LE VIE DELLA POESIA: riflessioni ad “ampio raggio”, di Marco Onofrio

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Le vie della poesia sono quelle immateriali, atomiche e pulviscolari, dei colori dentro il bianco della luce che, nella spelonca dello spazio vuoto, irradia all’infinito direzioni; ma anche quelle carnali della materia – fango e magma – di cui tenta l’opaca resistenza, la superficie della pelle e la greve compattezza della polpa. Come l’uomo, infatti, la poesia è spirito e terra: spirito della terra e, specularmente, terra dello spirito. È nodo e snodo d’incrocio tra le diverse condizioni esistenziali; è armonia polemica di opposti; è campo di battaglia; è scontro e incontro di forze; è sintesi dinamica di trasformazioni. Le vie della poesia, più in particolare, sono quelle che allontanano e ri-portano a noi stessi, nel mondo dell’“esterna internità” dove “dentro” e “fuori” sono intimamente legati e collegati, in senso elicoidale, poiché l’uno all’altro riconduce (come la striscia di Moebius; o come in molte opere di Escher, tra cui appunto il “Nastro di Moebius”). Attraversare le cose per conoscersi; capire se stessi per comprendere le cose. E le parole: calde, vibranti, carnali, corpi vivi di musica e suono, che fanno da ponte tra lo spazio esterno e quello interno, tra il “sé” e l’“altro da sé”, in una continua traduzione del visibile nell’invisibile – lo spazio autonomo, orfico, del testo (tessuto e partitura di parole) – da una distanza remota e prossima insieme, in un “qui” che è anche altrove, e in un “ora” che è anche prima, dopo, sempre. Sarebbe da preferirsi, a tal proposito, una poesia “vera” piuttosto che “reale”. Una poesia capace di bruciare i ponti con la realtà estemporanea che ne innesca, spesso casualmente, il meccanismo. Come un incendio, di cui – una volta attecchito – non riesci più a distinguere la miccia, la scintilla, l’occasione. Il poeta precipita dentro: cerca la sublime profondità. È uno specchio; o un faro che nel buio illumina gli specchi. Per questo la poesia appare spesso ostica, oscura, intraducibile: il più “straniero” dei linguaggi umani. Anche quando ci riguarda, quando parla di noi: quando dice il respiro, il battito del cuore e il suono misterioso della mente, articolando la nostra intima misura, come il discorso più proprio e profondo che siamo, e che abbiamo. Perché è un terreno di confine, di rischiosa interminabile ricerca, dove la lingua si rinnova da se stessa, carica delle proprie estreme potenzialità, agglutinandosi nella densità originaria della propria essenza. Il confine dove appaiono, non a caso, le configurazioni nuove del senso, del tempo, del rapporto dell’uomo con il mondo: demoni, angeli, visioni, presenze, epifanie. Lampi dell’ignoto invisibile. Rivelazioni del visibile. Echi immemoriali. Frammenti informi dell’immaginario. Per questo la poesia invoca ed esige lo scarto di una differenza dalla lingua quotidiana, quella che si parla nei bar o si scrive nei giornali per raccontare la cronaca. È una parole che si contrappone alla langue incrostata e banalmente normativa. Non per vezzo o per snobismo, ma per necessità intrinseche, di ordine espressivo. La poesia non “serve” a niente, nel senso che non ha un’immediata utilità pratica. Non ha uno scopo: quindi ha un valore. Non è “linguaggio di potere” o “linguaggio strumentale” degradato a semplice mezzo. Instaura infatti la funzione “poetica”, che predomina largamente su quella “referenziale”. Non può darsi poesia se la lingua non diviene “poetica”: che non significa “bella” a priori, cioè depurata, raffinata, edulcorata… bensì, piuttosto, autonoma e creativa, staccata dal riferimento immediato alla realtà. Scrive Cesare Brandi: «La poesia è la naturalità che si decanta in realtà senza esistenza, ed è naturalità che urge, preme, deve essere espressa, fissata per sempre». La magia della parola poetica è che ha in se stessa la sua sorgente. La lingua, grazie alla poesia, comunica la propria essenza spirituale, ovvero: l’uomo comunica la propria essenza spirituale attraverso la lingua poetica.

