Alcune poesie di Gino Rago da “I platani sul Tevere diventano betulle”, Edizioni Progetto Cultura, lettura di Giorgio Linguaglossa

copertina plataniHo tra le mani il libro di Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle. Conosco Gino Rago dal 1989. Lui, di Trebisacce, un paesone al confine tra la Calabria e la Basilicata. E voi sapete quanta forza, quanta tenacia, quanta dedizione alla poesia occorra per sopravvivere, come poeta, in quelle lande. Un poeta deve trovare in sé una forza micidiale per sopravvivere senza chiudersi nel proprio scrittoio come fanno tanti provinciali e tanti burocrati, ma è che in quegli anni di trapasso la Musa non concedeva tregue e doni a nessuno, la poesia era ancora di là da venire, la poesia italiana dormiva sonni tranquilli tra una promesse de bonheur, tra una antologia Mondadori e le migliaia di antologie amicali e redazionali che si facevano e si fanno oggidì come caramelle incartate. Una volta ebbi l’imprudenza di chiedere ad un autore di antologie quale fosse l’idea guida della sua proposta di antologia. Per risposta ebbi un improperio.

È che in tutti quegli anni è apparso sempre più chiaro che la poesia italiana è diventata una questione privata, alcuni «poeti» si erano installati nelle redazioni delle più grandi case editrici , e di là dirigevano il traffico. Erano diventati dei semafori a loro insaputa (ma io sospetto che loro ne avessero una qualche cognizione).

Ecco, Gino Rago è dagli anni novanta che cercava una propria strada, una strada lastricata di pensiero poetico, per sortire fuori dalla nebbia del minimalismo e dai gerghi letterari in vigore nel nostro paese. Io nel frattempo chiudevo l’avventura del quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, avvenuta nel 2005 con cinque anni di ritardo perché avevo preso atto della inutilità di fare una rivista di poesia. Una volta, nel 1996, ricevetti una cartolina postale da Zanzotto il quale mi scriveva: «l’indirizzo preso dalla rivista non mi interessa». Quella frase per me fu una lezione di vita, il poeta di Pieve di Soligo era interessato soltanto alla propria auto storicizzazione e non aveva tempo da perdere. Ne presi atto.

Ecco, Gino Rago nel frattempo continuava a cercare ma aveva davanti a sé una strada tutta in salita, avrebbe dovuto saltare a piè pari tutta la poesia del Sud del secondo novecento, avrebbe dovuto fare i conti con la poesia «fondazionale» e topologica del Nord e del Centro (cioè la poesia che prendeva congedo dall’impegno e da una poetica per diventare atto privato, personale, individuale, edonistico). La strada in salita diventava sempre più ripida. Nel frattempo, i nostri contatti rimanevano in vita, ma restavano sporadici per via della lontananza di Trebisacce da Roma dove abitavo e abito, quella distanza non ci consentiva un rapporto più stretto. Poi, in questi ultimi anni c’è stata la rivoluzione telematica, internet, e questo ha reso possibile un fitto scambio di idee sulla poesia e sul mondo come prima non era possibile. E così, con la nascita de L’Ombra delle Parole la frittata era fatta, la rivista on line ci consentiva un interscambio quotidiano, una formidabile sollecitazione quotidiana. Era un acceleratore di particelle e di idee. E questo ha permesso la nascita di una nuova piattaforma di poetica, la nuova ontologia estetica, con l’apporto di altri poeti, ciascuno ha portato il proprio contributo di idee.

