
Uomini rossi di Aligi Sassu
L’avvicinamento al secondo futurismo e la precoce ammissione alla Biennale costituiscono per Aligi Sassu, appena sedicenne, lo stimolo a dipingere il ciclo degli “Uomini rossi” agli inizi del Trenta. La novità cromatica decide che al pianeta delle tinte scure tremendamente volumetriche, tipiche del Novecento italiano tanto in voga, si faccia spazio una tecnica dove il riempimento venga spodestato dal primato unigenito e gemellare di luce più colore. “I Dioscuri”, in polemica, rappresentano corpi non protratti oltre la loro leggerezza, quasi sogni terreni di attori prestatisi alla conversazione in un mondo non sentito come culla. Molti soggetti di Sassu, riproducenti inquietudini consimili, dilagano un forte cenno imperscrutabile, primitivo e ancestrale, espresso nell’iconografia che, panorama razionale rivoluziona da dentro, rispetto ai plagi classicisti di regime.

Aligi Sassu, Deposizione, 1943
Nella “Deposizione”, la sacra rappresentazione rovescia la tradizione perché Sassu pone una strana comparsa infantile, un viso fresco, parificato alla medesima latitudine del volto chino di Cristo. Durante lo schiodo della salma i bambini mancano sempre, quasi non si voglia farli assistere al ludibrio di quel castigo per schiavi ribelli e lo spettacolo, se è lecito definirlo, non appartiene ai giochi di cortile. Smentito pregiudizio, lo sguardo giovane, sommato all’asfissia facciale di Cristo è il fulcro della tela, pupilla di un’infanzia a cui un morto rivela la sua inalienabile identità. Il fanciullo, non anagrafico ma evangelico, già in sé puro per la promessa a sdoganare il regno celeste senza nullaosta, sa che, ogni calvario, patito dall’ottica delle autobiografie, indìce la schedatura di patiboli reconditi. Quando la croce, qui latitante, arrende il legno all’esequia, il bimbo di Sassu vede in Gesù spento il suo anonimo “maggiore”, un pesce rifluito fuor d’acqua che arresta la presunzione, stacca l’orgoglio presente e si ferisce col suo serico sonno, poi convince la cronaca a innervarsi eco autolesiva negli occhietti di chi lo rispecchia, estraneo all’equipe, in terra di nessuno. Il bambino lascia che il volto di Cristo smagrisca le certezze, ribalti la persuasione del riparo nei propri sgambetti; puerile partecipa a quell’anomalia ittica sorretta da becchini abitudinari ma è conscio del destino, svelato nelle spalle flosce dell’ospite trafitto che, in fasce, è sfuggito all’infanticidio per slittare, da grande, scarto dentro il sudario. “Il vento soffia dove vuole: uno lo sente ma non può dire da dove viene né dove va. Lo stesso accade con chiunque è nato dallo Spirito” confida Giovanni, capitolo terzo, con licenza atea riguardo a una regione inesplorabile. Quest’indole di effimera notifica, mentre congiunge le chiavi del lutto esilio volontario, aleggia nelle sale di quei Caffè francesi, intristiti da sagome spettrali oppure nei cavalli, metafore equine di una briosità ctonia infatuata da effetti drammatici, su influenze di Magnelli e Campigli conosciuti a Parigi presso De Pisis. Alla fine degli Anni Trenta Sassu frequenta gli artisti radunatisi attorno a “Vita Giovanile”, poi “Corrente” fondata a Milano dal diciottenne Ernesto Treccani. La rivista di tendenze neo-romantiche registra intellettuali del calibro di Banfi, Formaggio, Anceschi; si avvale dell’intermediazione di Paci e Cantoni per confrontarsi sulle posizioni fenomenologiche e esistenziali di Simmel, Heidegger e Kierkegaard. Rilievo viene assicurato alle traduzioni rivedute di Eliot, Garcia Lorca e Benn sebbene in principio si privilegino le istanze della lirica ermetica per dopo rivolgere l’attenzione a sperimentazioni realiste. Recensioni su Musorgskij, Hindemith e Bartók riempiono intanto le pagine di critica musicale. Talenti da Birolli a Guttuso con Cassinari, Morlotti e Vedova seguiti da Manzù e Broggini attirano Migneco, Gauli, Mucchi nonché Tomea e Cantatore che adattano ascendenze espressioniste per intraprendere mirati percorsi artistici. Fiduciosi delle radici in Gauguin, Matisse e Picasso, i fondatori di “Corrente”, già chiari nel titolo, portano il sangue a livello mercurio. Il “panta rei” rubato al fermento esotico balla nelle pupille dello spettatore trascorso un ottantennio e mancia, nonostante un diluvio frigga in bocca ai microfonisti che sfottono i gorilla sulle coreografie di San Remo. Qual è la pietra dello scandalo? Il vagito neonatale rivendica le nobili origini dall’australopiteco, forse la modaiola ipocrisia intellettualoide è mettere alla berlina Kerouac con il Dalai Lama o crocifiggere Schopenhauer. Significa stonare Hesse e il Leopardi ghiotto di gelati e dolci napoletani che, in biblioteca, custodiva la saggezza sanscrita per sorbirsi scettico i suoi sovrumani silenzi. Vuol dire pensionare l’Oriente di Parise e Calvino, appiccare roghi dolosi all’ascesi di Osho e alle chitarre dei Beatles. Il successo commerciale vilipende una larga fetta d’insaziabilità influenzata dall’approccio empirico verso “l’invisibile agli occhi”. Lo strimpello pecoreccio ha gabbato la ragione con i bagni di folla, o, più plausibile, è incapace di scovarla nell’ignavo orbitante della platea.
Michele Rossitti

Aligi Sassu, pittore e scultore, Milano, 17 luglio 1912 – Pollença, Spagna, 2000
A parte il “pianeta delle tinte scure, tremendamente volumetriche” gettato addosso, credo, all’arte di sempre che, essendo essa espressione di avventure spirituali attraverso forme dipanantisi nello spazio e, pertanto, non possono essere altro che volumetriche e cromaticamente svarianti sia nel buio sia nella luce, questo è un saggio niente affatto descrittivo, come tanti sono, ma lanciato alla caccia delle operazioni che compie la poesia nella pittura di Luigi Sassu, poesia mossa dall’attrezzeria tecnematica dell’artista. Bene. Complimenti. Magari tutti facessimo così.
Domenico Alvino