SCANDALO IN VAL GARDENA: “inciampare” nel destino.  Riflessioni di Gabriella Cinti sul romanzo di CLAMBAGIO, Giovane Holden edizioni, Viareggio, 2022

9788832929904_0_424_0_75Mi sembrerebbe di poter cogliere una chiave di lettura del romanzo in quella centralità dei disinganni identitari che ritornano in parallelo, come quinte sceniche che dischiudano cambi di rotta destinici: nello svolgimento della narrazione emerge un parallelismo speculare, non evidente di primo acchito, ma su cui in realtà si gioca il cuore duplice della vicenda. Singolare appare che questo cedimento investa il maschile, sia pure in forme del tutto diverse, come a sottolineare allusivamente una sorprendente fragilità e vulnerabilità della condizione maschile che gli eventi possono di colpo rivelare. Tutto ciò apre una prospettiva di riflessione esistenziale più ampia sul tema delle certezze in materia di statuti personali, mettendone in luce la labilità che trapela indirettamente dal tessuto espositivo, ma non di meno appare come sfondo teorico di tutto il racconto.

Vorrei quindi affiancare il lettore con la consapevolezza di essermi immersa nel libro tentandone una comprensione multipla, interna e partecipe da un lato, obiettiva e spassionata dall’altro. Dunque osserviamo che già in apertura si stagliano due personaggi posti in netta antitesi di cui il primo è Manfred, calcolatore, egoista e arido quanto volgare. Le persone sono per lui pedine di un gioco d’affari, da trattare con la stessa freddezza, senza scrupoli di sorta. Lui è il prototipo del musiliano “uomo senza qualità”, tutto luoghi comuni e “banalità del male”. È un essere di facciata quasi con se stesso e in cui si dispiega quella cattiveria facile e come connaturata, ancora più esecrabile perché del tutto aliena da ogni forma di coraggio, fosse anche quello dettato da intenzioni malvagie. Di virile ha solo la sua fisicità, ma opaca, anch’essa rientrante in una classificazione canonica, senza una personalità carismatica che la illumini, mentre la sua disonestà si manifesta in crescendo, attuando il primo colpo di scena: il gettare la maschera e rivelare la sua falsità come una nuova sinistra fisionomia. Un personaggio bieco e senza anima, incapace di provare sentimenti genuini e pronto all’istante a rinunciare anche alla sola ipotesi di vivere un amore, pur di assicurarsi una solidità economica. Katharina, la protagonista femminile, si presenta subito come l’opposto. La troviamo già annunciata, ancor prima di vederla, come portatrice di una bellezza e di una grazia che anticipano la sua fisionomia interiore. I due rappresentano esattamente i poli antitetici, ma il femminile spicca per fermezza e netta superiorità – che si trasformerà in vero eroismo – e soprattutto per un’integrità assoluta, refrattaria a qualsiasi compromesso per una concezione sacrale quanto spontanea, dell’amore che apparenta la donna alle antiche eroine della tragedia greca. Tanto in alto la donna, tanto più traumatizzante la scoperta del voltafaccia del suo fidanzato e il dolore conseguente all’impossibilità di riconoscerlo: scoprire la metamorfosi di lui come il peggiore degli incubi, porta alla più cocente delusione, il tracollo di quella fiducia solare e ingenua che era un fondamento della vita di Katharina, tutta basata su valori autentici. Lo sgretolarsi della sua fideistica convinzione comporta una rivoluzione nella sua figura, accentuando la sua coraggiosa determinazione e sfidando l’ostile mondo circostante pavido e bigotto. Il romanzo contiene dei detonatori psicologici ma con effetti dirompenti nella dinamica degli avvenimenti, affidati tuttavia alle azioni chiave della scoperta disillusoria su una identità. La portata di queste ripercussioni si trasferisce tuttavia – senza scarti – dalla riflessione psicologica al dispiegarsi delle vicende, con la sorprendente intensità della vita vissuta, dei fatti che prendono in pieno viso, come uno schiaffo che svegli bruscamente da uno stato che si credeva immutabile. Questo tema chiama in causa in modo sottinteso il penoso contrasto tra la realtà e l’apparenza e di quanto le proprie sicurezze possano crollare all’improvviso, generando orizzonti di vita prima sconosciuti, nuove strade da prendere, per lo più irreversibili. È l’antico destino che sorprende gli umani, smantellando ogni possibile certezza e i solidi progetti di costruzione personale.