Ecco, questo I platani sul Tevere diventano betulle, è «libro di viaggio», un viaggio di progressivo allontanamento dalla poesia epigonica e caudataria che si fa in Italia da molti decenni e di progressivo approdo ad un nuovo genere di poesia, una poesia anedonica che presuppone un nuovo «modo» di porre l’istanza del poetico; detto in una parola, la poiesis viene vista da Gino Rago non più come rappresentazione ma come presentazione. Sono molti anni ormai che ci stiamo girando intorno, con contributi filosofici ed ermeneutici di tutti i partecipanti a questa avventura, e questo libro di Gino Rago segna un punto di svolta e di non ritorno. La poesia italiana ha svoltato e non può più tornare indietro. Se questo è avvenuto è un merito anche e in particolare del poeta di Trebisacce che ha saputo sviluppare la propria poetica in direzione di una relazionalità orizzontale e verticale tra tutti gli attori e gli attanti che in questi anni hanno preso parte a questo processo di crescita, infatti nel libro sono nominati, con nome e cognome, insieme a nomi e personaggi di fantasia anche le persone che in carne ed ossa hanno abitato la ricerca della NOE. Il risultato è un libro di straordinaria densità e complessità. Ci sono voluti trenta anni per uscire dalla palude della poesia italiana, ma Gino Rago c’è riuscito. Ed è arrivato alla «forma-polittico» della poesia, la più alta e problematica forma di poesia che oggi è possibile esperire. Penso che il «polittico» sia la forma più idonea per raffigurare, in poesia e non solo, il mondo moderno con la sua complessità, con la sua politticità, con la sua elliticità, con la mancanza di un centro su cui fare riferimento. Poiché il mondo ha perduto il suo centro stabile e il fondamento stabile, la poesia questo «fondamento» deve costruirselo da sé, e così ricorre al postulato della instabilità generale di tutte le forme artistiche e di tutti gli atti percettivi, ad un fondamento meta stabile, ad un fondamento che adotta il limite ed il finito come propri della propria ontologia positiva.

Gino Rago ha compreso che la promessa di bonheur della poesia epigonica è una promessa fallace e fedifraga, che l’oggetto dell’estetica è qualcosa che non sta né qua né là. E l’arte non ha modo di acciuffarlo, se non con l’accalappiacani, o l’acchiappafarfalle. In ciò, il concetto di arte è affine a quello delle nuvole. È un concetto rarefatto. È un concetto meteorologico.

L’arte che vuole essere fondazionale, si ritrova ad essere funzionale, perché l’arte non fonda più alcunché tranne la propria metessi con lo spirito fatto di immondizia. Così, l’arte scopre la propria natura meteorologica e merceologica. L’arte suprema è la forma suprema di merceologia dello spirito. L’arte di Baudelaire ha mostrato che quella «promesse du bonheur» che essa promette è, in realtà, una truffa, in quanto essa è sempre meno sicura della propria esistenza e della propria sopravvivenza nella società signorile di massa, quella delle merci. L’arte però risponde alla propria insussistenza con il ritorno del rimosso, ripresentando ogni volta quella promessa fedifraga sapendo della menzogna ma tacendo. Ed ecco come il silenzio si insinua nella sua struttura con il ritorno del rimosso. Baudelaire ci ha mostrato in maniera indiscutibile quanto quella promessa di felicità sia una truffa dello spirito servile e quanto la pacchianeria sia vicina all’arte nella sua più alta espressione.

Giorgio Linguaglossa

 

Lo specchio, il vuoto

Cara Signora Jolanda W.,

Il mio amico*, quello che si occupa del Signor Nulla,
Litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non gli dia molto credito,
Dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

Sbiadisce le foto, scontorna il presente, il futuro e il passato,
Il mio amico** se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo
che passa],
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

Lo vedo attraverso la vetrata della Geback der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

Hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

** il mio amico: E’ Giorgio Linguaglossa

 

Ulisse in vestaglia

Ulisse è in vestaglia,
Si ubriaca tra le stoviglie della reggia.

«Spio la vita dalle fenditure a distanza neutra dagli eventi.
Estraneo a me stesso annuso il giorno

con le certezze d’un rabdomante,
Taglio il percorso della luce

Quando rimbalza dalle bottiglie al cuore…».

Chi davvero sei?
«Sono in vestaglia, navigo da libro a libro,

Sbaglio i vettori della rosa dei venti,
Sa, non sempre indovino la stella polare,

Schivo a fatica scogli, fingo naufragi,
Mi invento qualche approdo di fortuna,

Lo vedi anche tu … L’Odissea?
È una grande bugia».

