COLIAMBI
No, labbra non bagnai all’Ippocrene
– me lo ricordo bene – e non sognai
su la duplice vetta del Parnaso,
da uscir così, poeta, all’improvviso!
Lascio le Muse eliconie e la pallida
fonte Pirene a coloro cui edera
sfiora flessuosa una statua di marmo:
porto da semipagano il mio canto
al rito dei vati santificati.
Chi fece dire “Ciao!” al pappagallo
ed istruì la gazza al nostro dire?
Maestro di bottega, elargitor
d’ingegno, artista, imitator di suoni
non umani: lo stomaco, signori!
Roba che, se balena la speranza
di farci quattro soldi di stramacchio,
potresti creder cantino divini
corvi-poeti e gazze-poetesse!
SATIRA I
Ah, umane pene! Ah, vanità mondana
quanta sei! “Chi vuoi che legga ‘sta roba?”
A me lo dici? Diavolo, nessuno!
“Nessuno?”. O quattro gatti! “Ah, che schifezza!
Ah, che miseria infame!”. E perché mai?
Solo perché un assennato trombone
e quelle ochette snob del Campidoglio
non debban preferirmi Labeone?
Roba da poco! Se pur ti togliesse
qualcosa, l’indecifrabile Roma,
non affannarti a emendare l’errore
dell’ago di quell’infida bilancia,
e non cercarti fuori da te stesso.
A Roma, poi, chi non … – ah, si potesse
dire! … ma sì, si può… – … tutte le volte
che guardo capelli imbiancati, il vivere
nostro infelice e quello che facciamo,
lasciati indietro i giochi di ragazzi,
quando ce la tiriamo un po’ da burberi,
allora, proprio allora – perdonate
(io non vorrei, ma che ci posso fare?) –
son debole di milza: mi scompiscio!
Rinchiusi dentro casa – chi versifica
prigionier del metro, chi a piede libero –
scriviamo grandi cose da pompare
con i polmoni tutti dilatati.
Naturalmente, poi, le leggerai
al popolo da un podio, impomatato,
in bianco (toga nuova …) e, per finire,
con la sardoniké del compleanno,
e dopo aver ammorbidito l’ugola
con gargarismi liquidi, accasciato,
l’occhietto illanguidito, da gagà.
Vedresti, allor, dei marcantoni fremere
d’equivoche mossette, cangiar voce
nell’attimo in cui penetri, il tuo carme,
i loro fianchi, e più profonda carne
scota il vibrar di trapano del verso.
E tu, vecchietto, fai scorta di esche
per tènere orecchie, tènere orecchie
di gente cui dire “Basta!”, sfinito?
“A che imparammo, se questo fermento,
quest’arbore di fico di petraia
ingenerato dentro il nostro cuor,
non puote escirsi, rotto il fegatone?”
Ecco la mummia parlare! Che roba!
Val zero il tuo saper, se non lo sanno
gli altri che tu sai? “Che bello, però,
se per la strada ti segnano a dito,
si dicono ‘E’ lui …’! A te non cale proprio
che si dettino a cento ragazzetti
le cose che scrivesti?”. Eccola qui,
la stirpe di Quirino, fra i bicchieri,
a pancia piena, a domandar che narrino
le pagine divine dei poemi!
Un tale col mantello color glicine
attacca, a questo punto, un birignao,
sa il diavolo che roba irrancidita,
di Fillidi, d’Ipsipili, la merce
strappalacrime dei vati, la liquefa,
la spalma col palato intenerito.
Un pubblico virile l’ha gradito:
or, non sarà più lieto quel cener
di poeta? or che?! non sarà più lieve
la pietra che gli pesa sopra l’ossa?
I convitati fanno i complimenti:
or, da quell’anima, da quella tomba,
da quella tepida brace beata
non gemmeranno le viole? “Tu ridi
e ti diverti troppo, puzzalnaso!