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La poesia è da sempre tesa alla “lingua pura” delle origini: cerca di afferrare l’“essere linguistico” delle cose, il nome segreto e cifrato di ogni essere, come traduzione del suo “quantum”, della sua quiddità energetica, della sua scintilla creatrice, della sua peculiare “nota” metafisica. Per intuizione istantanea. Per comprensione assoluta. Come la “lingua nuova” di cui ad esempio Hofmannsthal (nella Lettera di Lord Chandos, 1902) articola l’istanza/ipotesi: una lingua «di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto». Una lingua che incorpora l’oggetto, lo crea nominandolo, lo manifesta in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide con lo stato paradisiaco delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. La parola umana nasce dalla rottura di questa unità originaria. Il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale”. Da allora c’è la torre di Babele: iperdenominazione del mondo, pluralità di linguaggi, ingorgo di gerghi strumentali, ovvero pletora di nomi vuoti: un immenso fragore di segnali, un boato di fondo che sfuma, infine, nel silenzio dell’insignificanza… A questo può servire la poesia, oggi più che mai. Ad aggiustare la frequenza del suono: a riagganciare la giusta armonia per ascoltare il silenzio delle origini. Ben diverso da quello fragoroso dei linguaggi: profondo, invece, e limpido, creativo. È in questo silenzio originario che si è andato a nascondere l’indicibile della conoscenza perduta, che si esprimeva nella pienezza del nome. Il silenzio del mondo che tace la verità. È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità, che attinge nello scrivere il poeta. Deve portare le cose all’essere, lasciandole affiorare e rivelare. La parola, allora, diventa simbolo pieno: nome che contiene mille voci, tutte le voci. Nome che dice la realtà in tutta la sua fulgida bellezza: la bellezza dell’essere che esiste, e manifesta il mistero della propria origine; non la bellezza “abbellita”, esornativa, ornamentale: non l’artificio appositivo della superfetazione.

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Lo sguardo di Orfeo che si volta verso Euridice, come in un “folle volo”, determina l’inizio della poesia tragica nella coscienza della conoscenza, frutto di ricerca personale, incapace di resistere al richiamo del nuovo, dell’ignoto, del proibito. È l’uomo che si ribella al sapere acquisito per divinità, giacché non può accettare il divieto di sapere oltre, liberamente, con le sue stesse forze. Il poeta, da quel momento in poi, incarna la paura degli dèi: paura della parola libera, creativamente umana, che non si fa più complice d’incanto oblioso ma pensa, scava, dice, scopre i segreti del mondo e li rivela oltraggiosamente – benché ciò costi la perdita eterna di Euridice, la cacciata dal paradiso, il dolore del dis-incanto. L’Orfeo “poietes” – che insegna agli uomini la sua parola colma di pensiero e di esperienza – si contrappone all’originario Orfeo “agamos” nella misura in cui il Logos si contrappone all’armonia del Mythos, con le sue favole quiete, portandovi rovina, frattura, decomposizione. È un occhio che si apre al nuovo sguardo. La ragione mette l’uomo dinanzi ai suoi limiti: lo fa dolorosamente libero e consapevole. Egli è diviso e solo: non più pieno, non più tutt’uno con il mondo, non più unito alle sue radici. Ora, il Logos senza Mythos è sterile e freddo, pesa; il Mythos senza Logos è vano ed effimero, vola. La poesia è e dà la “giusta sintesi”: è infatti “coscienza logomitica”; è “scienza nutrita di stupore”; è accordo e scambio biunivoco tra gli emisferi della mente; è snodo cardinale tra gli stati dell’essere; è incrocio di assi, spaziali e temporali; è incontro di sintagmi e paradigmi – metro, ritmo, metafora. La poesia è centratura dello sguardo e riequilibrio autologico delle energie. È cura animi, e dunque pratica terapeutica. Può donare nuovo equilibrio alla complessità – del mondo, delle cose, di noi stessi – e alla motile armonia dei suoi contrari. Può servire a rimitologizzare il mondo, senza facili nostalgie. Agevolare una fondazione poetica, e quindi etica, della realtà. Rendere sì leggibile la “rottura” della totalità, che ci fa relativi, limitati, risibili; ma consentire e articolare l’apertura dello sguardo su uno spazio sconfinato che sta “oltre”. Noi siamo conficcati nella storia, apparteniamo al tempo. Ma se il tempo è la dimensione dell’assenza, della perdita irrecuperabile, allora siamo condannati a vagare nel vuoto come uomini vuoti, smarriti nel caos, nel buio informe dell’inumano. Il cammino poetico moderno, infatti, si è configurato come un’avventura aperta dello spirito tra il “non più” e il “non ancora”: tra le macerie del vecchio mondo e le tracce inquietanti del nuovo. E il poeta era un essere scorticato: il più fragile, il più esposto. E anzitutto al rischio supremo del linguaggio: dov’è o dovrebbe essere il forno di conio del “fondamento”. Molti poeti hanno pagato con la follia; altri col suicidio; altri ancora con la morte prematura, dopo una vita di indicibile dolore.

