Nel panorama letterario latinoamericano dal dopoguerra ad oggi è assai difficile incontrare una poesia cosi inquietante e pervasa dal mistero quale quella di Álvaro Mutis. Scrittore e poeta di origine colombiana e naturalizzato messicano (Bogotà, 1923 – Città del Messico 2013) ha ottenuto numerosi riconoscimenti e vinto premi in tutte le parti del mondo. Nella sua poetica le parole sgorgano con la velocità e l’impeto di una cascata che colpisce pietre, piante, corpi e metalli, parole schiette e a volte brutali, salgono dal ventre dell’uomo e della terra, si propagano fimo alle profondità del mare e alla volta del cielo. Già dalle prime liriche si comprende in Mutis la capacità visionaria del marinaio, un marinaio tutto particolare, il “gabbiere” che sale in alto sull’albero della nave, di vedetta e scorge e grida ora l’allegria della terra ferma della speranza e della salvezza, ora i cattivi presagi, la tempesta, lo smarrimento, la morte. Maqroll il Gabbiere è il personaggio di Mutis che sia nei romanzi che nelle poesie si fa carico di comunicare, di avvertire l’uomo, non di salvarlo né di modificare le circostanze o le cause che lo portano alla distruzione. Scorrono fiumi di sangue e di saggezza nei versi che a volte diventano prosa senza che la poesia venga meno, e vita e morte scorrono parallelamente nel loro corrodere lentamente l’uomo fino a spegnerlo. Così, all’età di novantanni consunto dalla vita e dalla morte il gabbiere Mutis si è spento in uno di quegli “ospedali d’oltremare” che aveva meticolosamente cantato. Oltre le porte di quell’ultimo ospedale si apre qualcosa di più grande e misterioso: «Oh signore! Accogli le preghiere di questo scrutatore supplicante e concedigli la grazia di morire avvolto nella polvere delle città, addossato alle gradinate di una casa infame e illuminato da tutte le stelle del firmamento» (tratto da “Preghiera di Maqroll” in Gli elementi del disastro – 1953).
“Non è difficile riconoscere in Àlvaro Mutis la voce di un vero poeta. E, aggiungo, un poeta della stirpe più rara in spagnolo: ricco senza ostentazione e senza spreco. Necessità di dire tutto e coscienza che nulla si dice. Amore per la parola, disperazione dinanzi alla parola, odio verso la parola: estremi del poeta. Gusto per il lusso e gusto per l’essenziale, passioni contraddittorie, ma che non si escludono l’un l’altra e alle quali ogni poeta deve le sue migliori poesie […]. Lo spirito esita tra la pietra e la putrefazione. E il miglior momento della grande nudità e, anche, dell’apogeo della forma. Lusso e agonia: cerimonia della catastrofe, rito del disastro. Tutto, inclusa la morte, esige una liturgia. Non esiste mito, non c’è favola ricreatrice del mondo e, in una parola, non esiste poesia senza un rito.”
Octavio Paz
NOTTURNO
Respira la notte,
batte i suoi chiari spazi,
le sue creature in rumori minuti,
nello scricchiolio lieve dei legni,
si tradiscono.
Rinnova la notte
un certo seme occulto
nella miniera feroce che ci sostiene.
Col suo latte letale
ci alimenta una vita che si prolunga
più in là di ogni risveglio mattutino
sulle rive del mondo.
La notte che respira
il nostro lento alito di vinti
ci conserva e protegge
«per destini più alti».
CREPA MATTUTINA
Scava la tua miseria,
sondala, scopri le sue caverne più nascoste.
Olia gli ingranaggi della tua miseria,
mettila sul tuo cammino, fatti strada al suo fianco
e bussa a ogni porta
con le cartilagini bianche della tua miseria.
Confrontala con quella di altre genti
e misura bene lo stupore delle differenze,
la singolare acutezza dei suoi bordi.
Riparati negli angoli lievi della tua miseria.
Tieni presente in ogni istante
che la sua materia è la tua materia,
l’unico porto di cui conosci ogni rada,
ogni boa, ogni segnale dalla terra tiepida
dove giungi a regnare come Crusoe
tra la moltitudine di ombre
che ti sfiorano e che urti
senza cogliere né il suo proposito né i costumi.
Coltiva la tua miseria,
rendila duratura,
nutriti della sua linfa,
avvolgiti nel manto tessuto coi suoi fili più segreti.
Impara a riconoscerla fra tutte,
non permettere che sia familiare agli altri
né prolungata abusivamente dai tuoi.