 

Le città

Cara Signora Jolanda,
Ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.

Passa da qui ogni mercoledì,
Mi fissa negli occhi e prosegue:

Chi sei? Cosa porti nella borsa?
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino

Per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.
Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,

Il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.
Nei caffè di Cracovia ora tutti mi chiamano

“Il-poeta-santo-bevitore”.
Questo nome ora è il mio destino».

Se non a Lei a chi potrei dire
Che le città che lasciammo ci inseguono…

 

Il bacio

Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram ferma la sua corsa,

dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka,
è in polemica con Schiele per« ll Bacio» di Klimt,

l’aria d’autunno si guasta.
Il mio amico ha scritto:

«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»

Il vuoto dentro lo specchio è assenza o cruna nell’ago
verso la più alta conoscenza?

Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:

«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale».

La Paradeplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.
Francesco Giuseppe. A Trieste, a Piazza dell’Unità,

fin dall’alba lascia il Castello di Duino,
tracanna Campari e spritz al Caffè degli Specchi.

A Vienna la principessa balla con un uomo senza qualità.

 

Tadeusz Rózewicz
[L’eccesso di memoria]

Cara Signora Rózewicz,

So che conosce i confini
Tra poesia, prosa e prosa poetica,

Li conosceva Tadeusz, li conosce Ewa,
Li conoscono tutti i poeti dell’ Ombra.

Atene, Alessandria, Gerusalemme, Roma
Le Sue pietre miliari,

Ma l’amica di Cracovia non é in grado di tradurre
Le parole mai pronunciate.

Jolanda W. e M.me Hanska sanno della fabbrica dell’amore,
Degli amanti che non riescono più a toccarsi,

Delle mani che si fermano per eccesso di memoria…
[…]
Le parole si impigliano in scuse puerili,
Due stalloni nel prato emanano vapori.

L’amministratore delegato della fabbrica
Corre sull’erba dello stesso prato

Zigzagando come colpito da un fulmine.
La città nell’assedio è senza luci,

Senza vetri le finestre delle case,
Vuote le stanze, senza voce lo smalto del cielo.

Sul fiume sbraita un vento da ponente.
[…]
La memoria in eccesso
Si è alleata con il buio, litiga sul terrazzo con le stelle,

Sbatte parolacce anche in faccia alla luna.
Ciò che dice del sole va oltre la decenza.

Il mare sputa bottiglie, chiede aiuto.
Invita a baciare miliardi di bocche.

 

Il passato

Portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato,

Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore,
I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.

Lei, da poeta delle dissipazioni lo sa:
I morti ai processi dei vivi

Si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
Il nostro amico di Istanbul o di Cracovia si spoglia in un pied-à-terre

Con la sua donna,
Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,

Si guardano negli occhi come due sconosciuti sull’abisso.

Gino Rago

 

8 commenti
  1. In questa deriva verso la narratività e la iperletterarietà della forma-poesia degli epigoni del Novecento, siamo giunti, senza accorgercene, a una «scrittura bianca». Cosa voglio dire? Voglio dire che non c’è più un «io» ma la sua contraffazione: c’è un singolare-plurale che è la controfigura dell’«io», non ci si rivolge più al lettore ma al proprio specchio, c’è un presente per il presente che è la falsificazione del presente; altri tempi, come il congiuntivo e l’imperativo, vengono sostituiti dal presente indicativo, che è un tempo amodale, che può stare dappertutto e in nessun luogo, che è il surrogato di una azione (che richiederebbe un verbo modale e transitivo), la finzione di una azione. Le forme ottative, interrogative, parenetiche, esortative, dubitative vengono semplicemente espunte dallo spartito della scrittura poetica: la scrittura letteraria dei giovani autori, i cosiddetti «cannibali» ma anche quella dei neo-elegiaci e dei neo-dismetrici che scrivono in un verso «liberato», ne è un esempio. Presso gli autori di poesia che oggi hanno meno di cinquanta anni si assiste al dilagare di questa scrittura neutrale (e neutralizzata) sia nel romanzo che nella forma-poesia. È una scrittura che non conosce l’esistenza del non detto, del segreto, del non dicibile, dell’invisibile; si parte dalla presunzione che tutto sia «ottico», a vista, immediatamente dicibile, che tutto sia visibile, prensibile. Tutto deve essere riconoscibile. È una scrittura innocente che ha rimosso il problema della responsabilità della scrittura letteraria. Si segue il concetto di una lingua-strumento che non ha più legami né con il linguaggio di tutti i giorni né con quello della tradizione: una scrittura réportage si diceva una volta. No, è qualcosa di più invadente e minaccioso. È una scrittura che vuole disfarsi della socialità sulla quale è fondata la lingua di relazione. È un calco della scrittura mediatica. È un calco della frammentazione atomistica della comunicazione mediatica. È una scrittura che nasce dalla riconoscibilità del linguaggio tele-mediatico.

