[…] Al di là tuttavia di una sorta di passione neoterica che spinge ad approdi egei, insoliti anche per la loro distanza cronologica, tutta la poesia di Gabriella Cinti mostra i tratti di un lirismo iscritto a pieno titolo nella tradizione. Ci sono, per esempio, gli incipit dichiarativi, l’uso reiterato dell’interrogazione o del tu colloquiale proiettato verso l’assenza o, in altri casi, verso l’evocazione (si legga per esempio: Alla dea dei serpenti di Creta). Il verso stesso, dal micro-costrutto iniziale della Suite, tende sempre più a sciogliersi in forme fluide ma al tempo stesso strutturalmente più solide (verrebbe da dire leopardiane) quasi a definirne i contorni in una presa di coscienza auto-riflessiva; insomma, nella direzione di un orientamento meta-linguistico, fondante e contemporaneo della poesia. È un verso che, soprattutto, dosa più sapientemente le apposizioni in funzione di epiteto, con il risultato di attenuarne l’effetto formulare, di renderlo più velato, meno ripetitivo. Anzi, proprio questa chiave di una formularità semioracolare avrebbe forse potuto determinare una svolta esplicitamente epica di questa poesia, direzione per ora messa tra parentesi, anche se non del tutto esclusa (specie negli esiti più recenti in cui l’aggettivazione composita diventa più frequente, per esempio in versi come “l’eco brunolucente del mio doppio”, in Ritratto astrale), in base a una prospettiva abbracciata in nome di una rilettura degli stessi lirici greci in rapporto a un’analitica psicologica del sentimento umano. Tutto sommato perché ciò appartiene a una posizione antropologica che la Cinti ha sempre in mente: quella di un rapporto di mediazione della parola per caricarla di vissuto concreto, quasi visivo nella sua densità aurale (“elitra dispiegata da rossa laringe”, in Sibillica-mente). E questo persino nell’evocazione del divino, presente come orizzonte di ricerca, ma come appello anzitutto emozionale, facoltà umana di relazionarsi – anche in chiave di reciprocità, di manifestazione di affetti –, più che trascendenza verso l’assoluto; ed è per questo, per esempio, che Afrodite è “la dea che è un sentimento” (nella poesia Bella di luce). Per entrare tuttavia nel merito della raccolta, l’accesso forse più immediato è seguirne Orfeo. È il filo conduttore: non tuttavia semplicemente così come appare iscritto nelle tracce del racconto come premessa programmaticamente dichiarata. Nei termini di quale orfismo si pone allora la prospettiva? Impegnata com’è la Cinti dietro le quinte della filologia, è evidente l’insufficienza di una definizione estetica (che del resto avrebbe ancora meno senso ricondurre a un filone letterario, a una scelta di genere). È piuttosto da tenere presente il ganglio dialettico del mito, che è anche la possibilità di coglierne la verità evolutiva, di portarlo a esprimere un impensato. È la caratteristica propria del mito di prestarsi a ogni sorta di reinterpretazione posteriore, facendo questo, del resto, parte della natura ambigua del suo linguaggio; in quanto esso stesso, mito, prius linguistico e ontologico, voce che si discioglie in canto, destinata a nascondere ciò che al tempo stesso rivela. Così come accade, “Fuori dal mito”, a Euridice che si consegna interamente a Orfeo, in una sorta di sacrificio totale, nella consapevolezza che “Solo l’amore rinuncia a vita, corpo e memoria/ per essere solo Parola”. Si è qui all’incipit stesso della raccolta, nel cuore della poesia Euridice a Orfeo che ne riassume l’intenzione di fondo di piena permutabilità e trasfigurazione del reale: anche di quello del mito, che in questo caso finisce – così si potrebbe pensare – per identificare Eros con Kama, nel racconto in cui quest’ultimo è reso invisibile dal lampo dello sguardo di Shiva. L’ombra della divinità indiana, nella sua identificazione (a cui peraltro la Cinti si è dedicata nei suoi studi) con Dioniso, porta l’orfismo a lidi congruenti con esiti, appunto, estatici, frenetici e dionisiaci, aprendo la stessa lingua poetica, specie nei testi finali, a un melos delle contrapposizioni e talora addirittura del frammento, in una tensione più vicina semmai al senso del tragico. Ed è notevole che in questo il tessuto verbale finisca per assorbire inediti – intendo per l’autrice – recuperi mnestici di una poetica che si potrebbe definire di stampo surrealista: “Solitudine a squame inargenta la notte/ il respiro frastagliato gremisce l’azzurro” (La brevità dell’abbraccio).
Dalla prefazione di Giovanni Schiavo Campo
EURIDICE A ORFEO
Sarà stato il mio non essere e per così poco,
sono balzata agile nella luce
solo per farmi parola in te
per soffiarti le lettere, il canto vero, di carne
più eterno dei tuoi incanti di prima.