Tornando a Katharina, la sua lealtà e la sua purezza dovranno misurarsi con il clima soffocante dal punto di vista della mentalità, presente in Italia negli anni Cinquanta del Novecento e particolarmente nel chiuso della provincia. La Val Gardena non ne era immune e la collocazione così a nord d’Italia indubbiamente non l’aveva graziata in questo senso. Le figure maschili risultano particolarmente standardizzate, come il prete del paese, un essere freddo e convenzionale. Pensa per dogmi, abdicando così a quella misericordia che avrebbe dovuto essere la principale missione della sua vita. Oltre a metterne in evidenza la freddezza e il cinismo, l’autore dimostra persino il comportamento contraddittorio e stolto del religioso, in quanto non sarà neppure in grado di rispondere alle stringenti contraddizioni che la donna gli snocciola sotto gli occhi. Nello groviglio della sua squallida natura, cogliamo anche la presenza di una malafede egoistica che lo porta a rigettare d’istinto ogni atto risoluto e impegnativo in favore di una vittima come Katharina e in lui possiamo leggere il retaggio archetipico del prelato manzoniano divenuto leggendario. Nega a priori le legittime e umanissime richieste della ragazza, brandendo i sacramenti come spade affilate contro gli esseri umani, preoccupato esclusivamente di essere in regola con il rigido protocollo dogmatico del cattolicesimo. Ma vi è di più. Incarna una spietatezza che si insinua in ogni prevaricatore a questo mondo, specialmente ammantato di un potere, quello sacerdotale ancora particolarmente importante nella società dell’epoca. A questa insensibile miopia si aggiunge, aggravandola, il pregiudizio etnico di differenziazione tra gli abitanti del luogo e gli “italiani”, palesemente percepiti non solo come stranieri, ma soprattutto come ospiti indesiderati. L’antica questione etnica, protrattasi fino ad oggi, rivela qui il suo volto storico denunciando una convivenza tra i due gruppi forse mai del tutto pacificata, e allora decisamente spinosa. In un contesto di egoismo sociale, la figura del prete si esibisce in un crescendo di durezza e crudeltà al confine tra il tragico e l’esilarante (se la gravità della situazione non lo potesse nemmeno far concepire) fino al macchiettismo di un linguaggio apocalittico, roboante quanto vuoto, stereotipato e anonimo: un esemplare di ideologia religiosa al limite del fanatismo e del delirio.

La Val Gardena sembrava essere largamente contaminata da una mentalità gretta e bigotta, che si evidenzia per esempio nella reazione della sorella di Katharina, Karin, dopo l’improvvisa tragica scomparsa della ragazza: un’indifferenza gelida e piena di pregiudizi estesa fin nei confronti del bambino rimasto orfano. Ma non brillano per slancio nemmeno le altre sorelle e la stessa madre di Trina, che sembrano fare a gara nello scansare le loro responsabilità per una serie di poco convincenti motivi: Margareth e Karin sono infatti chiaramente dipendenti – quasi succubi – dai preconcetti dei loro mariti, cui non oppongono alcun tipo di resistenza. Quest’ultima sembra essere la copia maschile di Manfred, quanto a mentalità ristretta e a intransigenza coniugata con un opportunismo del tutto scoperto. Nel nucleo familiare della giovane, dunque, è del tutto assente quella pietas che più che un valore, è quasi un sentimento biologico, storico e forse prestorico, se pensiamo a culti familiari rinvenibili in tempi ancestrali e a livello planetario.

L’ambiente sociale rimane in secondo piano, ma l’autore mette nitidamente in luce le sacche di povertà diffuse negli strati fragili di popolazione come nel caso della nonna Insam, e tutto ciò fa risaltare con maggiore crudezza, al di là delle considerazioni sociologiche, la natura egoistica dei suoi familiari, al limite della assoluta disumanità, una tabe che sembra connaturata in questo gruppo, tanto da produrre la sensazione che la figura della ragazza, con il suo coraggio, la sua dirittura, sia geneticamente estranea al suo ambito parentale.

