Avvertire nelle membra un eczema pruriginoso di vermi che contagi e marcisca non solo con la crisi dell’Impero austro ungarico ma soprattutto con l’anima abusata e trascini nell’annientamento volontario di sé anche un quadro storico senza sbandierare la protesta politica è la poesia di Georg Trakl. Sbatte il disfacimento visionario e allucinato di forme sfigurate e corruzione naturale del fisico umano, del cuore che pare preceda un diluvio singolo e mondiale. Insistono scorci di ambienti irrequieti, occhi deturpati dall’orrore, bocche increspate e sanguinolente, fronti dilaniate e annegate nel sudore delle agonie che mescolano al gusto salino l’emoglobina viva o i postumi di ematoidrosi ormai coagulate. Trakl sperimenta assiduo il reale che è sgranato dalla caccia di pericolosi puzzle cromatici, ribelli dalle cose descritte nei regolamenti urbani, scompone nel cubismo di linee e piani l’utilizzo di pause tra le immagini. A ragione, le proposizioni non contengono il verbo finito e gli oggetti sono assediati nella loro emarginazione e provocano il rigurgito di una posa sconvolta, svenuta o interpretabile soltanto nelle sue porzioni individuali come sulle tele di Kokoschka. L’accanirsi delle tinte sfocia nell’amalgama di tre gradazioni vermiglie con due sprazzi altrettanto differenti di celeste. La doratura rossa del cuore si spegne nel buio notturno quando una luce si consuma durante la quiete nel suo bagliore splendente; l’occhio azzurro di chi sta per riposare smette il suo lampo nel momento in cui si accorge, fasciato nel mantello della sua medesima colorazione e una bocca rossa serra il suo oscuramento. In Di notte l’azzurro puro dell’animo e il barbarico rosso istintuale si sposano in armonia perché quest’ultimo è santificato dall’oro di un infinito, intraducibile alla vista. La notte e l’amico ipnotico che si coprono celesti e hanno labbra irrorate dai vasi sanguigni accesi, avvalorano assieme gli emisferi divergenti del vivere.
L’azzurro dei miei occhi si è spento in questa notte,
l’oro rosso del mio cuore. Oh, come quieta ardeva la luce.
Il tuo manto azzurro avvolse chi affondava.
La tua bocca rossa suggellò l’ottenebrarsi dell’amico.
Redenzioni e consolazioni non conoscono soste nemmeno nell’esperienza successiva alla battaglia della cittadina polacca di Gródek, in presenza di soldati moribondi da soccorrere che minano ulteriormente la salute più dell’alcool e degli stupefacenti da costituire il preambolo per il suicidio che di lì a poco l’autore commetterà, ricoverato in una struttura sanitaria del fronte galiziano nel 1914. I versi anticipano la sua prossima rinuncia a continuare il supplizio terreno tra cavi orali e faringi nere, metafora delle vie di comunicazione che vomitano cadaveri nel putridume delle salme, ricoperte da ammassi di sangue rappreso.
La sera, risuonano d’armi mortali
le selve autunnali, le pianure dorate
e i laghi azzurri, sopra cui il sole
più fosco si rotola: la notte accoglie
guerrieri morenti, il lamento selvaggio
delle lor bocche infrante.
Ma in silenzio si raduna sui prati,
rossa nube ove un dio irato dimora,
il sangue versato, in freschezza lunare;
tutte le vie sfociano in atra putredine.
Sotto i dorati rami di notte e di stelle
l’ombra della sorella ondeggia per la valle silente,
a salutare gli spiriti degli eroi, le teste sanguigne;
e sommessi tra le canne risuonano gli oscuri flauti autunnali.
O lutto più fiero o altari di bronzo,
l’ardente fiamma dello spirito oggi alimenta un dolore possente,
i nipoti non nati.
Lamento, una delle liriche testamentarie di Trakl lega inesorabile l’infernalità del conflitto alla sua inscindibile furia assassina. Il Sonno e il Lutto si incarnano in ipostatici rapaci che lambiscono la testa del poeta e il corpo viene fagocitato dal maroso ghiaccio dell’eternità. Si schianta come il vetro di un fiasco su scogli mostruosi e la sua voce cavernosa moltiplica un dolore lancinante di naufrago sulla distesa dell’acqua marina. L’invocare la propria sorella simboleggia la mestizia, il guardare un battello che rovina sotto l’impassibile xilografia dell’estinzione, privo di agonismo ma soltanto indice di ruderi e disperazione.
Sonno e morte, le aquile fosche,
tutta la notte frusciano intorno al mio capo:
quasi l’immagine dorata dell’uomo
l’onda gelida inghiottita
dell’eternità. Su rupi orribili
s’infrange il corpo purpureo.
E si lamenta la voce cupa
sul mare.
Sorella della mia tempestosa tristezza
guarda, un battello spaurito sprofonda
sotto le stelle,
di fronte al tacito volto della notte.
D’autunno, Trakl resiste ancora sopra gli aceri, a Salisburgo: foglie lente che cadono, estenuate sotto il violino di un’orchestra che nasconde pentagrammi di accordi violenti e improvvisi, pigmenti vividi dentro un teatro affollato di ombre fitte che, invece di seppellire, riesumano lo splendore vellutato sulla base degli azzurri di Braque e fosforescenti blu-viola con blocchi gialli di matrice chagalliana. Piante secolari di un parco, queste brevi liriche fanno compagnia a chi si sofferma a leggerle, allo stesso modo in cui i rami rossi degli alberi corteggiano il camminatore solitario, quando li sfiora a passeggio le domeniche sui viali. Poesie e foglie lasciano nel palato l’amarezza sicura di una rovina, il concerto stragista della lacerazione degrada le paci dell’anima per esaudire le angosce di un lento dissolversi, come a dire amen.
Georg Trakl, poeta austriaco (Salisburgo 1887-Cracovia 1914). La finis Austriae si traduce nei suoi Gedichte ( Poesie, 1913), in un mondo atemporale contagiato da una lebbra inguaribile, dove sgomento e ossessione si intrecciano ai motivi della droga e del rapporto incestuoso con la sorella Margarethe, fino all’ottenebrarsi della coscienza.
Michele Rossitti
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