Mi devi la natura di poeta,
il salto dal mito nel corpo di poesia.
Così per paradosso di afanìa
sono diventata per visione che cancella
lucerna di suoni negli occhi tuoi e del mondo.
Sono stata lo specchio del tuo perderti
non di perdere me
che dovevo insegnarti a morire
per divenire canto umano più alto di quello
con cui hai stregato pietre e natura.
Fuori dal mito.
Sono l’ombra che ti ha generato la voce,
mi hai dissolto per inverare la poesia
e vedermi ti ha accecato gli occhi divini
e le tue nuove pupille rinunciano
alla mia figurina, per prendere il mondo
nell’occhio parlante della poesia.
Eppure io sono la tua Causa,
hai perso il mio nome e il mio polso
ma mi troverai in tutti i nomi e in ogni mano,
nel cristallo della mia voce trasparente
ti screzierò il mondo in un prisma.
Ti guido nel canto
Amore nudo e potente, persa come soggetto
lampeggiante come dea e Tua Musa.
Sei sceso in Te, oltre Ade, oltre i facili prodigi
donati a te dagli dèi,
e per me ti aggiri nel cammino
del creare, terra di conquista dove
solo la mia ombra ti fa essere.
E la mia giustizia ha fatto del mio riflesso
la tua immagine e precipitando la distanza
mi sono fusa in te perché Poesia
nascesse dal mio sacrificio.
Ti ho permesso di perdermi e di perderti
perché poesia geminasse nel mondo
da te e oltre te, negli oracoli
di sogno della tua testa spiccata.
Solo l’Amore rinuncia a vita, corpo, e memoria
per essere solo Parola,
nomi di fuoco per accendere la notte del mondo.
Non essendoci più e forse mai stata,
sono vissuta giusto il tempo di morire
e di donarti la vita oltre la mia e la tua morte.
Possa il fruscio delle vesti mai avute,
dell’abito d’ombra che Moira mi ha tessuto,
essere la vera lira del tuo canto
e tornare agli dei per la strada dell’Uomo.
E sapere che mie sono le tue ali.
DIONISO NEL VENTO
E se fosse che hai scelto dita di vento
per scompigliare la mia frangia,
per facilitarmi l’incedere
obliquo da ménade,
per insegnarmi, nell’oscillare delle cose,
il pensiero del doppio,
la rotta di immersione
nella luce specchiata
senza tempo,
dove l’unità d’immagine si frange
in coriandoli scheggiati di conoscenza?
E se fosse che ho ritrovato
il coraggio del salto,
del tuo piede alto nel vuoto,
dell’altalena misterica
su cui per grazia mi installi,
chi potrà arrestare
la danza serpentea
che mi rende edera vorticosa,
anima vegetale ed umana,
verso il cuore incendiario
nel Labirinto dell’essere?
FENICE ELLENICA
L’unica mia virtù
è stata sperare che esistessi.
Ed ora che hai attraversato cieli
e mondi transuranici
e le tue ali sono mani
che mi sollevano oltre la terra,
la notte si infiora di comete in pioggia
danzanti al tuo comando.
Il buio profuma nei tuoi occhi
e per la prima volta
non ho paura di cadere.
Portami nel volo dei voli,
quello che finora solo il logos
mi ha dato e sarò per te
fenice ellenica sorridente nel fuoco.
ESPLOSA EPIFANIA
Mi basta un tracciato di lampi,
intendimento celeste di segni
e punti di luce nella deriva d’ombra
per prestare linfa a nuova insorgenza,
urto d’amore che devia le strisce
di nulla verso il divenire.
Mi basta rinsaldare garanzie di respiro,
mobile alterità illuminata di pienezza,
nella traversata di sangue
che è il nostro percorso.
Colmate le lacune nell’insorgenza
di miracolosa interezza,
spalancatasi nei tuoi occhi a me invisibili
solo ora il nodo sciolto due volte
mi serrerà in te per sola corona d’anima.
La mia pelle rinnova l’arcano contatto
di Cielo sopra il Corpo del mondo
e sguscia la luce umida
dal calco di nuova vita
generata nelle cavità opache del vuoto.
Divina Persuasione mi piove dentro
fresca di Oceano primordiale,
rapide acque per navigare il desiderio
nella fluida Differenza dell’Altrove.
Dalla minuscola torretta dell’oggi,
da mandorle di feritoie,
quando pure più nulla ci si può attendere,
Tu mi compari,
soppressa l’inerzia del prevedibile
nello scarto che conduce
per scosse d’oro dentro il buio,
alla più esplosa delle tue Epifanie.