Il romanzo si gioca su due piani, quando la vicenda si sposta in area fiorentina e illumina un quadro documentario ancora dominato da malattie endemiche quanto letali come la poliomielite, in pieni anni Cinquanta e pur a livelli sociali molto più elevati. Un Paese impotente di fronte a questo male che mieteva vittime persino tra i bambini. Ma in generale la situazione medica, ancora arretrata, specie in zone montane come la Val Gardena, rivelava il suo aspetto impietoso di estreme difficoltà di cura, accentuate da eventuali condizioni economicamente disagiate, con il conseguente stuolo di folle di vittime transitate nella storia senza nome, destini senza appello per molti, per la più parte. Tuttavia il piccolo protagonista porta nel nome e nella sua anima infante, un’impronta di salvezza e di rinascita che lo riscatterà dalle miserie morali e materiali dell’ambiente in cui è nato. Innanzi tutto nel nome, così legato allo splendore della cultura rinascimentale italiana – Leonardo Donatello – vi è un carisma profetico, una invisibile corazza che in modo forse talismanico lo salverà dalla morte per inedia, aiutandolo a resistere alle prove estreme a cui, per incuria e perversa stolidità, il suo fragile stato neonatale verrà esposto. Ma se in nomina omina, possiamo scorgervi anche una profezia di una brillante esistenza, ricca di affermazioni e di amore e gusto per l’arte.

