“Contrappunto” di Mariella Berardi, letto da Marco Onofrio

contrappunto

“Contrappunto” (EdiLet, 2016, pp. 68, Euro 12),  di Mariella Berardi, è un esordio poetico che sorprende per intensità lirica e felicità espressiva. Le composizioni, tutte di breve respiro ma ben strutturate e sostenute da forza interna, hanno uno spessore umano che le assimila a “stalattiti di vita” formate per sedimentazione nel corso degli anni, ricche di stratificazioni e sapide di esperienza. Ogni parola si lascia avvertire come l’eco di un palpito che riconduce il piano denotativo alle atmosfere di una connotazione “sublime”, aperta su spazi e tempi sconfinati. Risulta appropriata la scelta del titolo, laddove si consideri che – in musica – il contrappunto è l’arte di combinare più melodie sovrapposte. Così procede, infatti, il canone poetico della Berardi: mediante un’armonizzazione di accordi divergenti, da un unico centro, che traguarda la possibilità di liberare – in questa unità temperata dai contrasti – la musica stessa della vita.

C’è anzitutto una vocazione “elementare” che rende organico il verso, libero e obbediente alle pulsioni emozionali, laddove cerca di accordarsi al ritmo misterioso delle cose, al respiro ondivago del loro andirivieni, alla dinamica continua di intenti, fenomeni ed eventi che appaiono e scompaiono sul grande “sipario” dell’esistenza. Da una parte l’immensità impareggiabile del mondo; dall’altra l’intelligenza orientata e volitiva dell’uomo, che cerca di afferrare l’infinito ma ha le «mani di gesso». Tra i motori segreti del libro si avverte lo snodo dialettico che unisce in rapporto, o meglio in contrasto, uomo e mondo, ovvero civilizzazione sterminatrice e natura sempre risorgente, come «il chiarore di un’alba / che sa di miracolo» tra i grattacieli di New York. Mariella Berardi si dimostra sensibile al de rerum natura che manifesta in atto la spietata, imperturbabile necessità del divenire: «Nell’alba di salino / il cormorano / con il granchio decapitato / vola radente il mare». L’uomo forse è l’unico animale capace di dolersi consapevolmente per l’evanescenza a cui tutte le identità del mondo sono soggette, dinanzi all’agguato del divenire. Noi stessi siamo sabbia che scivola dalla mano dell’essere: «lo sgranare dei giorni» articola il rosario laico della nostra com-passione nell’avvertire il «pianto segreto» delle cose (sunt lacrimae rerum) e il «sapore aspro della vita» quando ci confrontiamo con il ricordo di ciò che non c’è più e il rimpianto di ciò che non è stato. La poesia ha, di per sé, una grande capacità di ricomposizione delle forze vitali devastate dal dolore della perdita e della mancanza. Splende di luce propria, per virtù terapeutiche, nel medicare ferite mai del tutto rimarginate e restituire idealmente i doni del tempo perduto. Ha anche una grande forza di chiarificazione a posteriori degli eventi, tanto da porsi come forma di riepilogo globale: «Ricordi, sì, ricordi, / quante strade / di sogni, attese, delusioni / abbiamo attraversato?» Ricordare e comprendere significa già incamminarsi sulla strada della guarigione, verso l’arduo traguardo dell’armonia.

A questa necessità di filtro conoscitivo obbedisce un’altra caratteristica piuttosto evidente della poesia di Mariella Berardi, ovvero la tendenza all’enumerazione dei “semi” del mondo: «cascate, deserti, fiumi, torri, laghi», e «chiese, cupole, colonne, fontane», e ancora «sassi, spighe, tufo, larve, / fiori mai nati, erba lucente», etc. Passare in rassegna gli elementi spontanei della natura e quelli artificiali della cultura le permette di “naufragare”, di uscire cioè dai vincoli del principio di individuazione, per confondersi col vortice infinito della metamorfosi, alle radici stesse della vita: «essere sola in questa terra bruna di memorie / penetrarla tutta come rigagnoli d’amore / e abbandonarmi»; oppure: «disfarmi, rigagnolo al vento (…) rinascere lichene / nell’aria attonita di un’alba». È una pulsione verso l’indistinto e l’oblio che talvolta si vena di cupio dissolvi, come nell’ultima lirica dove si anticipa, con solennità quasi profetica, l’incontro terminale con la morte: «Ed io mi involerò / nella luce». Eppure non c’è tristezza, né malinconia: la morte è contemplata con olimpica serenità, come il trampolino verso un’altra sconosciuta dimensione, per cui «il distacco sarà / catena eterna». Questa «catena eterna» è il filo stesso del divenire che rimescola tutto ciò che muore in tutto ciò che nasce. Come la sabbia plasmata continuamente dal vento, materia originaria «dove si nasce / si muore / si risorge». La sabbia evoca per traslato la simbologia profonda della polvere, la particella cosmica della dissoluzione in cui tutto perisce e da cui tutto torna a ricrearsi.