FELCI D’ANIMA
Tra vene di rami intrecciate
al cuore di Ghea, tamburo pulsante
fino alle più remote mie radici,
approdo a una improvvisa radura
di luce dove l’alone vibrante
delle cose rischiara i sensi
dell’essere nel muschio ombra.
Nella pienezza verde che mi screzia il respiro
nel cerchio alto fuori di ogni accadere,
siglo con mia nuova linfa silvestre
il prodigio delle felci d’anima
affioranti in me,
Grazia raggiata di bosco.
BERE L’INFINITO
Vieni alla festa nel fiore dell’Istante
fratello dell’immutabile,
dove ardente disordine
canta la vita tra le parole scartate
e le figlie della luna
mi destano dal sonno fossile
per apprendere la sapienza del gabbiano
nelle quinte di scena del tramonto
tra drappi inzuppati di colore
che gonfiano in arco viola l’orizzonte.
Io ti raggiungo declinando l’Alfabeto della luce
fino alle ultime lettere e scendo
con te nell’occhio del sogno,
tra giunchi di silenzio in mimesi di Vuoto.
Ho preso lunghi sorsi di soma
per spostarmi nella luce
e giungere nella mandorla di tua psyché
per bere l’Infinito in calici d’aria.
Insieme.
IL SILENZIO DI ORFEO
Sei orfano di voce, Orfeo
smarrito il tuo centro di luce,
hai invaso in diaspora
lo spazio della poesia.
Da millenni ti insegue lo scarto obliquo
e con te tutti i fantasmi in fuga,
perso l’eterno d’amore
atterrato nel prisma faticoso del tempo.
Il tuo silenzio, Orfeo
nitido dentro la maschera del chiasso
dove rotoli ancora.
Confusa hai ora come allora
l’Occasione dell’Uno,
il sole dell’inizio
e sopravvivi nelle sostituzioni,
artifici d’essere.
Ti era rimasto solo il dono di Parola
e ti è caduto di mano
nel gorgo oscuro senza più Lei,
come hai perso il filo che ti porgevo.
Hai scelto di morirti ancora
nello scandalo del tuo silenzio
che chiama le labbra della giustizia
a riparare il tuo oblio.
Ero tornata per salvarti
e non hai visto.
Quanti strappi di mano
e sferzate di destino ancora
perché cieco e muto ormai
torni a riprenderti il canto
che più non ti appartiene ?
Ti aspetto Orfeo,
alla fine della Parola,
all’inizio della vita negata,
nella visione Parlante
in fondo al mio specchio.
Sia sillaba d’azzurro la tua rinascita.
Gabriella Cinti
Gabriella Cinti, nata a Jesi (An), da padre scrittore e grecista e madre storica e letterata, si è laureata in Lettere moderne presso l’Università di Studi di Genova, con indirizzo filosofico-linguistico e ha sempre affiancato l’insegnamento alla critica letteraria. Da diversi anni si occupa di poesia, di filosofia del linguaggio, di antropologia, di archeologia delle lingue europee, di etimologia e in particolare di poesia greca antica di cui è voce interpretante all’interno di varie manifestazioni musicali o teatrali. Nel 2014 ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica presso l’Università di Roma 2 Tor Vergata; il suo progetto di ricerca, è consistito nell’esame critico degli Autografi di Emilio Villa, cosiddetti “Labirinti”, affidati a lei dal prof. Aldo Tagliaferri. Il lavoro si è avvalso di una vasta contestualizzazione archeologica ed archeolinguistica dell’archetipo del labirinto. Titolo della tesi (1110 cartelle, in quattro volumi): Il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa. All’origine del divenire. Di prossima uscita il saggio Dioniso, dio del labirinto, estratto dalla tesi stessa. Nel 2009, il regista Gianni Minelli, ha realizzato per lei, il film-corto “Mystis”, ambientato in un’Otranto misterica, di cui è sceneggiatrice e interprete, che è risultato primo premio al concorso “Festa internazionale del cinema di Roma”, 2010, nella sezione Documentario-Video-arte. Fra le sue opere pubblicate ricordiamo la raccolta di poesie Suite per la parola, Péquod Ancona 2008, (vincitrice del Premio Nabokov per la poesia 2008, terzo premio al concorso letterario “Albero Andronico”, Roma 2009 e menzione al Premio “L. Montano”); il saggio Il canto di Saffo-Musicalità e pensiero mitico nei lirici greci, Moretti e Vitali, Bergamo 2010 (con prefazione del grecista e traduttore Angelo Tonelli, Premio speciale Città di Cattolica 2012, e secondo premio al concorso letterario Cinque Terre-Golfo dei Poeti 2013 per la saggistica; recensito nell’aprile 2010 da Franco Manzoni, nelle pagine Cultura del Corriere della Sera e da Gianluca Bocchinfuso ne Il Segnale, 94, 2013); e l’articolo-saggio su Heimito Von Doderer sulla rivista Uomini e libri: Dietro un’originale architettura poetica, una appassionata testimonianza della “Finis Austriae”, Milano 1986.
