Quattro poesie di Donatella Costantina Giancaspero da “Ma da un presagio d’ali” (2015), nota di Giorgio Linguaglossa

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È domani

Eppure è già domani
a quest’ora fonda
della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.

È domani,
e non vale la veglia
ostinata, non servono
i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca
del sonno, dove, ignoti,
già tanti destini si compiono,
questo è l’oggi.

Tra poco la notte sbiadirà
in un brusio di appannati risvegli
e frulli, alle finestre, cinguettii,
di luce in luce più canori,
fino al sole pieno,
puntato sulla città.
E sarà azzurro, azzurro estremo,
impietoso, nel suo occhio
fermo, astratto dagli occhi,
dissuasi, volti altrove;

perché altrove li volge
questo Tempo acuminato:
dov’è vita ferita che dispera
la vita, nei quotidiani martiri,
nelle morti suicide per dignità
negata, nelle stragi,
ai tribolati confini,
dove affonda il cuore

e la notte
di un altro domani.

***

Ma non vorresti
restare ancora
a questo limite del tempo,
dove i giorni s’aggrumano
in violente stagioni
e si disfano
resi a se stessi,
riassorbiti
nella propria dolorosa
sostanza

Sorge
al tuo sguardo,
con rassegnato nitore,
il punto inerte
della vita.
S’innalza
il muro cavo
dove ristagna
l’animo.
È un sentimento grave,
di stasi,
pesa intorno
– appena lo contrasta
quel turbinio
estenuante,
quel viavai senza scampo
che vedi
di volti in fuga –

***

Abbiamo voluto
dal principio
un arredo minimo,
appena sufficiente
per abitare, e le pareti
vuote – nulla
a violarne
con altra identità
il solitario rigore –

Scabra nudità
esposta
alla luce sontuosa
del mattino,
spalancata
all’occhio,
che la ripensa
materia purificata,
ne scava
ardui contenuti

un senso duro della vita.

***

Come per un ripensamento
come se
– a metà strada,
a una svolta,
a un tratto –
ti fermasse un ricordo,
ti volti,
riprendi i tuoi passi
dal viale al portone…

e ti solleva
un vortice di scale
fin su,
fino a me, alla gioia
di avermi
– varcata la soglia –
negli occhi,
in fondo al respiro…

L’amore
ci vuole uniti,
sempre:
al più breve
distacco, trasale,
s’infuria,
ordisce tranelli.
E siamo colti
alla sprovvista,
presi alle spalle,
di petto,
gettati

viso nel viso.

Donatella Costantina Giancaspero

 

ma-da-un-presagio-dali-309939Un libro di esordio che ci rivela una poesia del fare «vuoto». Una poesia esistenziale che si nutre dei fantasmi della nostra inautenticità come una piovra della propria vittima, fatta di «vita ferita», «appuntamentiۛ», «arredo minimo», di «ripensamenti», di trasalimenti, di dichiarazioni di afasia, di smemoratezze, dove gli umani sono «colti alla sprovvista», «presi alle spalle» e «gettati / viso nel viso», l’uno dirimpetto all’altro, senza destino, senza destinazione, senza telos, rigidi, immobilizzati nella propria tellurica cella dell’io; instabili, inquieti, prigionieri della incomunicabilità, dissociati, alienati, estraniati. In questo quadro di esitazione esistenziale ed esperienziale, sovente irrompe la positività della «luce sontuosa del mattino» con il suo rigoglio ad infrangere il «rigore» degli umani impossibilitati a vivere esperienze autentiche, vitali, significative. Poesia senza infingimenti o dorature liriche, fitta di effrazioni della memoria e di lapsus dell’oblio, due poli indisgiungibili e inesplicabili che designano i limiti della nostra condizione esistenziale ed esperienziale, che oscilla tra «presagio» e oblio, incertezza e memoria, tra intermittenze del cuore e discontinuità delle emozioni. Una poesia frastagliata, rastremata, complessa, che utilizza il metro breve e brevissimo alla maniera di Bonnefoy, scandita dai cinetismi interni di una metrica sincopata e della conseguente rapidità di lettura. In un certo senso, libro sintomatico del nostro tempo, libro esistenzialistico e dell’oblio della memoria che si converte in temporalità estraniata, intertemporalità, non-luogo della memoria. Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»?. Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Meister Eckhart ci ha parlato del «vuoto» quale esperienza interiore essenziale per accedere alla dimensione spirituale, ovvero, fare «vuoto» come distacco dai propri contenuti personali per poter accedere ad una dimensione più vera e profonda. È da qui che ha inizio la riflessione poetica di Donatella Costantina Giancaspero, dal punto di congiunzione tra temporalità e memoria. Quel punto opaco, insondabile dove hanno avuto luogo gli eventi significativi, paradossalmente opachi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero.