In effetti, l’angusto mondo gardenese, pure di sua provenienza, sembra rimanere sullo sfondo, come un fantasma sospeso nella sua vita, nella nuova dimensione del suo essere, ma sarà proprio la scoperta della verità sulla sua adozione che lo getterà in uno stato di crisi interiore. Qui si fa strada un conflitto tra due visioni del mondo, che sembrano essere anche dell’autore e cui abbiamo già accennato, cioè quello tra la fiducia forte nella costruzione volitiva della propria fortuna e invece il riconoscimento di una Potenza che decide delle sorti umane, del tutto avulsa da ogni possibile controllo personale e in grado di modificare non solo il corso della storia e delle storie, ma persino la propria identità e la cognizione di sé. Un anelito impetuoso di giustizia si fa strada infatti nell’uomo, ma contemporaneamente prevale il desiderio di rivalsa; in ogni caso assistiamo a una sorta di dissociazione nella sua individualità, in cui l’acquisizione dell’esistenza di radici genealogiche diverse, procura un disagio e un disorientamento radicali che smantellano le certezze della sua vita precedente e aprono un altro rivoluzionario scenario di vita. Il romanzo illustra il sottile crescendo della sua inquietudine, una sorta di autocoscienza (che rinvia alle conoscenze psicoanalitiche dell’autore) che innesca una nuova esistenza in cui una diversa consapevolezza manda in crisi l’identità precedente, una sorta di spartiacque tra due epoche. Interessante vedere come Clambagio riesca finemente a sdoppiare gli stati d’animo di Leonardo, che si manifestano anche con uno stile espressivo conforme, collocando in una sorta di sublimazione di sé l’amico Guarniero, un pacato grillo parlante che lo incita a far prevalere i sentimenti migliori e compassionevoli al fine di lenire il dolore con il balsamo della bontà e non cedendo agli impulsi violenti e mai realmente gratificanti della ritorsione. Ma una sorta di macchina da guerra, perfettamente congegnata, si delinea a livello progettuale nella mente di Leonardo, quasi si impadronisce di lui: egli infatti sottoporrà a una sorta di contrappasso tutte le persone – soprattutto il padre biologico – coinvolte nell’atteggiamento crudele nei confronti di Katharina e di suo figlio. Il piano meticolosamente attuato lo porterà tuttavia ad entrare in una spirale di angherie che sembra crescere esponenzialmente in lui, una forza cieca, travolgente, che richiama echi di tragedia greca, nonostante le forme strategiche moderne messe in atto. Un archetipo di vendetta che sembra inizialmente appagarlo ma finisce poi per sommergerlo con un carico di energie negative, portandolo ad allontanarsi dai valori umani positivi assimilati nella sua educazione, fino a estraniarsi dalla sua stessa personalità precedente. Vi è un momento in cui egli si trova ad un bivio identitario collocato dentro di lui, una furia che nasce da una sofferenza quasi intollerabile – per giunto esplosa di colpo nella sua vita – una pena in cui la collera prevale sulla sofferenza dell’“orfanitudine” biologica, a causa di un percorso non potuto vivere, quello della filialità naturale. Il senso di smarrimento che lo turba, è segno di quanto gli influssi ereditari possano connotare il nostro carattere nel profondo e che occorra una rinascita ad altra condizione – pur passando anche attraverso il girone infernale delle azioni punitive – fino a che uno spirito di misericordia possa operare un nuovo faticoso equilibrio e sanare le ferite interiori. L’odio viene, in un certo senso, assimilato a una sostanza biologica che produce dipendenza, un “cordone ombelicale” tossico da cui faticosamente staccarsi per aprirsi all’uomo nuovo, ricco di una sofferta ma solida armonia psicologica. Ma non si tratta solo di rancore, la destabilizzazione cala su Leonardo già da prima, quando, nella sua Weltanschauung monolitica, aveva nutrito una fiducia totalizzante nella possibilità dell’uomo di forgiare da sé la propria vita, facendo dell’idea filosofica ed etica del libero arbitrio, un costume mentale privato. L’apprendere della sua vera nascita e della successiva adozione, porta nella sua vita l’accecante presenza del destino che guida l’uomo e prescinde dalle volontà dei viventi, che si illudono di fabbricare qualcosa ignorando che la Sorte – la Tyche greca – è una Dea che li guida a suo piacimento, come le Moire che tessono la trama delle loro esistenze. La ridda dei “se” piove sul capo sconcertato del protagonista, inducendo in lui un cambiamento di visione, verso una maggiore complessità intellettuale e morale, una visione più chiaroscurata, seppur nelle ansie che produce: infatti i poli ritenuti opposti – fatalità e libera scelta, amore e odio, bene e male – arriveranno a intrecciarsi in nome di un divenire che deve viverli per intero, per evolvere verso la propria salvezza interiore. L’esperienza di shock e il successivo intimo sconquasso, generano il potere maieutico di far emergere una nuova coscienza nel suo animo e ampliano la dimensione dell’amore, forgiato da sensazioni ancor più brucianti, in quanto il dolore si è abbattuto come un fulmine su di lui. Questo percorso è particolarmente difficile in quanto non coglie Leonardo nella età evolutiva, quando la propria identità è flessibile e in divenire, ma da giovane adulto, quando la fase di strutturazione della personalità è ormai consolidata e un evento traumatico come questo richiede un’energia assai maggiore che se fosse accaduto in età adolescenziale. E questo compito, così arduo, nelle sue risultanze è ancora più catartico. Infatti, l’uomo riuscirà a riprendere le redini della propria vita e a pilotare i suoi stessi impulsi, non disconoscendoli, ma misurandosi con essi, scendendo nelle sue oscure profondità, con le sue strategie sempre più affilate e distruttive, incontrando così in pieno le sue ombre, i suoi demoni. Arriverà così con smagata lucidità, persino a riconoscere una qualche eredità biologica in una certa sua ritrosia emotiva e in un temperamento inaspettatamente facile a cedere ad impulsi di rabbia, pur nella pianificazione concettuale del suo progetto vendicativo. Vi sono addirittura passi del libro in cui la negatività di Manfred, il vero antagonista, giunge a contaminare sottilmente il comportamento di Leonardo: subdola come è il male, si insinua nel suo linguaggio, che si dimostra influenzato da una sorta di mimesi o sdoppiamento linguistico nelle espressioni rozze e volgari, stridenti con il suo linguaggio forbito e beneducato, che il raffinato fiorentino si ritroverà a pronunciare – spia di un veleno morale contagioso – e nelle maniere spavalde e tracotanti che il nostro assume al primo colloquio con il suo padre-nemico. Ma direi di più, che la marca espressiva all’insegna di una trivialità spesso gratuita di molti personaggi, riconduce a uno squallore etico che si autostigmatizza, emergendo con virulenza proprio come conseguenza paradossale dal dettato delle loro conversazioni. Per quanto riguarda le peculiarità dello stile di Clambagio, vorrei mettere in evidenza come il suo stile scrittorio sia marcatamente dinamico, affidato come è ai dialoghi che si succedono incalzanti: le azioni paiono visualizzate in presa diretta, come fotografate con le parole. Nondimeno, il pensiero dell’autore si fa ampiamente strada nelle pieghe dei discorsi, in alcuni scarti bruschi, come inizi di confessioni che indirizzano il lettore allo strato sotterraneo degli stati d’animo, dei pensieri, soprattutto di Leonardo. Ci sono poi alcuni snodi in cui, attraverso le sensazioni e le amare riflessioni espresse della donna in forma mediata, si giunge in un contatto palpitante con il suo mondo intimo. Grazie al filtro con cui l’autore talvolta interviene con dei momenti di discorso indiretto, si attiva un coinvolgimento frutto di una consapevolizzazione che matura rivivendone i suoi echi interni. Si tratta di una elaborazione emotiva che si espande dalla coscienza di Katharina, una luce riflessa della sua aura, e produce nel lettore una complicità empatica per la sua sensibilità ferita.