    Una scrittura che si è liberata dell’eleganza e del silenzio in quanto aproblematica, che espunge da sé ogni elemento che non le è consentaneo, ché altrimenti la ricondurrebbe alla Storia. Se si accetta una scrittura neutrale, allora le «cose» perdono il loro peso specifico e il loro peso gravitazionale, galleggiano nello spazio bianco di una scrittura bianca liberatasi del gravame della gravità; perdono il loro colore, la profondità, la tridimensionalità; se la scrittura poetica accetta lo stato di quiete di una scrittura bianca, diventa un’algebra neutra e asettica, una questione aritmetica e ottica, e l’«io» diventa il riflesso condizionato dello «sguardo», che può oscillare all’interno di una coscienza meramente «ottica», anzi, la coscienza diventa una funzione dello sguardo, un congegno di registrazione di quanto accade al di fuori dell’«io» come proiezione ottica dell’«io».

    Il libro di Gino Rago opera una drastica rottura della forma poesia tradizionale, riprende il filo del surrealismo europeo che in Italia ha avuto ben poco ascolto e lo iscrive in una forma-poesia di nuovo conio che risponde ad una nuova ontologia estetica. Questo drastico allontanamento dalla scrittura poetica in uso oggi in Italia era un atto dovuto ma non era semplice inventarsi una metafisica e un nuovo linguaggio, e non era affatto scontato.

  2. I flagellati riposano supini.
    La deriva ha la forma imbrattata di una parete. Nel verso smorzato di un clacson
    il sottile ricordo dello scontro. La malattia così come la vecchiaia
    nel gioco della verosimiglianza appaia Trastomer a Michel Piccoli.
    L’album ora è completo.

    Un piccolo omaggio a due grandi raffiguratori di poesia.
    Grazie Gino Rago, Grazie Giorgio Linguaglossa.

    Una pagina memorabile, grazie Erato.

  3. L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
    I flagellati riposano supini.
    La deriva ha la forma imbrattata di una parete. Nel verso smorzato di un clacson
    il sottile ricordo dello scontro. La malattia così come la vecchiaia
    nel gioco della verosimiglianza appaia Trastomer a Michel Piccoli.
    L’album ora è completo.

    Un piccolo omaggio a due grandi raffiguratori di poesia.
    Grazie Gino Rago, Grazie Giorgio Linguaglossa.

  4. Pr quanto riguarda l’esperienza poetica di Gino Rago, con un richiamo particolare a “I platani…” non posso far altro che ripetermi. Il poeta in questo suo peregrinare nel mondo delle lettere, come ha ricordato Giorgio Linguaglossa, rimesta anche la struttura del linguaggio, la versificazione, teorizzando e praticando il polittico e il distico.
    E quali sono risposte che Gino Rago ricava da queste sue esperienze?
    Che il “mondo se ne infischia” delle domande dei poeti!
    Potrebbe sembrare una risposta di montaliana memoria:
    Spenta l’identità
    si può essere vivi
    nella neutralità
    della pigna svuotata dei pinoli… (Quaderno di quattro anni, Mondadori, 2016, pag. 326), ma non è così…
    Gino Rago non tende alla “neutralità” del vuoto…
    Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
    il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.
    “Sono un poeta” e “Questo nome ora è il mio destino”
    E in questo “viaggio” che continua, avanti e indietro, nel presente e nel futuro, ci trasciniamo, sempre più appesantiti:

