Le vie della poesia sono quelle immateriali, atomiche e pulviscolari, dei colori dentro il bianco della luce che, nella spelonca dello spazio vuoto, irradia all’infinito direzioni; ma anche quelle carnali della materia – fango e magma – di cui tenta l’opaca resistenza, la superficie della pelle e la greve compattezza della polpa. Come l’uomo, infatti, la poesia è spirito e terra: spirito della terra e, specularmente, terra dello spirito. È nodo e snodo d’incrocio tra le diverse condizioni esistenziali; è armonia polemica di opposti; è campo di battaglia; è scontro e incontro di forze; è sintesi dinamica di trasformazioni. Le vie della poesia, più in particolare, sono quelle che allontanano e ri-portano a noi stessi, nel mondo dell’“esterna internità” dove “dentro” e “fuori” sono intimamente legati e collegati, in senso elicoidale, poiché l’uno all’altro riconduce (come la striscia di Moebius; o come in molte opere di Escher, tra cui appunto il “Nastro di Moebius”). Attraversare le cose per conoscersi; capire se stessi per comprendere le cose. E le parole: calde, vibranti, carnali, corpi vivi di musica e suono, che fanno da ponte tra lo spazio esterno e quello interno, tra il “sé” e l’“altro da sé”, in una continua traduzione del visibile nell’invisibile – lo spazio autonomo, orfico, del testo (tessuto e partitura di parole) – da una distanza remota e prossima insieme, in un “qui” che è anche altrove, e in un “ora” che è anche prima, dopo, sempre. Sarebbe da preferirsi, a tal proposito, una poesia “vera” piuttosto che “reale”. Una poesia capace di bruciare i ponti con la realtà estemporanea che ne innesca, spesso casualmente, il meccanismo. Come un incendio, di cui – una volta attecchito – non riesci più a distinguere la miccia, la scintilla, l’occasione. Il poeta precipita dentro: cerca la sublime profondità. È uno specchio; o un faro che nel buio illumina gli specchi. Per questo la poesia appare spesso ostica, oscura, intraducibile: il più “straniero” dei linguaggi umani. Anche quando ci riguarda, quando parla di noi: quando dice il respiro, il battito del cuore e il suono misterioso della mente, articolando la nostra intima misura, come il discorso più proprio e profondo che siamo, e che abbiamo. Perché è un terreno di confine, di rischiosa interminabile ricerca, dove la lingua si rinnova da se stessa, carica delle proprie estreme potenzialità, agglutinandosi nella densità originaria della propria essenza. Il confine dove appaiono, non a caso, le configurazioni nuove del senso, del tempo, del rapporto dell’uomo con il mondo: demoni, angeli, visioni, presenze, epifanie. Lampi dell’ignoto invisibile. Rivelazioni del visibile. Echi immemoriali. Frammenti informi dell’immaginario. Per questo la poesia invoca ed esige lo scarto di una differenza dalla lingua quotidiana, quella che si parla nei bar o si scrive nei giornali per raccontare la cronaca. È una parole che si contrappone alla langue incrostata e banalmente normativa. Non per vezzo o per snobismo, ma per necessità intrinseche, di ordine espressivo. La poesia non “serve” a niente, nel senso che non ha un’immediata utilità pratica. Non ha uno scopo: quindi ha un valore. Non è “linguaggio di potere” o “linguaggio strumentale” degradato a semplice mezzo. Instaura infatti la funzione “poetica”, che predomina largamente su quella “referenziale”. Non può darsi poesia se la lingua non diviene “poetica”: che non significa “bella” a priori, cioè depurata, raffinata, edulcorata… bensì, piuttosto, autonoma e creativa, staccata dal riferimento immediato alla realtà. Scrive Cesare Brandi: «La poesia è la naturalità che si decanta in realtà senza esistenza, ed è naturalità che urge, preme, deve essere espressa, fissata per sempre». La magia della parola poetica è che ha in se stessa la sua sorgente. La lingua, grazie alla poesia, comunica la propria essenza spirituale, ovvero: l’uomo comunica la propria essenza spirituale attraverso la lingua poetica.
La poesia è da sempre tesa alla “lingua pura” delle origini: cerca di afferrare l’“essere linguistico” delle cose, il nome segreto e cifrato di ogni essere, come traduzione del suo “quantum”, della sua quiddità energetica, della sua scintilla creatrice, della sua peculiare “nota” metafisica. Per intuizione istantanea. Per comprensione assoluta. Come la “lingua nuova” di cui ad esempio Hofmannsthal (nella Lettera di Lord Chandos, 1902) articola l’istanza/ipotesi: una lingua «di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto». Una lingua che incorpora l’oggetto, lo crea nominandolo, lo manifesta in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide con lo stato paradisiaco delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. La parola umana nasce dalla rottura di questa unità originaria. Il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale”. Da allora c’è la torre di Babele: iperdenominazione del mondo, pluralità di linguaggi, ingorgo di gerghi strumentali, ovvero pletora di nomi vuoti: un immenso fragore di segnali, un boato di fondo che sfuma, infine, nel silenzio dell’insignificanza… A questo può servire la poesia, oggi più che mai. Ad aggiustare la frequenza del suono: a riagganciare la giusta armonia per ascoltare il silenzio delle origini. Ben diverso da quello fragoroso dei linguaggi: profondo, invece, e limpido, creativo. È in questo silenzio originario che si è andato a nascondere l’indicibile della conoscenza perduta, che si esprimeva nella pienezza del nome. Il silenzio del mondo che tace la verità. È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità, che attinge nello scrivere il poeta. Deve portare le cose all’essere, lasciandole affiorare e rivelare. La parola, allora, diventa simbolo pieno: nome che contiene mille voci, tutte le voci. Nome che dice la realtà in tutta la sua fulgida bellezza: la bellezza dell’essere che esiste, e manifesta il mistero della propria origine; non la bellezza “abbellita”, esornativa, ornamentale: non l’artificio appositivo della superfetazione.
