Ho ritrovato, tra le mie carte, questo appunto inedito di Maria Rosaria Madonna degli anni Novanta, destinato ad un articolo sulla rivista “Poiesis” che è stato pubblicato nell’edizione Maria Rosaria Madonna, Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, Roma, 2019 pp. 150 € 12.00
«La poesia è linguaggio dell’insolenza e della fraude. Non credete ai falsi untori del perbenismo. Forse la poesia è più assimilabile al cannibalismo dello Spirito che ad altre attività del corpo mentale. Un ricordo sublimato e civilizzato di quell’ancestrale rito cannibalico. In ultima istanza, la poesia non può essere rapportata alla poesia se non dal punto di vista puramente storico sistematico; nella sua essenza è attività di fagocitazione di mondo, internalizzazione degli oggetti del mondo tramite il sistema segnico-simbolico qual è il linguaggio. Forse, alla base della Musa, v’è una fissazione della libido allo stadio della cloaca, ciò che nell’età adulta si converte in sublimazione, conglomerato degli oggetti internalizzati in spirito linguistico, in fame di mondo, seppure di un mondo ridotto a lacerti fonematici che rammenta il mondo reale come lo specchio da toeletta rammenta lo specchio ustorio.
Dunque, è chiaro, la poesia può sorgere soltanto come risvolto negativo della prassi. La poesia è risvolto negativo della prassi e specchio ustorio. L’ostinazione onanistica al volo poetico (un privilegio o una dannazione?), con il senso di colpa che l’accompagna, rivela l’intima natura requisitoria dell’attività artistica, il legame intermesso e rimosso delle pulsioni subliminali che le ricollega al pene simbolico. Di qui la strafottente diffusione di essa pratica ai giorni nostri, pratica di massa, onanismo di massa. Di qui l’accusa, di matrice zdanoviano-pretesca all’attività poetica quale mansione insulsa e parassitaria ai fini della compagine del «Nuovo Mondo».
Forse, il «Nuovo Mondo» che abbiamo costruito si regge proprio sulla grande menzogna di una estetica di matrice zdanoviano-pretesca».
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A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata coniugata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con quindici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento, Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018 pp. 148 € 12.
Due poesie tratte da Antologia di poesia italiana contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
Alle 18 in punto il tram sferraglia
Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.
L’altro giorno, aprendo un libro della mia libreria, mi sono trovato dinanzi ad un reperto del passato che avevo dimenticato: una lettera d’amore di una donna di cui ero stato innamorato e di cui avevo perfino disperso il nome. Nel rileggerla, sono rimasto fulminato. E l’ho subito richiusa nella bara di un altro libro della mia libreria. Un’altra volta, ho pescato un pezzetto di carta. C’era la calligrafia di mio padre e la sua firma: «Filippo». Ed era così simile alla mia quella calligrafia!, che ne sono rimasto turbato e spaesato. Un’altra volta, con il gomito ho urtato una ceramica che raffigurava una ballerina (che detestavo, regalo di una donna di tanto tempo fa). Ecco, ho pensato, finalmente il mio inconscio ha avuto la meglio sulla mia coscienza che tentava di mettere al riparo quella statuetta dalle sue ire. Un’altra volta, aprendo un libro, mi sono trovato di fronte ad una cartolina da Samarcanda che raffigurava delle statue di poeti russi con una scrittura che diceva: “un giorno anche tu sarai tra di loro”. È stato spaventoso.
Ecco, adesso l’ho imparato, questi frammenti di vita sono importantissimi, sono reperti di un’antica città morta dissotterrati come da uno scavo archeologico che ci rimandano ad un lontano passato. Ecco, questi ritagli, questi frammenti sono transitati, in veste irriconoscibile, in alcuni luoghi delle mie poesie, questi frammenti sono importantissimi per il nostro sguardo di oggi. Il frammento un tempo è stato vita, reca la traccia di tutte le contraddizioni, di tutte le illusioni, di tutte le sconfitte e di tutti gli amori, di tutte le cose che abbiamo amato e odiato. Perché questi frammenti sono così importanti che, al loro apparire, ci turbano? Cosa hanno in sé che ci turba? Ecco, io credo che sono importanti, molto importanti anche per la scrittura di un romanzo o una poesia. Il frammento è stato vita che si è raggelata. C’è in essi l’ombra della morte, perché il passato è morte, è la sede dell’Assoluto. Ma è stato anche vita, la nostra vita. Adesso ho capito, retrospettivamente, quanti di questi frammenti ci siano disseminati nella mia poesia, come nella poesia di ogni altro poeta di valore. Con questi frammenti ho puntellato la mia poesia.