Il vero centro del romanzo è dunque questa donna, eroina storica e personale di Leonardo e simbolo di una condizione umana di vittima sacrificale. Il contesto sociale dell’epoca ha reso la sua sfortunata vicenda un dramma di incomparabile perfidia, che vede schierati una serie di carnefici in una sorta di non premeditata coalizione. L’epilogo della sua storia, nella asciutta e filmica versione dell’autore, affidata ai dialoghi in cui l’azione si produce in diretta, riproduce un martirio sacro accaduto in epoca moderna e l’effetto non è solo la pena struggente per la sua innocenza calpestata ma il senso arcaico di sacrifici secolari che tanto hanno investito il femminile e che purtroppo – in forme diverse – la cronaca nera riporta oggi in auge sotto forma di maltrattamenti e omicidi. Molti sono i volti con cui violenza si abbatte sul femminile, spesso più inerme e soprattutto fiducioso senza riserve. E la colpa indelebile – che si manifesta come una duplice crudeltà, sentimentale e fisica – di quella tipologia maschile incarnata da Manfred, non è solo la malvagità di cui comunque si macchierà; più inaccettabile risulterà infatti quel tradimento affettivo, quella slealtà sacrilega nei confronti dell’unione amorosa e per giunta per futili motivi, per viltà e abissale miseria umana. Cori invisibili di martiri sorelle sembrano alonare il suo corpo delicato strappato brutalmente alla vita. Ma la donna lascia un dono d’amore immenso che sarà il suo più grande lascito, un tesoro di eredità, di cui il figlio custodirà come reliquie le poche tracce materiali, una lettera, una catenina, la sua foto, che diventano offerte sacrali ai Lari, a una figura già santificata dalla sua immolazione. La lettera addirittura, dal candore disarmato e commovente, diventa l’unica voce che il figlio possa ascoltare, ma testimonianza purissima: un pegno da conservare al centro del cuore e un segreto monito a diventare degni di questo amore incondizionato. Ecco che l’eroismo e la profonda onestà morale, si stagliano su uno sfondo familiare e collettivo di una meschinità e di una grettezza inaudite, di una chiesa piena di falsità e di Don Abbondi ancor più truci e di una famiglia che si fa in qualche modo complice di omicidio con quella scellerata indifferenza che non concede attenuanti, con quel palleggiamento di responsabilità rifuggite che ignora totalmente anche il più elementare senso di pietas umana: colpa gravissima perché compiuta nel seno di un nucleo familiare da cui sarebbe naturale aspettarsi l’opposto. In questo mondo torvo, che contrasta in modo clamoroso con l’apparente confidenza e cordialità dei rapporti di un piccolo centro montano, dove tutti avrebbero dovuto avere a cuore le sorti dei loro compaesani, circondati dalla bellezza amena del paesaggio, in una atmosfera di condivisione basata sulla vita vera e non su quella virtuale di oggi: proprio qui invece si consuma un dramma efferato degno delle torture inflitte nelle segrete di un castello da crudeli feudatari medievali. La collocazione nel passato non suona mai come un’attenuante per i pregiudizi del tempo, anzi, alla fine, mette in luce la corruzione di fondo del gruppo, il feroce egoismo – che è il più spietato dei mali – e fa risaltare, per converso, la luce rara dei pochi che si opposero a questo olocausto, come il maresciallo Del Pian, figura non secondaria non solo per la sua umanità ma per il suo ruolo di deus ex machina, o di angelo laico. Non ci stupisce nemmeno che fosse italiano e trattato con sufficienza dall’enclave locale, abbagliata dai pregiudizi etnici. Risulterà infatti tra gli eletti e i premiati, a fronte dei castighi inflitti ai colpevoli, in quella sorta di anticipo di Giudizio Universale messo in atto dal protagonista, nei panni di un “Giustiziere della Vita”, tema questo già molto caro all’autore e al centro del suo precedente romanzo “Shamash”.

Come dalla pira di un rogo, un immenso indice accusatorio, che farà inciampare in eterno i colpevoli (se lo scandalo etimologicamente in greco antico è proprio la pietra d’inciampo – come quelle ebraiche – e quindi un monumento alla memoria), degno di una visione da film di Bergman, sembra sollevarsi dalle pagine del libro, oltre la storia, oltre la verosimiglianza della narrazione, per diventare paradigma di una alta e solenne condanna della bassezza umana, una palpitante elegia – velata da un discorso diretto, irruente ma vibrante di emozione – dell’amore familiare e della martire Katharina, emblema dell’Assoluto materno.

Gabriella Cinti

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