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Occorrerebbe una poesia, oggi, in grado di rispondere non solo alla domanda “perché”, ma anche a quella “da dove”. Occorrerebbe il ri-ascolto di ciò che sta prima e al di fuori della storia, oltre il tempo. C’è un luogo profondo, remoto benché vicinissimo, che è stato occultato in ogni modo dalle grandi costruzioni razionalistiche del pensiero occidentale: un luogo dove l’Essere parla ancora, coi nomi originari della sua pienezza. La poesia – come l’arte in genere – è simbolo vivente di questo luogo dell’Essere: offre la possibilità di accedere alle fonti originarie della vita; di portarsi al punto cruciale in cui il tempo storico dell’assenza si interseca con il tempo pieno dell’eternità. Il poeta penetra nelle arcane profondità del mondo attraverso se stesso, i propri casi particolari, la propria esperienza. Giri e rigiri e ingorghi tortuosi, e caverne, e fango putrescente di paludi – labirinti di foreste sempre più oscure, sempre più fitte e intricate… sino a che, oltre la tenebra, ecco splendere la radura dell’Essere, la Luce. E si scopre che le radici sono interconnesse: che nel profondo di noi stessi siamo tutti collegati, siamo Uno. E, quindi, che ognuno è anche tutti. Raccogliendo immagini primordiali agguantiamo, dominiamo e innalziamo la nostra precarietà alla sfera delle cose eterne. È in questo processo di elevazione del profondo che l’immagine si trasfigura, diventa emblematica, universale.

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D’altro canto le parole – se esistono, se sono dette – stanno sempre “al di qua”: relative, inabili, parziali. Non dicono mai tutto: non afferrano mai l’essenza vera, l’essere stesso della cosa. La poesia, da questo punto di vista, è sempre il resoconto di uno scacco; che cosa, altrimenti? se non il silenzio, cioè il bianco del foglio, che contiene ogni parola ma non dice? Le parole sono finite: lasciano sempre un “resto” che però ci spinge a sapere e andare avanti. Il riscatto dalla precarietà del tempo (come nella pagina scritta, che dura uguale a se stessa) procede mediante la ricerca e la conquista del tempo, fuori e dentro di noi. Come diceva Ungaretti: l’innocenza recuperata attraverso la memoria.

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Restano poi, talvolta indimenticabili, le vie che le parole scrivono nel mondo. Come scie luminose. Come sentieri di stelle. Come tracce iridescenti di lumaca. Dice Paul Celan: «(…) sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi. Una sorta di ritorno a casa». Proprio a Celan dobbiamo la suggestiva immagine della poesia come “meridiano”: una linea vera, benché immateriale e inesistente, che indica una direzione attraverso molti territori, e su cui a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino di accostamento a se stesso e alla propria verità, di uomo e di essere nel mondo.

Marco Onofrio

33 commenti
  1. I testi – o i posts, come si dice – sono tutti qui aperti e manifesti, ognuno può valutarne il che e il come, carissimi Onofrio e Ottaviani, e dunque non occorre spendervi altre parole. Dall’insieme poi s’intende chiaramente che questo blog non è ” la palestra” di questo e di quello, “il libero e democratico agone delle idee”, altrimenti avrebbe accettato di pubblicare il mio saggio. Piuttosto è uno spazio esclusivo riservato a pochi, e tutti gli altri sono relegati ad essere soltanto lettori.