Ma vi sarà chi si rifiuterà
di meritar le bocche della gente
e, proferiti concettini degni
di trattamento con un antitarme,
di consegnare un carme che non tema
d’avvolger pesci o incenso nel mercato?”.
Ehi, tu, cometichiami, che finora
ho fatto controbattere: non sono
quel che tema complimenti, se capita
che m’esca un che di buono, quando scrivo,
se m’esce, in qualche modo, un che di buono,
e quando accade – credi! – è merce rara!
Cuore di sasso di certo non ho:
nego, però, che il “Bravo!”, il “Bene!” tuoi
valgano il sommo onor di questo mondo.
Rivoltalo per bene, questo “Bene!”:
che cosa non ci sta? La traduzion
drogata dell’Iliade di Azzio?
Non vi son forse dolci poesiole
dettate da notabili gastritici?
Insomma, tutto quel che si compone
abbandonati a esotici sofà?
Tu sai offrir capezzoli di scrofa,
o regalare il tuo tabarro liso
a un portaborse mezzo infreddolito
e dici, poi, “Amo la verità!
Vi prego, di me dite verità!”.
E come? Vuoi la dica? Stai scherzando,
testapelata, barile di lardo
ingravidato di due spanne buone?!?
O Giano, alle cui terga mai si leva
un dondolar di testa di cicogna,
un dimenarsi rapido di mani
ad imitare bianche orecchie d’asino,
un ciondolar di lingua, tanta quanto
potrebbe, in Puglia, cagna sitibonda!
Tu, però, sangue patrizio, che vivere
devi ad occipite cieco, difenditi
quando una zanna da tergo sogghigna!
“Che se ne dice in giro, fra la gente?”
E che, se non che, finalmente, i carmi
fluiscono con ritmo delicato,
sicché, come per levigato piano,
vi scivoli senz’urto unghia severa?
Il Nostro sa distendere la rima
come se la tirasse con la riga!
Occorra fare satira morale,
o contro lusso, o contro regi pranzi;
dona, la Musa, grandiosa materia
al Poeta! Ecco, ora diamo lezioni
– Come Inventar Eroico Sentire –
a gente adusa a cazzeggiare in greco,
che non saprebbe descrivere un bosco,
lodare una campagna bella grassa,
coi suoi canestri, il focolare acceso,
i suoi porcelli e le feste di Pale
nel fumo del fieno, terra di Remo,
o Quinzio Cincinnato, e terra dove
avanti ai bovi, trepida, una moglie,
vestì te dittatore quando stavi
il vomere nei solchi logorando,
ed il littor ricoverò l’aratro.
“E bravo, il mio poeta! E… c’è qualcuno
cui possano, adesso, far perdere tempo,
l’opera d’Accio il grecante avvizzita?
Pacuvio e la sua Antiopa megera,
che nutre ‘il cor luttificato’ a strazi”?
Ogni volta che vedi padri ciechi
infondere nei figli queste idee,
ti chiedi donde venne al nostro idioma
codesto fritto misto di parole,
lo schifo per il quale si dimena
fra le poltrone, lieve, un bel fighetto?
Nessuno si vergogna, manco un po’,
di non sapere allontanar perigli
di sopra la capoccia incanutita
senza desiderare, sotto sotto,
di cogliere qualcuno dirgli “Bravo!”?
Un tizio dice a Pedio: “Sei un ladro!”.
E Pedio cosa fa? Pondera bene
le accuse con antitesi da bacio,
fra i complimenti per come ti plasma
figure da manuale di retorica
da scuola. “Bello, però!”. “Bello, però”?!?
E mi dovrei commuovere? Ma certo!
E, se mi si mettesse a recitare
la parte del mercante naufragato,
dovrei, magari, dargli una moneta?
Ti metti a recitare, se trascini
il quadro con te naufrago e il relitto?