Qualche tempo fa, una rivista milanese mi ha chiesto di scrivere un saggio di critica psicoanalitica sul primo libro di Alfredo de Palchi, La buia danza di scorpione scritto dal poeta ventenne nei penitenziari di Procida e Civitavecchia dal 1947 al 1951 e pubblicata in italiano soltanto nel 1993. Mi sono accinto a questo compito con curiosità e timore ed ho scoperto tra le parole del libro, un modo di vocaboli, di immagini, di totem, di frantumi, relitti del suo inconscio di giovanissimo recluso che lottava disperatamente per sopravvivere, frammenti dell’inconscio e di conflitti irrisolti, che nessuna cura psicoanalitica potrà mai risolvere (per fortuna!), frammenti testamentari del rapporto con la madre del poeta e con il padre (che io non sapevo essere assente). Vasi incomunicanti di frammenti che tra di loro purtuttavia parlano, comunicano, anche se parlano lingue diverse e incomunicabili. Questo è l’inconscio di un poeta che si riversa nel suo libro di poesia (!?) E tutto mi si è fatto chiaro all’improvviso. Devo dire un grazie alla rivista milanese (nella persona di Donatella Bisutti) che mi ha commissionato il lavoro. Ho mandato il saggio a de Palchi il quale, appena letto, ha commentato: “ma tu mi hai messo a nudo! Nessuno ha mai scavato così in profondità nel mio inconscio!”.
Nel libro scritto nel 1939, Instant poétique et instant métaphysique, Bachelard individua nella rêverie e nella poesia il luogo privilegiato in cui l’istante poetico e l’istante metafisico coincidono nell’atto della loro apparizione. Il tempo della poesia come tempo verticale, dell’infinito ri-cominciamento, della comprensione continua ed ogni volta differente dell’immagine poetica. Tale concezione della temporalità abita l’istante poetico, esso è il ritracciamento della traccia che mostra sempre nuovi ed inediti destini alle forme stesse del linguaggio. L’immaginario è questo comporsi e disporsi di forme complesse che generano nuove prospettive. Le architetture dell’immaginario vengono alla presenza nella parola poetica quando viene recepita una nuova esigenza del linguaggio. Il lessico della crisi richiede un nuovo lessico del linguaggio poetico. La crisi del linguaggio esige un nuovo lessico e una nuova grammatica del poetico:
«È il pensiero che conduce l’essere. È per mezzo del pensiero, oscuro o chiaro, per mezzo di ciò che è stato compreso, e per mezzo soprattutto di ciò che è stato voluto, nell’unità e l’innocenza dell’atto, che gli esseri trasmettono la loro eredità».1
Il linguaggio poetico non è un linguaggio referendario, non consta di assiomi o di postulati che possano essere verificati tramite le procedure della veredizione, ma è un meta linguaggio, un linguaggio che prima non esisteva e che è venuto alla luce per forza propria, un linguaggio che non richiede alcuna veredizione.
È l’immagine che produce lo spazio, non il contrario. L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Anzi, di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per la poesia di Maria Rosaria Madonna.