    • Infatti: ognuno ha ampiamente valutato il “che” e il “come” delle rispettive posizioni. Con questo suo ultimo commento, caro Alvino, lei ha chiaramente manifestato la radice personalistica che ha dato e sta dando impulso ad una interlocuzione ormai piuttosto sterile e vuota di significati. A lei non interessa discutere, quanto piuttosto rivendicare spazio e attenzione. Non avendoli ottenuti come desiderava, se la rifà su chi non c’entra niente. Io non sento di far parte di uno “spazio esclusivo” e non ho usurpato nulla: venni invitato a collaborare dallo stesso Luciano Nota fin dai primissimi tempi del blog. E’ una colpa?

  2. Coteste sono argomentazioni gratuite, carissimo Onofrio. Sotto il comodo atteggiamento umile e modesto, lei cerca solo chi le innalza servilmente inni laudativi, e guai a chi osa esprimere qualche diversa opinione. La saluto.

    • Io non ho bisogno, bontà mia, di servitori e laudatori: ne hanno bisogno i mediocri. Lei ha espresso una “diversa opinione”? Non mi pare! L’opinione di una persona colta è tale perché robusta delle proprie articolazioni; ma quando le ho chiesto di motivare meglio i suoi rilievi – proprio perché ero interessato a conoscerli meglio – lei ha divagato, per poi recriminare su un piano strettamente personale. Così fanno le persone prive di contenuti e argomenti, con le quali è inutile discutere. Buona continuazione.

  3. Lo stesso Luciano Nota non è poi diverso, anche lui cerca solo il plauso. Avevo espresso riserve circa il premio Nobel assegnato al Bob Dylan, e il Nota, che invece vi consente, mi rispose qui sopra velenoso, al modo dei “ragazzini” romani che, se uno dà loro una qualifica, invece di chiederne il perché, rispondono ontosamente: “Ce sarai!”. Quanto al sottoscritto, è forse una colpa desiderare un poco di considerazione, con aperta disponibilità al confronto? Non è una colpa, è solo un umanissimo desiderio. Questo blog invece, insieme ai suoi adepti, è esclusivo, chiuso a tutti gli altri, che son declassati a semplici lettori, cui non è riconosciuto nessun diritto di critica, ma solo la funzione di servili incensatori. Altro che “libero e democratico agone delle idee”!

    • Alvino io non cerco il plauso: già ce l’ho! Lei continua a prendere cantonate. La “diatriba” è cominciata solo perché le avevo chiesto di motivare i suoi rilievi, e non in modo ontoso o velenoso. Poteva rispondere semplicemente: Onofrio, il suo articolo non mi è piaciuto perché etc. La cosa sarebbe finita lì: non si può né si deve piacere a tutti. Invece non solo non ha motivato le sue ragioni, ma ha cominciato ad assumere posizioni ostili e personali, probabilmente preconcette. A quel punto non mi chieda di risponderle con gentilezza, è umano – non crede? Ma è lei che ha cominciato, come tutti hanno visto e possono vedere rileggendo le puntate di questo ridicolo, inutile “carteggio”. E oltretutto prosegue nella polemica, sparando alla cieca su chi le capita a tiro… Deve essere stato ben lungo e doloroso il livore che la spinge a queste esternazioni!

  4. Ma quali sono le offese personali che io le avrei recato? Io non ne vedo. E il livore? Io sto solo rispondendo ai rilievi che mi si fanno, tutti preconcetti e strampalati. per provare la fondatezza delle mie osservazioni sul suo saggio (sì, il suo saggio, so anch’io che cos’è un saggio), basta leggerlo, e se ne trovano di prove ad ogni colpo d’occhio. Anziché rifare la fatica, io ho preferito aggiungere un’altra valutazione, dicendo che cos’era, secondo me, quel saggio. Che cosa c’è di “personale” in questo? Inoltre, io non “sparo alla cieca su chi mi capita” ma rispondo a ciò che mi si dice, e si dà il caso che ciò che mi si dice è preconcetto e volutamente offensivo. Altro che esternazioni!