Davvero, e non per notti d’esercizio,
pianger dovrà chi mi vorrà piegar
con una lagna! “Ma così si diedero
decoro ed armonia al ritmo acerbo!
Il verso apprese a chiudere così,
con ‘Attis berecinzio’, il buon poeta,
‘delfino che tagliava azzurro mar’,
‘prendemmo all’Appennin lungo una costa’.
Forse che non è spuma, e niente più,
l’ ‘Arma virumque cano’ – un vecchio bronco
seccato dentro sughero ipertrofico?”
Che cosa stimi sia dolce davvero
e da leggere immersi a capo chino?
L’ ‘Empiron di bacchici tuoni i corni
terribili, e Bassaride ablatura
il capo ha ratto a splendido vitello,
e intenta a volger lince tra corimbi,
ne ingemina la Menade le grida,
e l’eco al grido corrisponde e suona’?
Esisterebbe roba come questa,
se di un coglion paterno ancor vivesse
in noi foss’anche solitaria vena?
Sopra la cresta di un’onda alle labbra
risale questa spermatica bava
e ci s’imbroda la “Menade”, e l’ “Atti”
tamburellare sul letto le dita
non fa, né d’unghie rosicchiate sa.
“Ma che bisogno c’è di lacerare
il delicato udito della gente
con una verità che morde? Bada
che l’uscio dei potenti non si geli:
qui, dalle nari, ringhian come cani!”
Allora tutto bene, d’ora in poi!
Son pronto: bravi tutti! Tutti bene!
Ah, sarete fantastici! Funziona?
“Vieto che alcuno” – dici – “appuzzi qui.”
Dipingici un bel paio di serpenti!
‘Pisciate fuori, bimbi: questa è terra
benedetta!’. Va bene, me ne vado…
Lucilio affettò Roma, Muzio, Lentulo,
rompendocisi i denti, qualche volta…
Il buon Orazio Flacco al divertito amico
pizzica i vezzi ed una volta entratogli
nel cuore, si diverte, il furbacchione,
a prendere la gente per il naso.
A me non è permesso dire bah?
Neppure di nascosto? Contro un buco?
In nessun posto?!? Il mio segreto, allora,
lo voglio sotterrare proprio qui!
Ho visto, ho visto bene, libriccino!
Chi è che non tiene orecchie da somaro?
Per niente che valga, il riso che celo,
non te lo vendo per nessuna Iliade!
Signor cometichiami, che da Cràtino
l’audace, vellicato, impallidisci,
sbianchi per Eupoli irato e il Gran Vecchio,
guarda anche questa robetta – qualcosa
cotto a puntino, magari, lo senti!
Appena purificato l’orecchio,
bruci, il lettore, per me: no, non questo
cafone che si diverte a deridere
i Greci per i calzari che indossano,
e che si crede d’essere qualcuno,
magari quel che dice pane al pane
perché gasato da carica italica
– edile ad Arezzo! – tràstole insane
svelò; no, nemmeno questi che sa,
lo spiritoso, d’aver dileggiato
calcoli e coni tracciati su polvere,
pronto a godersela un mondo, se becera
zòccola tira la barba a un filosofo.
Per loro, la mattina, un bell’editto;
a sera, un polpettone tritapalle!
Traduzione di Furio Durando
AVLI PERSI FLACCI, Saturarum liber, I
Prologus
Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini, ut repente sic poeta prodirem.
Heliconidasque pallidamque Pirenen
illis remitto quorum imagines lambunt
hederae sequaces; ipse semipaganus
ad sacra uatum carmen adfero nostrum.
quis expediuit psittaco suum ‘chaere’
picamque docuit nostra uerba conari?
magister artis ingenique largitor
uenter, negatas artifex sequi uoces.
quod si dolosi spes refulserit nummi,
coruos poetas et poetridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.
Satira I
O curas hominum! o quantum est in rebus inane!