Giorgio Linguaglossa
1. G. Bachelard, L’intuizione dell’istante, Bari, Dedalo Libri, 1973, p. 91
Dopo l’11 settembre 2001, la storia sembra andare verso l’implosione del senso piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimagrimento. La poesia di oggi ha coscienza di questa negatività?, ha coscienza di questo de-moltiplicatore? Oggi forse è possibile soltanto una poesia del negativo come quella di Francesco Paolo Intini, una negatività senza impiego, una negatività da disoccupati delle parole, che permette di essere rappresentata soltanto attraverso la finzione, l’allestimento di un palcoscenico frequentato da avatar, sosia, figure, duplicati, attraverso una secondarietà. E il Primario? Che fine ha fatto il Primario? Non lo sappiamo più. Sappiamo soltanto che al posto del Primario è subentrato il Secondario, al posto dell’impiego è subentrato il disimpiego, siamo entrati nel demanio del post-negativo. Le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i geroglifici, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti del romanzo e della poesia del post-negativo.
La poesia ironica e scettica del post-moderno si muoveva in questa topografia assiale delle rovine del linguaggio e del senso ma non ne aveva coscienza istituzionale; si muoveva, con eleganza e ironia magari ed un quantum di elegia in questa topografia di rovine, si trastullava sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio e della polisemia, esibendo l’abilità del retoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, iperbati, corto circuiti tra suono e senso; mimava un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare, ci si faceva schermo dietro i famosi versi di Montale interpretati con disinvoltura minimalistica: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».
È chiarissimo a chi legga la poesia di Maria Rosaria Madonna, che lei prende le distanze da questa declinazione della poesia italiana degli anni settanta e ottanta, il suo primo e unico libro, Stige (1992), è eloquente in proposito, ribalta il punto di vista scettico del minimalismo riproponendo una poesia dall’alto tasso di intensificazione drammatica, una visione tragica dell’esistenza e dell’arte che collide in modo frontale con il disimpegno esistenziale e politico della poesia del suo tempo
Il senso di non appartenenza si accompagna al senso di colpa. E’ stato così anche per Eugenio Montale: poiché era forte in Lui il senso di non appartenenza, dovette difendersi, a torto o a ragione, dalle accuse mosse da chi prendeva posizione, a seconda dei vari ideologismi. In quel suo unico libro, Maria Rosaria Madonna è andata oltre Montale: si è guardata il senso di colpa, al punto da gioirne. Ma il prezzo, si sa, è la solitudine.
Madonna aveva forte il senso della sua dis-appartenenza alle cricche e ai cenacoli dei letterati di Roma e di Milano, per questo motivo si è creata un proprio linguaggio o «neolingua» come lo defini Amelia Rosselli nella prefazione a Stige (1992) e una visione tragica… ma, del resto la solitudine di Madonna è quella di Helle Busacca, di Giorgia Stecher, di Mario Lunetta… cioè dei poeti più autentici e innovatori del tardo novecento.
La dis-appartenenza è questione letteraria. Per non-appartenenza intendo la questione identitaria, in questo caso, di genere; percepita più dal femminile in quanto trasgressiva di ruoli e compiti stabiliti dalle convenzioni. Da qui il senso di colpa ( auto condanna) , che Madonna nelle poesie in neo-lingua, trasforma in agonico e amoroso trastullo. Ascesi terrena, parecchio dissacrante. Il tuo fiuto, caro Giorgio, nell’individuare i poeti che contano, non ha eguali.
In ogni caso, per non relegare la poeta nell’ambito specifico del femminile, le due poesie qui prese in considerazione (non in neo-lingua), insieme alle altre inedite, giocano d’anticipo… Ho letto il libro, le ho trovate d’orientamento per la poesia in divenire.
caro Lucio,
io direi che la dis-appartenenza, la non complicità con le conventicole letterarie, lo spaesamento sono elementi fondanti l’appartenenza alla specie homo sapiens e, in particolare ciò vale per un poeta che non sia disponibile a seguire le vulgate della maggioranza e delle istituzioni adibite al conformismo culturale. Poi, lei aveva anche un pessimo carattere, non tollerava la mediocrità e la medietà. Già all’inizio degli anni novanta, quando pubblica un esile libretto, Stige (1992), il suo dettato poetico si presentava in modo del tutto singolare e irriconoscibile, entrava in rotta di collisione con i linguaggi letterari e poetici della sua epoca…
“l”oscurita’ chiede udienza alla notte daltonica”
questo verso e’ stupendo e le due poetesse che mi vengono in memte sono la Dickinson e la Cvetaeva..
che altro dire?