    • Lei non ne vede, caro Alvino, perché è tutto concentrato su se stesso. Per es. il 24 ottobre alle 12.52 ha avuto la pessima idea di scrivere: “lei cerca solo chi le innalza servilmente inni laudativi”. Non c’è offesa personale in queste parole!? Lei, inoltre, non ha affatto risposto ai rilievi. Se c’è qualcosa di preconcetto e di strampalato sono proprio le sue nebulose e contraddittorie affermazioni. Dimentica, inoltre, la rivendicazione personalistica dello spazio che il suo saggio non avrebbe trovato nel blog, a differenza del mio? Le sue non sono state “osservazioni” degne di questo nome; e proprio di ciò le ho chiesto fin da subito conto, invitandola a spiegare meglio dove e come si riscontrassero gli “andirivieni logici”, i “gesti raccogliticci” e le “lungaggini oziose” da lei avvertiti nel mio articolo. Ma il massimo che può rispondermi è l’evidenza tautologica del suo stesso rilievo, ovvero (cito dal suo ultimo commento): “Per provare la fondatezza delle mie osservazioni sul suo saggio (…) basta leggerlo, e se ne trovano di prove ad ogni colpo d’occhio”. Ridicolissima dimostrazione! Le rinnovo i miei cordiali saluti e l’avverto che, se vuole, possiamo continuare all’infinito la sterile diatriba, come già mi accadde – in un altro blog – con Ennio Abate…

  5. Io e i miei amici di Poliscritture consideriamo la riflessione critica sulla poesia, specie oggi che i tentativi di farla sono tanti e spesso disordinati e inconcludenti, indispensabile. Sia per diminuire pregiudizi vecchi e nuovi che per spezzare i recinti (riviste, blog) in cui purtroppo si è costretti a condurla. E aprire, appunto, “nuove vie”. Avendo perciò letto questo articolo di Marco Onofrio, ho proposto a Giulio Toffoli, che ha mente filosofica e non si considera poeta, d’intervenire. Polemicamente, come può vedere chi ha letto il testo che ho linkato (http://www.poliscritture.it/2016/10/24/la-poesia-ha-ancora-delle-vie-da-percorrere/). Se no, che gusto c’è a confrontarsi con quelli che la pensano allo stesso modo?

    Ora vedo che la “provocazione” non viene accolta. Sarà perché è capitata nel mezzo di un troppo acceso confronto tra Alvino e Onofrio. Sarà perché, essendo appena usciti da una spiacevole esperienza con un altro autore che, sentendo travisata la sua posizione, ha rifiutato il confronto ( qui: http://www.poliscritture.it/2016/10/01/pornolandia-la-morte-della-sessualita/), abbiamo preferito usare le parole e i pensieri espressi in “Le vie della poesia etc.” senza nominare Onofrio e forse non si è colto che il Tonto parlava del suo articolo.
    Fatto sta che un mancato scambio di opinioni con tutti gli aggiustamenti del tiro (da parte di chi critica e di chi viene criticato) mi parrebbe un’occasione sprecata. E aggiungo, dunque, quest’altro commento. Grazie, in ogni caso, sia dell’eventuale attenzione che da una confermata disattenzione.

  6. “possiamo continuare all’infinito la sterile diatriba, come già mi accadde – in un altro blog – con Ennio Abate…” (Onofrio)

    All’infinito… sterile…Giammai!
    Prendo atto che lei è fatto in un certo modo. Chiuso.

  7. Onofrio, sia preciso. Quella nostra vecchia discussione (a quella mi riferivo non a questa sua con Alvino) non continuò “all’infinito”; e “sterile” (almeno per me) non fu: mi permise di capire la sua incapacità dialogica. Che credevo alleggerita con il passar del tempo. Mi sono sbagliato. Buona sera.