‘quis leget haec?’ min tu istud ais? nemo hercule. ‘nemo?’
uel duo uel nemo. ‘turpe et miserabile.’ quare?
ne mihi Polydamas et Troiades Labeonem
praetulerint? nugae. non, si quid turbida Roma
eleuet, accedas examenue inprobum in illa
castiges trutina nec te quaesiueris extra.
nam Romae quis non – a, si fas dicere – sed fas
tum cum ad canitiem et nostrum istud uiuere triste
aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis,
cum sapimus patruos. tunc tunc – ignoscite (nolo,
quid faciam?) sed sum petulanti splene – cachinno.
scribimus inclusi, numeros ille, hic pede liber,
grande aliquid quod pulmo animae praelargus anhelet.
scilicet haec populo pexusque togaque recenti
et natalicia tandem cum sardonyche albus
sede leges celsa, liquido cum plasmate guttur
mobile conlueris, patranti fractus ocello.
tunc neque more probo uideas nec uoce serena
ingentis trepidare Titos, cum carmina lumbum
intrant et tremulo scalpuntur ubi intima uersu.
tun, uetule, auriculis alienis colligis escas,
auriculis quibus et dicas cute perditus ‘ohe’?
‘quo didicisse, nisi hoc fermentum et quae semel intus
innata est rupto iecore exierit caprificus?’
en pallor seniumque! o mores, usque adeone
scire tuum nihil est nisi te scire hoc sciat alter?
‘at pulchrum est digito monstrari et dicier “hic est.”
ten cirratorum centum dictata fuisse
pro nihilo pendes?’ ecce inter pocula quaerunt
Romulidae saturi quid dia poemata narrent.
hic aliquis, cui circum umeros hyacinthina laena est,
rancidulum quiddam balba de nare locutus
Phyllidas, Hypsipylas, uatum et plorabile siquid,
eliquat ac tenero subplantat uerba palato.
adsensere uiri: nunc non cinis ille poetae
felix? non leuior cippus nunc inprimit ossa?
laudant conuiuae: nunc non e manibus illis,
nunc non e tumulo fortunataque fauilla
nascentur uiolae? ‘rides’ ait ‘et nimis uncis
naribus indulges. an erit qui uelle recuset
os populi meruisse et cedro digna locutus
linquere nec scombros metuentia carmina nec tus?’
quisquis es, o modo quem ex aduerso dicere feci,
non ego cum scribo, si forte quid aptius exit,
quando haec rara auis est, si quid tamen aptius exit,
laudari metuam; neque enim mihi cornea fibra est.
sed recti finemque extremumque esse recuso
‘euge’ tuum et ‘belle.’ nam ‘belle’ hoc excute totum:
quid non intus habet? non hic est Ilias Atti
ebria ueratro? non siqua elegidia crudi
dictarunt proceres? non quidquid denique lectis
scribitur in citreis? calidum scis ponere sumen,
scis comitem horridulum trita donare lacerna,
et ‘uerum’ inquis ‘amo, uerum mihi dicite de me.’
qui pote? uis dicam? nugaris, cum tibi, calue,
pinguis aqualiculus propenso sesquipede extet.
o Iane, a tergo quem nulla ciconia pinsit
nec manus auriculas imitari mobilis albas
nec linguae quantum sitiat canis Apula tantae.
uos, o patricius sanguis, quos uiuere fas est
occipiti caeco, posticae occurrite sannae.
‘quis populi sermo est? quis enim nisi carmina molli
nunc demum numero fluere, ut per leue seueros
effundat iunctura unguis? scit tendere uersum
non secus ac si oculo rubricam derigat uno.
siue opus in mores, in luxum, in prandia regum
dicere, res grandes nostro dat Musa poetae.’
ecce modo heroas sensus adferre docemus
nugari solitos Graece, nec ponere lucum
artifices nec rus saturum laudare, ubi corbes
et focus et porci et fumosa Palilia feno,
unde Remus sulcoque terens dentalia, Quinti,
cum trepida ante boues dictatorem induit uxor
et tua aratra domum lictor tulit–euge poeta!