Sia per te come acqua battesimale
sgorgata dalle grandi fogne municipali,
come i rivoli che nascono nei mattatoi.
Si confonda con le tue viscere, la tua miseria;
contenga fin da ora i capitoli della tua morte,
gli elementi del tuo abbandono più certo.
Non lasciare mai da parte la tua miseria,
anche se riposassi ai suoi argini
come vicino al corpo bianco
da cui si è ritirato il desiderio.
Tieni sempre pronta la tua miseria
e non permettere che evada per distrazione o per inganno.
Impara a riconoscerla fin nei suoi segni più lievi:
l’accartocciarsi delle sottili foglie del carbonero,
l’aprirsi dei fiori al primo fresco della sera,
la solitudine di una gabbia da circo bloccata nel fango
del cammino, la fuliggine nei sobborghi,
la gavetta d’ottone che misura la minestra nelle caserme,
i vestiti disordinati dei ciechi,
le campanelle che disperdono il richiamo
sul retro seminato di eucalipti,
lo iodio delle navigazioni.
Non mescolare la tua miseria con le questioni di ogni giorno.
Impara a conservarla per le tue ore di svago
e intreccia con lei la vera,
la sola materia duratura
del tuo episodio sulla terra.
OGNI POEMA
Ogni poema un uccello in fuga
dal posto segnato dalla piaga.
Ogni poema una veste della morte
lungo le strade e le piazze annegate
nella cera letale dei vinti.
Ogni poema un passo verso la morte,
una moneta falsa del riscatto,
un tiro a segno nel mezzo della notte
logorando i ponti sul fiume,
le cui acque addormentate viaggiano
dalla vecchia città verso i campi
dove il giorno prepara i suoi fuochi.
Ogni poema un tatto gelido
di chi giace sul marmo delle cliniche,
un amo avido che percorre
il limo blando delle sepolture.
Ogni poema un lento naufragio del desiderio,
un cigolio di alberi maestri e sartie
che reggono il peso della vita.
Ogni poema un rombo di lini che fanno precipitare
sul ruggire gelato delle acque
l’involto bianco del velame.
Ogni poema invadendo e lacerando
la ragnatela amara della noia.
Ogni poema nasce da una sentinella cieca
che grida nel buco profondo della notte
la parola d’ordine della sua sventura.
Acqua di sogno, fonte di cenere,
pietra porosa dei mattatoi,
legname all’ombra dei semprevivi,
metallo che rintocca per i condannati,
olio funerario a doppio taglio,
sudano quotidiano del poeta,
ogni poema sparge per il mondo
l’agro cereale dell’agonia.
Da «I lavori perduti (1965)»
SE ASCOLTI SCORRERE L’ACQUA NEI CANALI
Se ascolti scorrere l’acqua nei canali,
il suo sonno mansueto passare tra penombre e muschi,
con il suono spento di qualcosa
che tende a soffermarsi all’ombra vegetale.
Se hai fortuna e preservi quell’istante
col tremore delle felci che non cessa,
col limo attonito che si dibatte
nell’alveo immutabile e sempre in viaggio.
Se hai la pazienza del ciottolo,
la sua voce spenta, il suo accento grigio senza spigoli,
e attendi finché la luce faccia il suo ingresso,
è bene che tu sappia che lì ti chiameranno
con un nome mai pronunciato prima.
Tutta l’ardua armonia del mondo
è probabile che ti sia allora rivelata;
ma solo per questa volta.
Saprai, forse, decifrarla nel rumore dell’acqua
che evade senza rimedio e per sempre?
COME SPADE IN DISORDINE
Omaggio minimo a Stéphane Mallarmé
Come spade in disordine
la luce scorre sui campi.
Isole d’ombra svaniscono
e tentano, invano, di sopravvivere più lontano.
Lì, di nuovo, le raggiunge il fulgore
del mezzogiorno che ordina le sue truppe
e stabilisce i suoi dominî.
L’uomo nulla sa di questi combattimenti silenziosi.
La sua vocazione di penombra, la sua abitudine all’oblio,
le sue usanze, infine, e le sue miserie,
gli negano la gioia di questa festa imprevista
che accade per disegno capriccioso
da chi, dall’alto, lancia i dadi muti
la cui cifra mai conosceremo.
I saggi, frattanto, predicano il conformismo.
Solo gli dèi sanno che questa virtù incerta
è un altro vano tentativo di abolire la sorte.
Da «Poesie disperse (1947-1988)»
Àlvaro Mutis (traduzione di Fabio Rodríguez Amaya)