Al di là dell’indiscusso valore dell’opera poetica di Gabriella Cinti, alla quale un numero crescente di personaggi autorevoli del mondo letterario rende puntuali testimonianze critiche, avverto vivo il desiderio di ringraziare la poetessa per l’aspetto che accompagna, come un leitmotiv, questa raccolta: una ricerca al femminile, cioè, in cui le protagoniste sono rappresentate in tutta la loro immensa grandezza. Euridice, che apre la silloge, ne è l’emblema più formidabile; colma di “amore nudo e potente”, capace di sacrificio estremo, annullandosi, dona a Orfeo il “canto vero, di carne”, la Poesia eterna con cui illuminare il mondo.
Questa, in sintesi, la peculiarità che mi piace sottolineare: il ruolo fondamentale della donna nella storia, sia come madre generatrice di vita (vedi anche “Il tuo regalo di luce”), sia come scrigno prezioso da cui attingere incondizionata generosità e profonda spiritualità, necessarie per elevarsi e trascendere le vicende terrene verso l’Oltre, inverando così il breve cammino umano che ci è dato percorrere.
Angela Fabrizi
Collocherei questa esperienza poetica cintiana nell’alveo del cosiddetto “metodo mitico”, quello per intenderci adottato da Joyce con Ulisse, da T. S. Eliot per La terra desolata, da Derek Walcott (scomparso di recente)
con Omeros. Metodo mitico ( cui anch’io mi sono rifatto nel poema, di prossima pubblicazione, Noi siamo qui per Ecuba, ampiamente ospitato su L’Ombra delle Parole, su L’Isola dei poeti, su Patria Letteratura ), come
tentativo di rifarsi al mito per aggirare l’indicibilità del nostro tempo, sciatto e volgare, per lasciare un messaggio in bottiglia all’uomo contemporaneo, confidando ancora nella utilità dell’ars poetica…
Gino Rago
Antefatti estetici a Laboratorio Poesia: poetica del frammentismo
Il poeta della N.O.E medita da anni sulla “Teoria estetica” di T. W. Adorno. Fa suo l’assioma adorniano secondo cui: “I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna”. Per tale via maestra egli adotta la poetica del “frammento” come elemento costitutivo d’una sua personale ontologia estetica. La quale, partendo dalla “morte di Dio”, assume in sé la constatazione della fine della visione platonico-cristiana del mondo e della conseguente scomparsa del “centro dell’uomo nel mondo”. La sua ricerca d’arte ne prende atto e si muove nella persuasione della decadenza della “verità assoluta”, della impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad una unità di senso. Entrando nella filosofia del frammentismo, il poeta della N. O. E. assume il “frammento” come la cifra caratteristica della modernità poiché alla sua personalissima lettura il mondo moderno si pone sotto il segno della deflagrazione del “senso”, della dispersione, dell’astigmatismo scenografico, della moltiplicazione delle prospettive, della crisi e della inadeguatezza espressiva di un “unico”linguaggio. Nella teoria estetica dell’opera moderna il poeta della N. O. E. interpreta il prospettivismo di Nietzsche come una promozione della “frammentarietà” contro le tesi di quell’ordine metafisico incentrato sulla verità dogmatica, sulla verità indiscutibile.
La poetica del frammentismo tende a esiti estetici del tutto nuovi poiché la “filosofia del frammento” è in grado di restituire “dignità estetica” a quelle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno perché il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte. Rifondando l’opera, o distruggendola, la morte da essa elimina la macchia dell’apparenza. Ma ciò che conta è che per il poeta della Nuova Ontologia Estetica e dello Spazio Espressivo Integrale, il “frammentismo” va oltre il significato di “poetica”, va oltre le intenzioni d’arte. Il frammentismo in lui è una Weltanshauung. E’ uno stato d’animo. E’ il suo modo di sentire il mondo, di sentirsi egli stesso “frammento” di questo mondo poiché risiede in lui stesso l’unico punto di convergenza e di fusione di quella che Harold Bloom** ha definito “la cartografia psichica” dell’artista: l’agonismo perenne tra l’ “Io me stesso – l’anima – l’Io reale”.
Roma, 7 aprile 2017
** Harold Bloom, Il Canone Occidentale, BUR Rizzoli, 2016
Gino Rago
(E’ un mio omaggio tanto personale quanto sentitissimo alla sensibilità linguistica e alla ricchezza umana
di Gabriella Cinti, due qualità in via di estinzione, così come le ho “sentite” librarsi dai suoi versi.
Implicitamente sto dicendo “grazie” a Luciano Nota per questa occasione di lettura).
Gino Rago
Il più infinito dei miei grazie!