‘est nunc Brisaei quem uenosus liber Acci,
sunt quos Pacuuiusque et uerrucosa moretur
Antiopa aerumnis cor luctificabile fulta?’
hos pueris monitus patres infundere lippos
cum uideas, quaerisne unde haec sartago loquendi
uenerit in linguas, unde istud dedecus in quo
trossulus exultat tibi per subsellia leuis?
nilne pudet capiti non posse pericula cano
pellere quin tepidum hoc optes audire ‘decenter’?
‘fur es’ ait Pedio. Pedius quid? crimina rasis
librat in antithetis, doctas posuisse figuras
laudatur: ‘bellum hoc.’ hoc bellum? an, Romule, ceues?
men moueat? quippe, et, cantet si naufragus, assem
protulerim? cantas, cum fracta te in trabe pictum
ex umero portes? uerum nec nocte paratum
plorabit qui me uolet incuruasse querella.
‘sed numeris decor est et iunctura addita crudis.
cludere sic uersum didicit “Berecyntius Attis”
et “qui caeruleum dirimebat Nerea delphin,”
sic “costam longo subduximus Appennino.”
“Arma uirum”, nonne hoc spumosum et cortice pingui
ut ramale uetus uegrandi subere coctum?’
quidnam igitur tenerum et laxa ceruice legendum?
‘torua Mimalloneis inplerunt cornua bombis,
et raptum uitulo caput ablatura superbo
Bassaris et lyncem Maenas flexura corymbis
euhion ingeminat, reparabilis adsonat echo.’
haec fierent si testiculi uena ulla paterni
uiueret in nobis? summa delumbe saliua
hoc natat in labris et in udo est Maenas et Attis
nec pluteum caedit nec demorsos sapit unguis.
‘sed quid opus teneras mordaci radere uero
auriculas? uide sis ne maiorum tibi forte
limina frigescant: sonat hic de nare canina
littera.’ per me equidem sint omnia protinus alba;
nil moror. euge omnes, omnes bene, mirae eritis res.
hoc iuuat? ‘hic’ inquis ‘ueto quisquam faxit oletum.’
pinge duos anguis: ‘pueri, sacer est locus, extra
meiite.’ discedo. secuit Lucilius urbem,
te Lupe, te Muci, et genuinum fregit in illis.
omne uafer uitium ridenti Flaccus amico
tangit et admissus circum praecordia ludit,
callidus excusso populum suspendere naso.
me muttire nefas? nec clam? nec cum scrobe? nusquam?
hic tamen infodiam. uidi, uidi ipse, libelle:
auriculas asini quis non habet? hoc ego opertum,
hoc ridere meum, tam nil, nulla tibi uendo
Iliade. audaci quicumque adflate Cratino
iratum Eupolidem praegrandi cum sene palles,
aspice et haec, si forte aliquid decoctius audis.
inde uaporata lector mihi ferueat aure,
non hic qui in crepidas Graiorum ludere gestit
sordidus et lusco qui possit dicere ‘lusce,’
sese aliquem credens Italo quod honore supinus
fregerit heminas Arreti aedilis iniquas,
nec qui abaco numeros et secto in puluere metas
scit risisse uafer, multum gaudere paratus
si cynico barbam petulans nonaria uellat.
his mane edictum, post prandia Callirhoen do.