    • Infatti: continuò fintanto che lei, accerchiato dalle stringenti e implacabili argomentazioni del “trio” Pompei-Linguaglossa-Onofrio, dopo uno scambio interminabile di oltre 100 commenti, decise di lasciare la partita. Non so perché lei, Abate, è sempre portato a vedere la pagliuzza nell’occhio di Onofrio e non le travi negli occhi di altri eventuali interlocutori. Che mi dice delle capacità dialogiche di Alvino? Sono ottime, vero? Buona sera a lei

  8. “Implacabili” o meglio testarde di certo erano quelle “argomentazioni”. “Stringenti” dubito. Ma ciascuno si può fare la sua opinione rileggendole. E mi parve saggio “lasciare la partita”, perché il confronto ha un senso se gli interlocutori dimostrano di voler approfondire una questione non quanto finisce per diventare uno scontro per dimostrare soltanto la propria bravura dialettica o sfoggiare titoli professionali o libri letti. Ma venendo all’oggi e a questo post, mai mi sognerei di fare l’arbitro tra lei e Alvino, che tra l’altro non conosco (come lui non conosce me). Come ho spiegato ho mostrato attenzione alla questione trattata nel post e caldeggiato un confronto. Lei invece di accettarlo, mi rinvanga cose sepolte. E che devo dirle? Prendo atto. Per dialogare si deve volerlo almeno in due, no?

    • Caro Abate, eravamo “testardi” in tre? E’ testardo chi – semplicemente – non concorda? Lei aveva la Verità in tasca e noi non ci piegavamo a riconoscerLa? Non fu anche lei tacciabile di ostinazione nel ribattere colpo su colpo per oltre 100 commenti, o lei se lo può permettere? Inutile riparlarne: dopo di allora mi ripromisi di non “dialogare” più con lei. Se ora lo stiamo facendo, accidentalmente, è solo perché lei è intervenuto nella “diatriba”, chiamiamola così, tra me e Alvino, inizialmente estesa anche a Paolo Ottaviani e Luciano Nota. Buona serata

      • Non concordare di solito è la regola delle sane discussioni. Si cerca la verità (o qualcosa di simile). E la testardaggine (certo anche mia) non significa avere “la Verità in tasca”. Questo me l’attribuisce lei per svalutarmi. Le ho spiegato prima la ragione per cui mi ritirai da quella contesa. La polemica ha senso proseguirla quando senti che l’altro ti *riconosce* (Hegel!), sia pur come avversario, nella ricerca appunto di qualche verità. Non lo ha più quando ti accorgi che non ascolta neppure più i tuoi argomenti, evita di soppesarli e mira – appunto – soltanto a “ribattere colpo su colpo” in una sorta di “guerra personale” che perde di vista lo scopo del confronto. Nel primo caso i commenti potrebbero essere anche più di 100. Che c’è di male? Comunque, mi pare strano che lei, da allora, si sia ripromesso di non dialogare più con me. Non mi pare di averla offeso e non capisco, A me non è mai venuta in mente di pensare una cosa del genere. E perciò non ho esitato a intervenire in questa occasione. Non – ripeto – nella diatriba o discussione in corso tra lei e Alvino o Ottaviani o Nota, ma sul tema del post. Se lei sta evitando sistematicamente di farlo, per rispettare quella “promessa” fatta a se stesso, sbaglia. Le pare una dimostrazione di capacità dialogica, questa? Non credo. Peccato. Io ci ho provato. Spero che abbia almeno letto le obiezioni che le ha mosso Toffoli e le resti la curiosità di conoscere i commenti che stanno arrivando. Poi approfondirà la questione per conto suo o con chi crede. Buona notte.

  9. “Ma quali sono le offese personali che io le avrei recato? Io non ne vedo” (cit. Alvino). “Non mi pare di averla offeso e non capisco” (cit. Abate). Anche lei, come Alvino, non ricorda di avermi offeso; ed è tipica di queste circostanze (e in genere delle personalità narcisistiche) la doppia valutazione di cause ed effetti: i propri comportamenti vengono giudicati con clemenza e misericordia; quelli degli altri aggravati e amplificati. L’offesa è inesistente o scusabile se inferta; gravissima se subita. Non ricorda, caro Abate, il commento che lei mi scrisse (nel profluvio della discussione) tacciandomi di arrivismo e opportunismo (“corri ragazzo corri”), e che l’amministrazione di quel blog (“L’ombra delle parole”) si affrettò a cancellare? Io credo che lei dovrebbe umilmente riconoscere di avere – almeno in parte – i difetti che riscontra negli altri, a cominciare dalla testardaggine e da una certa autofondazione testamentaria. A ciascuno di noi, me compreso, gioverebbe un po’ di sana autocritica. Solo così le discussioni potrebbero arrecare nutrimento e vantaggi reciproci di conoscenza. La saluto.

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