secolo dichiarò di ritenerlo inidoneo a fare il Senatore.
(dal quotidiano Repubblica del 3-1-2005)
ROMA – Berlusconi bravo a fare la vittima come Mussolini? Dal centrodestra un coro di condanna ha accolto l’intervista concessa dal poeta e senatore a vita Mario Luzi sull’aggressione di Capodanno al premier. “Un po’ se l’è cercata”, ha commentato il letterato fiorentino al Messaggero, “è molto bravo a fare la vittima”. “Anche Mussolini – ha ricordato poi Luzi – si mise un cerotto sul naso, era stato colpito da un proiettile, per certi aspetti si somigliano”. Tesi ribadite in serata anche se, a detta del poeta, i giornalisti fanno “dire all’intervistato quello che essi vogliono dire e fa loro piacere sia detto”.
“Il fatto che Mario Luzi sia un significativo poeta e che sia stato nominato senatore a vita – ha reagito il vice coordinatore di Forza Italia Fabrizio Cicchitto – non gli consente di poter sostenere, senza essere contestato, l’equiparazione tra Berlusconi e Mussolini”. “Quanto alla sua affermazione secondo la quale ‘anche Mussolini speculò’ su un fatto simile, ma gli avevano sparato – ha aggiunto Cicchitto – si tratta di una frase indegna che esprime una intollerabile faziosità”. “E’ proprio un irresponsabile”, ha concluso Cicchitto.
Luzi, ha tagliato corto il viceministro alle Attività produttive Adolfo Urso, “non ha i numeri per poter essere un senatore a vita”. “Il senatore Luzi – si è lamentato anche il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, protagonista nelle scorse settimane di un altro duro scontro verbale con il poeta fiorentino – non perde occasione per gettare fango sulle istituzioni e per giustificare i violenti. Ormai è ossessionato dal ventennio e utilizza ogni argomento per tirare in ballo il fascismo e Mussolini. A questo punto si impone una riflessione da parte del Quirinale”.
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