Dipingere con sincopi e acciacchi sazi e crudeli minaccia che, in un grottesco sezionato da rigore samurai, si amalgami la maturazione di un dissolvimento per sancire in uno “zac!” l’arrivo di una partenza. Un ossimoro certificato a priori in cui lo squartamento disconosce orizzonti tranne il Nulla più totale. La lama di Francis Bacon ha spiccato la verità dalle viscere umane e ci ha scorto un unico inalterabile buio. Nelle frattaglie, il genio inglese non ha mai gonfiato la sua autopsia per riscriverla nuovamente sotto occhiate indiscrete ai limiti del vilipendio. Impossibile attribuire un senso al contesto esistenziale che non offre spiegazioni perché il mondo è vedovo di ospizi per accoglierlo. La speranza si trasforma davvero nell’attesa inservibile di Vladimir ed Etragon in Aspettando Godot, i dialoghi falliscono la comunicazione se la gente non trova parole (in ciò Beckett e Bacon viaggiano sullo stesso scomparto). Ci sono solo bovini uncinati al gancio del soffitto per glorificare questa epifania del niente: uno sprofondare rutilante nelle carni del mattatoio (come la protagonista dei Giorni felici emerge a mezzo busto dalla melma e successivamente affiora solo con il capo), uno sciogliersi della sintesi antropoide confinata nel bruco viscido di Molloy o, ancora, imballata in vestiti ispezionati da didascalie teatrali che traghettano la regressione linguistica verso il balbettare smozzicato di un bercio animalesco. Evviva la fiera di “Francis The Butcher”! Un erbivoro pingue, massacrato con seriale raziocinio, seccato con masse di colore accorpate volentieri da un muscoloso sarcasmo, condensato nella corrosione di un ampio retroterra sadico. Si può supporre che Bacon giunga proprio dal macello e impresti la sua mannaia anche a Vladimir e Etragon. Il palcoscenico e l’atelier del rifiuto demistificano i valori bugiardi di quella che Enzensberger definì “industria delle coscienze” e dunque producono antitesi in grado di dissolvere l’ipocrisia, opposizione consapevole che recida la giugulare per aprire d’ora in avanti lesioni sulle incidenze di una precisa attività storica. Proporre un metodo di salvezza dall’alienazione con lo sconfinamento dell’io da attuarsi con varie esperienze: dall’alcol alle parafrasi libertarie dell’eros, alla cacciata di casa a sedici anni per omosessualità. E’ palese che il pedigree di Bacon e il suo taglio chirurgico, immortalato nelle tele, instaurino un’acre didattica di raffigurare Sorella Morte che si cela coperta sotto la pomata del cerone produttivistico e ne costituiscano effetto probante. I drammi di Beckett con la loro negatività danno come pacificamente accettato lo sbaragliamento dei miti e processi che hanno generato questa particolare tipologia di individuo, senza scomodare le cause che invece lo determinano. L’alternativa di Bacon può qui sciogliere l’ennesimo nodo, cioè definire il compito dell’artista. Non è una diatriba tra soggetto e oggetto o una resa incondizionata al reale ma una fiducia riposta nella rappresentazione critica, nemmeno una registrazione passiva della babele sociale bensì lo sforzo riuscito di inserire l’odiata confusione nell’assetto dell’ordine. Accumulare sacche amorfe da riprodurre sotto le falangi del magma nel fluire di quarti e lombate non è affatto mettere le mani dietro la nuca. La progressiva degradazione delle membra corporee regala ai quadri sembianze rettangolari con sfondo piatto dove viene leggermente accennata un’architettura prospettica, un recinto che carcera il protagonista: la figura umana è isolata in posizione centrale, abbandonata alla deformazione di contrazioni spasmodiche e smorfie bestiali.
In Painting del 1946, una carcassa di bue ispirata a Soutine e un maschio dal volto martoriato coperto in parte dall’ombrello aiutano a capire come ogni creatura viva alle spalle di un’altra e, come dietro a una burocratica armonia, si possa nascondere il ribrezzo di una vita. Gli stadi della decomposizione anticipati nella loro informalità materica e dunque già studiati dal Seicento olandese succhiano la passionalità dei grumi cromatici per ammettere lo scontro con la realtà di tutti i giorni che diventa agonia e panico. I Pontefici dal viso disperato, posteriori di alcuni anni, sono ispirati ai fotogrammi del film La Corazzata Potёmkin e coniugati a dipinti celebri del maestro Velázquez.
In Studio dal ritratto di Innocenzo X si avverte la compenetrazione tra fondi uniformi e ritratti, ottenuti da nuclei di colore mescolati sulla superficie lì per lì; talvolta il contenuto del barattolo è scagliato sulla tela con le dita a fionda.
Nei Tre studi sulla schiena maschile vige un contrasto che esplicita la contraddizione di una routine ideale, smentita da membra pulsanti di istinto: l’organismo deve espletare i suoi bisogni abitudinari, radersi o smaltire urgenze fisiologiche e perché no, anche vomitare il brandy nello scarico di una latrina.
In Figura seduta l’ominide pare incaprettato al centro della stanza e tiene le mascelle spalancate nel grido. La sagoma e la faccia sono deturpate ma identificabili per significare il loro livore tragico che travolge, sconquassa chi le guarda mentre la distorsione aggredisce le tempie. La fisionomia lacerata scorre nel solco artistico tradizionale, polemizza a distanza con le avanguardie negazioniste del concetto figurale ritenuto troppo sorpassato e demodé. Nuovi canali quelli di Bacon, che risolvono la violenza delle fobie con l’infamia del destino contro cui è dannoso opporsi. Lo stringersi del torso è di tensione spavalda, la testa, quasi una maschera etnica, è torta rispetto al tronco e implica un gesto ribelle arrestato dalla massa uniforme. I piedi restano sospesi da terra mentre il getto cupo dell’ombra si dipana dal pavimento. L’ostaggio è accomodato in un interno dove pareti e luce dell’interruttore non indicano volumi tangibili. Gli intrecci dei muri e dei pannelli si incontrano su fughe arbitrarie che spingono a dubitare della correttezza prospettica. Queste ovvie perplessità spaziali mostrano lo scenario vuoto dove la bestia umana strilla ammanettata il suo turbamento angoscioso. Il bianco sfolgorante del paravento in bilico a mezz’aria, il blu elettrico della parete destra in cui appare pigiato un ammasso inquietante, il giallo ocra dello sfondo e il nero dell’ombra stridono con le campiture accostate in ordine e divise da netti contorni. L’ossessione di nascere e morire senza scopi precisi è data esclusivamente dalle impronte chiaroscurali che modellano le protuberanze del cranio e degli arti. Una carrellata lungo la produzione di Bacon fa notare il recupero del trittico di derivazione religiosa con la predilezione dei pannelli laterali a scapito del campo centrale. La figura mantenuta è per forza la medesima ma i riquadri decorativi di ambo i lati la posizionano in punti di vista diversi, convergenti però verso l’immagine frontale che sta nel mezzo. La riproposizione dei canoni dell’iconografia ieratica, al contrario, in Bacon compensa la rinuncia alla spiritualità della trascendenza per certificare la brutalità e il disaccordo prepotente che divide la sete della fede dalla palese insensatezza della vita. Per gemellarlo a Beckett, l’essere umano non riesce ad autodefinirsi un caso, un manichino insulso che deve recitare la sua parte nel derby di quel letamaio a cielo aperto che è il mondo, senza una ragione di fondo.
Michele Rossitti