«Come per un ripensamento / come se / – a metà strada, / a una svolta, / a un tratto – / ti fermasse un ricordo, / ti volti, / riprendi i tuoi passi / dal viale al portone… // e ti solleva / un vortice di scale / fin su, / fino a me, alla gioia / di avermi / – varcata la soglia – / negli occhi, in fondo al respiro… // L’amore / ci vuole uniti, / sempre: / al più breve / distacco, trasale, / s’infuria, / ordisce tranelli. / E siamo colti / alla sprovvista, / presi alle spalle, / di petto, gettati // viso nel viso.»

Paul Valéry ha scritto:

«L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, eccetera… L’Arte si pone così a lato dell’Industria… ».

Non c’è dubbio che oggi chi voglia fare della “poesia” debba essere anche un abilissimo imprenditore di se stesso, perché la poesia è diventata come ogni altra “Arte” un fenomeno analogo a quello dell’«industria», un fenomeno da baraccone dove ciò che conta è urlare e il saper acclamare ai venti la propria ingombrante presenza. La poesia di Donatella Costantina Giancaspero sceglie il fondale del teatro, la sua Musa ama l’inappariscenza, la riservatezza e il silenzio, non quello reclamato a gran voce dai pubblicitari della poesia ma quello vero, che sta dentro le cose, che abita Mnemosyne. La sua poesia è affine al metodo della pittura Zen, inizia da un punto e, come per caso o disattenzione, prosegue all’improvviso con una linea continua mediante pochi tratti che delineano un teatro, un retro scena, ciò che si nasconde e sta dietro gli eventi, l’inappariscente. Ecco perché la sua poesia è così ricca di eventi inappariscenti, di «ripensamenti» e di retro azioni, di movimenti inconsulti come il «voltarsi indietro», di sussulti, di andirivieni etc., così fragile e indifesa questa poesia può crollare, come un castello di carte, ad ogni alto di vento. Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di «traccia» assume in Donatella Costantina Giancaspero una funzione antisimbolistica, nel senso che sostituisce un ordine simbolico con un altro ordine per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso una catena di sostituzioni. Scrive Derrida: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato». La poesia della Giancaspero è una vera e propria indagine attorno al corpo del reato: la «traccia», all’interno dello «spazio vuoto»:

Può darsi
che il vero sia
nello spazio vuoto
tra segno e segno,
nel tempo muto
che attrae
e smorza in sé
tutte le vibrazioni
tra suono e suono

Ed è infatti proprio questo l’esito principale consentito dalla nozione di «traccia»: quello di far intendere l’ordine del senso (della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica) come un ordine «supplementare», radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. La Giancaspero mette a fuoco l’inappariscente, l’irrappresentabile, la «traccia» nascosta, ciò che sta al posto della traccia «originaria», che la sostituisce con un altro ordine simbolico che è la traccia «visibile» dell’inconscio. È una poesia in sotto tono, che elegge la «durata» di una parola, il tono simbolismo significante di una parola come sospesa sull’abisso del «vuoto»: la fine del verso sta qui a indicare il «vuoto» all’esterno della composizione, mentre il «vuoto» all’interno della parola viene mostrato come «durata» del suono. Un po’ come avviene nella musica di Giacinto Scelsi (del quale ricordiamo l’impareggiabile «Quattro pezzi su una nota sola – 1959»). L’allungamento stereometrico della durata di una parola fa sì che il significante si assottigli e si allunghi nel tempo proprio come un elastico sottoposto a una forza divergente. Inoltre, è una poesia «in diminuendo»; alla stregua della musica contemporanea, di cui la poetessa romana è una profonda conoscitrice, la sua poesia inizia da un «piano», per poi planare, in diminuendo, verso una zona d’ombra, per poi, subito dopo, risollevarsi su un altro piano parallelo e/o traslocato in un altro «luogo». Così, la composizione tipo della Giancaspero vive di questi spostamenti modulati , interni, verticali e laterali, veri e propri traslochi della modulazione. Tipica procedura della più aggiornata poesia europea femminile (Ekaterina Josifova, Katarina Frostenson, Daniela Crasnaru). In questo tipo di poesia è decisivo il concetto di «luogo», preferibilmente si tratta di «interni», ma con aperture improvvise su degli «esterni», v’è però da dire che esso «luogo» non viene mai nominato in modo diretto ma soltanto «direzionato», alluso dalle parole che si frastagliano in timbri e durate… Le parole che si susseguono cambiano di continuo il senso delle proposizioni, direzionandolo, però, sempre all’interno delle singole brevi o brevissime proposizioni, utilizzando di preferenza il moto verticale.

Come per un ripensamento,
come se
– a metà strada,
a una svolta,
a un tratto -,
ti fermasse un ricordo,
ti volti,
riprendi i tuoi passi
dal viale al portone…
E ti solleva
un vortice di scale
fin su,
fino a me, alla gioia
di avermi
– varcata la soglia –
negli occhi,
in fondo al respiro…

Questa «logica del supplemento» («tra segno e segno» e «tra suono e suono»), è una indagine, diciamo così, supplementare che la poesia istituisce attorno al «supplemento», il sostituto del nulla, del vuoto. Ciò è ovviamente impensabile all’interno della logica, scriverà Derrida in Della grammatologia: il «supplemento» supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa “appare”». «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».