    Il passato

    Cara Signora Jolanda W.,
    Portiamo in giro il nostro passato
    in una busta di plastica del supermercato.
    Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
    I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
    Lei, da poeta lo sa:
    i morti ai processi dei vivi
    si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
    Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-à-terre
    con la sua donna.
    Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
    si guardano negli occhi.
    Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
    Addolorata conclusione. Non solo “il mondo se ne infischia” dei poeti, delle loro domande e del loro passato, ma ha apparecchiato per loro un ulteriore spettacolo: tutte le parole, come gli stracci, i legni combusti, i cenci, le lamiere e i materiali effimeri che ci possiedono, in quanto nostri oggetti, hanno lo stesso destino, finiscono tra i rifiuti e nell’identico cassonetto.
    Ci sarà qualcuno capace ancora di rovistare fra queste macerie? Montale pensava a qualche “bambino” o a qualche “pazzo”. Ecco, io li vedo, i pazzi e i bambini, che

    “Aprono insieme una bottiglia di Coca-cola”

    mentre

    “Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso”

    della sua immaginazione e della sua gioia creativa.

    Giuseppe Gallo

  5. Fatta eccezione per la straordinaria vitalità dell’autore, la poesia di Gino Rago non ha più nulla del sud Italia. E’ una poesia europea, comunque più vicina alla tradizione letteraria del nostro paese, che nella sua veste istituzionale mal tollera qualsiasi riferimento esterofilo. Chi scrive “all’americana” difficilmente viene preso in alta considerazione. Vale come esempio il confinamento del poeta Alfredo De Palchi, ma temo anche per il poeta NOE Mario M. Gabriele.
    Non vale per Gino Rago, che insieme a Giorgio Linguaglossa si sono assunti il compito di agire con la cesoia, per estirpare alle radici qualsiasi cosa abbia riferimento con la poesia lirica, con l’ermetismo, con Montale, lo sperimentalismo, insomma con tutto ciò che riguarda il passato. Rago e Linguaglossa scrivono poesia del cambio di paradigma. Stanno perciò sulla parta, come gendarmi a difesa del nuovo. Per parte mia non posso che ringraziarli. Sono la magnifica retroguardia dei poeti che verranno.

  6. Ringrazio Luciano Nota per la cura estetica con la quale ha allestito questa pagina di Erato, per la ospitalità che mi concede, per il mio (assai gradito) inserimento nel comitato redazionale di questo prezioso blog letterario.
    *

    Peccato che il mio libro esca proprio al centro del tunnel delle nostre vite sospese, ma ciò non mi impedisce di progettare una qualche presentazione conviviale (come auspicano in tanti/tante a iniziare dallo stesso Giorgio Linguaglossa e da Letizia Leone), a Roma e non soltanto a Roma.

    Volendo tracciare una sorta di scheda tecnica de I platani sul Tevere diventano betulle (Ed. Progetto Cultura, Roma, 2020) segnalerei che il mio recentissimo libro poetico consta di 5 Sezioni, in ciascuna delle quali affronto temi ben individuati, direi imprescindibili al modo ‘nuovo’ o se si vuole al modo “altro”di tentare di far poesia con lo sguardo teso verso nuovi paradigmi estetici e verso nuove basi ontologiche.

    – Nella Sezione 1 mi confronto con il Vuoto, con il Tempo, con lo Spazio, con gli scampoli, con gli specchi, con gli stracci, con la plastica, con le piazze-agorà.

    – Nella Sezione 2 stabilisco una sorta di dialogo a distanza con alcuni dei poeti-fiaccole sul mio nuovo cammino poetico (Tranströmer, Rózewicz, Herbert, Linguaglossa, Pessoa, Kristóf, Mandel’stam, Achmatova, De Palchi, Pecora, A.A.Alfieri, M. Gabriele, Seifert, L. M. Tosi, E. L. Manner, U. De Robertis, Brodskij…).