Naufragare nell’immensità dell’esistente, o dell’esistibile – a diversi livelli di grandezza, estensione, profondità –, è un modo per uscire da se stessi, dai risibili limiti umani, per «cercare l’approdo» in fondo al nulla, il porto di un viaggio che peraltro non finisce, e dunque «bere dalla bocca di una fonte» da cui attingere l’origine, la freschezza naturale dell’essenza. La voglia di accucciarsi nell’ombra e addormentarsi di un sonno quieto, come l’animale che cade in letargo, prelude alla speranza di «aprire gli occhi / su un mondo incolpevole». Questa vocazione profonda di palingenesi, sul piano individuale e cosmico, si esprime attraverso lo «spettro del tempo», cioè l’accoglienza di tutto ciò esiste senza esclusioni preconcette, quindi a partire dalle zone oscure e perturbanti, i detriti meno integrabili alla “normalità”. La poesia è un tracciato di supercoscienza che magnetizza «lampi d’antica bellezza», luminescenze baluginanti tra «velami di ombre». Il percorso è quello dell’eterno viaggio esoterico, in cui non c’è anabasi salvifica senza catabasi infera: abbandonarsi alla tenebra e attraversarla è la via obbligata per risalire alle sorgenti della luce.

La condizione ideale da cui sgorga e a cui tende la poesia di Mariella Berardi è l’«estasi del mito» per cui la bellezza è «antica» anche quando nuova, e l’anima è «sospesa» in una specie di incanto translucido che appunto, anziché obnubilarla, apre e acutizza i canali della percezione. L’anima sboccia alla poesia quando attraversa il «deserto di parole non dette» per formulare il suo «contrappunto senza tempo»; ed ecco l’altra accezione del titolo: la poesia come antinatura, forma di ribellione al divenire che annienta ogni voce del mondo, e dunque chiave in grado di scardinare il meccanismo del tempo divoratore, grazie a un movimento contrario a quello che avvince in gorgo ammutolente ciò che esiste. La poesia quindi si fa natura per accoglierla in tutta la sua dovizia; ma squaderna soprattutto antinatura, qual è in essenza, per portare la natura oltre la legge delle cose che cadono, muoiono, scompaiono, salvandole sul nastro del contrappunto. Da tutto questo la parola dispiega le possibilità di una «liturgia sacra e profana», che accorda il cielo alla terra, la tensione metafisica alla fame sensuale di vita, la spiritualità ai «trasalimenti» delle emozioni fisiche per cui «amarsi è come mordere il melograno».

È proprio la completezza dello sguardo da cui origina a rendere suasivo il dettato profondo di queste poesie, anche al di là delle parole utilizzate. Il «sapore aspro della vita», pur con tutti i suoi terribili dolori, non basta a cancellare la dolcezza di certi ricordi («Amore al Gianicolo. / Amore dei vent’anni. (…) Amore in sella al vento, / profili frementi, / musica nei capelli»), o a demolire i «bastioni» di quella strana, prorompente e quasi dolorosa «gioia di vivere» che accompagna i giorni, a intermittenza, ben oltre i palpiti giovanili. Dalla parte delle “consolazioni”, cioè delle cose belle e dolci che leniscono l’amaro della vita, Mariella Berardi colloca Roma, la sua amata città: una Roma teatrale e carnale, liquida e libera, barocca e luminosa, con i «gorgoglii d’azzurro» delle fontane («velari d’acqua (…) valve barocche, / sensuali acquasantiere») e il rosso fumoso dei suoi tramonti che straziano il cuore.

La qualità forse migliore di questa poesia è l’efficacia visiva a cui viene ricondotta la parola, spesso per nominazione diretta dell’oggetto, ai limiti dell’apostrofe. Comincia ad esempio con «Anguilla, serpente antico», rivolgendosi proprio all’animale («dimeni il corpo viscido»), e subito appare l’essere evocato, e la parola coincide con la cosa. Lo stesso accade nei ritratti di alcuni personaggi (su tutti Chaplin e Greta Garbo), dove la parola sembra un «diamante tagliato dalla luce», ma deposita il peso della sua levità in una concretezza “reale” che plasma la carne dei corpi. Quando la Berardi scrive di «coltello / nella piaga tenera» non circoscrive soltanto una metafora sessuale, all’interno di una lirica di passione fisica, ma offre una definizione applicabile alla propria scrittura, in una sorta di autoritratto inconsapevole, appunto per questa sua capacità di affondare il taglio dentro la polpa sostanziosa della vita.

Da qui si giunge al cuore stilistico di tutto il libro, il cui nitore ha evidentemente un’ascendenza classica ormai per lo più sconosciuta alle forme della poesia contemporanea. Mariella Berardi ha nelle sue corde una concentrazione linguistica – protesa all’essenzialità – che sembrerebbe congeniale alla scrittura di haiku. Un esempio: per dipingere il mare d’inverno scrive «il mare era cristallo», cioè: non più azzurro qual era d’estate ma lucido, argenteo e grigio, come una lastra di specchio. Basta l’uso analogico del sostantivo «cristallo» per evocare, attraverso tutta una costellazione visiva e psicologica, la semiosfera del mare d’inverno. E l’ascendenza classica si conferma viepiù nella scrittura tattile della lirica dedicata al figlio Carlo bambino, dove la Berardi dice le forme nello spazio, plasmando le linee e scolpendo le emozioni in marmo “michelangiolesco” di parole:

Le braccia a proteggere la rotondità del capo,
sopracciglia come ali di gabbiano
su sogni d’azzurro, palpebre lievi nel sonno di pietra.
La curva del naso perfetta
come un rivolo fino a labbra dischiuse,
si arrotonda in un mento caparbio e innocente.
Tu dormi.

Così funziona la lingua poetica in questo libro piacevole e intenso, che sa mettere d’accordo le opposte ma complementari ragioni di logos e mythos, materia e spirito, visibilità e visionarietà, controllo e abbandono, lucidità ed ebbrezza, presenza e oblio, disincanto e stupore, in una sintesi umana di ragione e sentimento destinata a lasciare traccia in chi avrà l’opportunità di leggerlo o ascoltarlo.

Marco Onofrio

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