Aulo Persio Flacco
NOTA DEL TRADUTTORE
Scritta nella seconda metà degli anni ’50 del I secolo, la prima delle sei satire di Persio, meraviglioso e sfortunato poeta venuto al mondo negli ultimi anni, introversi e irosi, del principato di Tiberio e morto giovanissimo, poco prima di veder degenerare tragicamente quello di Nerone in tirannide (34-62 d.C.), è un travolgente pezzo di bravura su un genere letterario tutto romano. Con tecnica poetica magistralmente esercitata anche per lasciar intendere ai lettori di conoscere alla perfezione il genere e la sottesa estetica, ma soprattutto mettendo in evidenza come l’azione poetica non si possa risovere in un esercizio formale, Persio sferra un sulfureo attacco contro la poesia del suo tempo e prende nettissime distanze da quella dei secoli passati. Non si può stare coi praticoni dei cascami di una modernità divenuta manierista e teatrino per effetti speciali, pattume sentimentalista senza alcuna cognizione, esperienza e comprensione del sentimento. Non sono sopportabili questi stenterelli manzonisti ante litteram che catulleggiano per uditòri formati da “ochette snob del Campidoglio” o “marcantoni” conturbati, fossili viventi simili a celacanti abissali, ma in realtà ben visibili a pelo d’acqua: sono l’immarcescibile platea di chi considera la cultura, l’arte, la sapienza i convenienti ornamenta dei quali rivestire il proprio operoso nulla materialista e fruttifero. Ci si dovrebbe per questo metter nella schiera dei nostalgici laudatores di un qualsivoglia passato elevato agli altari, da fessi, ma senza l’attenuante del coltivare illusioni con cuore puro? Dovremmo stare con gli incapaci di lasciare i capolavori e la bellezza nello splendore del tempo che raccontano e che li generò? Con quelli che, invece di contemplare e rivivere quella bellezza e quella profondità di senso trasferendovisi per comprenderla e arricchirsene, ne fanno modelli, strumenti di catechesi, armamentari tecnici? Con quelli che ancora non vedono come ogni tempo abbia una propria voce, e proprie forme? Persio non ha dubbi: no. Non usa la spada, tuttavia. Forse, come scrisse Kenneth J. Reckford, libera un’energia antipassatista come un moderno futurista, ma lo guidano un’ironia limpida, un sarcasmo “a colpi di spillo” (come richiede un Canto dell’odio alla Stecchetti, ma cui non necessita davvero l’odio dovuto a un’amante perduta). Di certo il cachinnus che prorompe dalla sua milza è l’antica, esplosiva risata degli anarchici, quella che seppellisce ogni potere che si faccia legge, ogni autorità che limiti la libertà della fantasia. Il piacere della lettura di questa satira consiste nell’alternarsi di una ugualmente trista e straordinariamente varia antologia di stucchevolezze, orrori, vecchiumi, trombonerie della poesia giulio-claudia, frammezzati da un ora divertito, ora nervoso desiderio di tracciare una poetica nova per davvero. Non ama, Persio, l’equivalente delle lagnose canzoni d’amore – invariabilmente ambrate di un che di corrotto e violato, di un esistenzialismo da coiffeuses e poetesse-massaie (l’equivalente delle “gazze-poetesse” con le quali si chiude il prologo alla satira) quale oggi si trova nei testi di una Emma Marrone o di un Tiziano Ferro. Ma non sopporta neppure che si traducano – spesso obbrobriosamente – i capolavori epici del passato, o che – peggio! – si voglia raccontare l’oggi nelle forme prodotte da un diverso e ormai lontano, estraneo Zeitgeist. Proprio per questo, con terrore fatto lieve dalla speranza, la traduzione della prima satira di Persio qui proposta, basata sull’edizione critica oxoniense di Wendell V. Clausen del 1959 (vi ho apportato una sola diversa lettura, al verso 23), ho cercato innanzitutto, col massimo rigore filologico e semantico consentito dalle capacità, di liberare l’energia delle parole originarie alternando registri e lessico con la serena strafottenza dell’autore latino, ora levigando il verso e cercandone l’effetto; ora osando neologismi, idiotismi, termini vernacolari, rispettando per quanto possibile giochi di parole e doppi sensi: forma di rispetto doverosa verso un raffinatissimo e coltissimo poeta che si professò semipaganus.
Furio Durando