    – Nella Sezione 3 mi confronto con il tema davvero arduo di Lilith, la prima compagna di Adamo…

    – La Sezione 4 è tutta dedicata, in forma di epistolario, all’incontro folgorante con la poesia di Ewa Lipska.

    – La Sezione 5 merita un’attenzione a parte perché vi si affaccia il ‘metodo mitico’.

    Nella Sezione 5 del mio libro affronto il tema incentrato sul Ciclo di Troia, sulla storia scritta dai vinti e non più dai vincitori. Pronuncio la mia parola sulla sorte delle donne quando sono ridotte a bottini di guerra.
    Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime,dei loro corpi umiliati, spogliati delle loro identità.
    Ilio in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.

    Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di sfilata di tre figure femminili emblematiche:
    Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste in cui i fantasmi del mito «ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati», al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti indicibile realtà del presente.

    Da qui, il «metodo mitico», nel poemetto espresso per “frammenti”.

    Cinque Sezioni, diverse per temi e per lingua, che sono 5 libri poetici diversi ma che confluiscono in uno stesso volume poetico.

    Questo aspetto del mio libro è stato acutamente colto, interpretato ed espresso, come meglio non era possibile fare, da Giorgio Linguaglossa nella intensa nota critico-ermeneutica che appare come retro di copertina del libro.

    Giorgio Linguaglossa scrive: «Nella poesia di Gino Rago è rinvenibile una magistrale sicurezza di andamento processuale, una autentica novità per la poesia italiana.

    Il segreto di questa procedura risiede nello stile gnomico-colloquiale: un mix di parlato e colloquialità nello stile di una missiva indirizzata ad un interlocutore reale o non-reale mixato con dei linguaggi da bugiardino, un mix di didascalie cliniche, di prodotti commerciali, quasi dei referti medici in stile gnomico, un compositum che utilizza un linguaggio giornalistico leggero che confligge con lo stile gnomico e aforistico. Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi…

    Il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro.
    Il libro è diviso in cinque Sezioni, ciascuna delle quali è composta con un movimento e una tonalità diverse dalle altre, ogni sezione è composta da una lessicalità individuale, e tutte insieme rimandano alla parentela relazionale del principio della concordia discordante, della oppositività di tutto con tutto. Nulla a che vedere con gli antiquati principi della ontologia novecentesca che puntava le sue fiches sulla roulette della ambiguità dei linguaggi e sul pluristilismo;

    qui non c’è convergenza di stili ma semmai c’è «divergenza», «difformità» tra varie morfologie di linguaggi disparati… Qui siamo in un nuovo demanio concettuale del fare poesia».

    *
    Gino Rago

  7. Copio e incollo questo commento di Luigina Bigon (dalla mia e-mail)

    *

    Caro Gino,

    ho letto con molto interesse e piacevolezza quanto hai condiviso.
    Credo fermamente nel percorso che tu e Giorgio state portando avanti per una poesia strettamente “europea”, poesia che già risponde attraverso i tuoi testi ricevuti oggi.

    Grazie e te e Giorgio sto intravvedendo ciò che voi avete ben chiaro e difendete con tutte le forze…

    Come De Palchi a suo tempo è stato un rivoluzionario, ora siete voi la punta di diamante che taglia la stagnazione.

    Complimenti vivissimi uniti ad un caro saluto,

    Luigina Bigon

    ps: per problemi con il pc non sono riuscita a postare quanto sopra nei commenti

    *

  8. Desidero ringraziare intensamente per i loro interventi Mauro Pierno, Pino Gallo, Lucio Mayoor Tosi, oltre a Luigina Bigon e a Giorgio Liguaglossa, interventi acuti che svelano allo stesso autore dei versi su questa pagina di Erato, vale a dire a me, aspetti, verità, proprietà sfuggenti allo stesso autore, da qui la ricchezza dell’osmosi autore-lettore, uno scambio vivo di arricchimento reciproco…

    Gino Rago

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