Giorgio Linguaglossa

 

4 commenti
  1. Una poesia di rivolgimento, del giorno in notte, dall’essere al non essere, ove con fatica si sperimenta la bontà della luce, così ferita quotidianamente dal male, che diventa cronico ed apre uno scoscendimento che riporta al buio del non essere minuto per minuto. Complimenti, Donatella!

  2. A proposito di questa quartina esilarante di Costantina Donatella Giancaspero

    “[…]Può darsi
    che il vero sia
    nello spazio vuoto
    tra segno e segno[…]”

    incastonata in una scelta di testi poetici giancasperiani che spostano la nostra poesia verso nuove basi ontologiche e verso un nuovo paradigma estetico, aspetti ben colti e analizzati da Giorgio Linguaglossa nella sua nota critica, le mie meditazioni di seguito proposte

    Gino Rago
    [28 maggio 2018 ]

    Un nuovo “linguaggio critico” per la Nuova Poesia Italiana del frammento, della poesia degli stracci e mitopoietica, della poesia neoconcreta e ultronea

    Irrompendo nella storia dell’arte i Capogrossi, gli Hartung, i Mathieu, gli Scanavino (arte segnica e gestuale, nella pittura contemporanea) e poi i Burri (pittura materica), i Pollock, i de Kooning, i Francis (pittura d’azione), senza dimenticare i Fontana e gli Scialoia (pittura spaziale) e i Dorazio (pittura neoconcreta e arte cinetica), se niente hanno fatto, hanno costretto la cosiddetta ‘critica d’arte’ a rivoluzionare quanto meno il lessico nel nuovo gergo critico, e non tutti i critici d’arte furono trovati pronti…
    Perché si comprese ob torto collo che non si potevano applicare alla pittura contemporanea gli schemi, i paradigmi, le misure che si usavano per quella ‘antica’ usando espressioni, anche abusate, come “bella materia”, “ricco impasto”, “variopinta tavolozza…”, “agili pennellate”, “delicati arabeschi” di fronte a cenci raggrumati, lamiere contorte, tele tagliate.
    Eppure a lungo, errando clamorosamente, alcuni interpreti d’arte non furono inclini ad abbandonare quel “linguaggio critico” che se si addiceva ancora all’arte di ieri, inadatto appariva a quella contemporanea…
    Temo che oggi la “critica letteraria” abbia lo stesso problema di fronte alla «nuova poesia» che viaggia, con un suo moto interno inarrestabile, verso un nuovo baricentro, sotto la sigla di poesia della NOE, con tutti i nomi già precedentemente elencati cui va aggiunto quello di Giuseppe Talìa.
    È come se il critico d’arte si attardasse a parlare ancora di “accordi di colore” di fronte a un’opera di Klein tutta azzurra o dinnanzi a “una superficie irsuta di chiodi o seminata di fori e di tagli inflitti alla tela” (Dorfles) d’un Lucio Fontana….
    Estemporaneamente ho steso queste mie meditazioni stimolato dalle riflessioni di Giorgio Linguaglossa sulla Vergine degli stracci di Michelangelo Pistoletto (1967) a proposito dei versi miei di Collage (Poesia fatta con gli scampoli), [ora ribattezzata come La Musa degli Stracci] proposti alla lettura dei colti e fedeli frequentatori de L’Ombra delle Parole in una ricca pagina di qualche giorno addietro.

    Se da un lato mi rincuora la con-divisione dichiarata da Giorgio Linguaglossa nel suo commento di allora, dall’altro (ahinoi) tale condivisione conferma i miei timori su una critica letteraria non in grado d’attrezzarsi del giusto ed efficace armamentario interpretativo fondato su un nuovo, appropriato “linguaggio critico”.
    Lo segnalarono assai criticamente ( anche in forma risentita) alcuni maestri di Estetica negli anni ’60 del Novecento, fra cui Gillo Dorfles, riferendosi alla incapacità di certa critica d’arte di cogliere i segni del nuovo gusto estetico della plastica contemporanea.
    E proprio Dorfles, in un suo memorabile pezzo, poi ospitato in “Ultime tendenze dell’arte oggi”, così si espresse:
    «Queste opere come il Cancello di Mirko alle Fosse Ardeatine, certe grandi plastiche di Franco Garelli a Torino, di Berto Lardera a Rho, di Barbara Hepworth dinnanzi a Staten House di Londra, gli immensi graffiti e rilievi di Costantino Nivola a Chicago e Boston, la parete metallica intagliata da Lassaw in una banca di Skidmore a New York, ormai ben note, sono le nostre “Stanze del Vaticano”, le nostre “statue-colonne” di Chartres…».

    Gino Rago

  3. A Gino Rago! Ma che dici? Non rispondere dicendo che questa domande le fanno chi non capisce nessuna mazza, perché queste risposte le danno quelli che non hanno nulla da dire, mi raccomando…!

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