Lo sguardo di Orfeo che si volta verso Euridice, come in un “folle volo”, determina l’inizio della poesia tragica nella coscienza della conoscenza, frutto di ricerca personale, incapace di resistere al richiamo del nuovo, dell’ignoto, del proibito. È l’uomo che si ribella al sapere acquisito per divinità, giacché non può accettare il divieto di sapere oltre, liberamente, con le sue stesse forze. Il poeta, da quel momento in poi, incarna la paura degli dèi: paura della parola libera, creativamente umana, che non si fa più complice d’incanto oblioso ma pensa, scava, dice, scopre i segreti del mondo e li rivela oltraggiosamente – benché ciò costi la perdita eterna di Euridice, la cacciata dal paradiso, il dolore del dis-incanto. L’Orfeo “poietes” – che insegna agli uomini la sua parola colma di pensiero e di esperienza – si contrappone all’originario Orfeo “agamos” nella misura in cui il Logos si contrappone all’armonia del Mythos, con le sue favole quiete, portandovi rovina, frattura, decomposizione. È un occhio che si apre al nuovo sguardo. La ragione mette l’uomo dinanzi ai suoi limiti: lo fa dolorosamente libero e consapevole. Egli è diviso e solo: non più pieno, non più tutt’uno con il mondo, non più unito alle sue radici. Ora, il Logos senza Mythos è sterile e freddo, pesa; il Mythos senza Logos è vano ed effimero, vola. La poesia è e dà la “giusta sintesi”: è infatti “coscienza logomitica”; è “scienza nutrita di stupore”; è accordo e scambio biunivoco tra gli emisferi della mente; è snodo cardinale tra gli stati dell’essere; è incrocio di assi, spaziali e temporali; è incontro di sintagmi e paradigmi – metro, ritmo, metafora. La poesia è centratura dello sguardo e riequilibrio autologico delle energie. È cura animi, e dunque pratica terapeutica. Può donare nuovo equilibrio alla complessità – del mondo, delle cose, di noi stessi – e alla motile armonia dei suoi contrari. Può servire a rimitologizzare il mondo, senza facili nostalgie. Agevolare una fondazione poetica, e quindi etica, della realtà. Rendere sì leggibile la “rottura” della totalità, che ci fa relativi, limitati, risibili; ma consentire e articolare l’apertura dello sguardo su uno spazio sconfinato che sta “oltre”. Noi siamo conficcati nella storia, apparteniamo al tempo. Ma se il tempo è la dimensione dell’assenza, della perdita irrecuperabile, allora siamo condannati a vagare nel vuoto come uomini vuoti, smarriti nel caos, nel buio informe dell’inumano. Il cammino poetico moderno, infatti, si è configurato come un’avventura aperta dello spirito tra il “non più” e il “non ancora”: tra le macerie del vecchio mondo e le tracce inquietanti del nuovo. E il poeta era un essere scorticato: il più fragile, il più esposto. E anzitutto al rischio supremo del linguaggio: dov’è o dovrebbe essere il forno di conio del “fondamento”. Molti poeti hanno pagato con la follia; altri col suicidio; altri ancora con la morte prematura, dopo una vita di indicibile dolore.
Occorrerebbe una poesia, oggi, in grado di rispondere non solo alla domanda “perché”, ma anche a quella “da dove”. Occorrerebbe il ri-ascolto di ciò che sta prima e al di fuori della storia, oltre il tempo. C’è un luogo profondo, remoto benché vicinissimo, che è stato occultato in ogni modo dalle grandi costruzioni razionalistiche del pensiero occidentale: un luogo dove l’Essere parla ancora, coi nomi originari della sua pienezza. La poesia – come l’arte in genere – è simbolo vivente di questo luogo dell’Essere: offre la possibilità di accedere alle fonti originarie della vita; di portarsi al punto cruciale in cui il tempo storico dell’assenza si interseca con il tempo pieno dell’eternità. Il poeta penetra nelle arcane profondità del mondo attraverso se stesso, i propri casi particolari, la propria esperienza. Giri e rigiri e ingorghi tortuosi, e caverne, e fango putrescente di paludi – labirinti di foreste sempre più oscure, sempre più fitte e intricate… sino a che, oltre la tenebra, ecco splendere la radura dell’Essere, la Luce. E si scopre che le radici sono interconnesse: che nel profondo di noi stessi siamo tutti collegati, siamo Uno. E, quindi, che ognuno è anche tutti. Raccogliendo immagini primordiali agguantiamo, dominiamo e innalziamo la nostra precarietà alla sfera delle cose eterne. È in questo processo di elevazione del profondo che l’immagine si trasfigura, diventa emblematica, universale.
D’altro canto le parole – se esistono, se sono dette – stanno sempre “al di qua”: relative, inabili, parziali. Non dicono mai tutto: non afferrano mai l’essenza vera, l’essere stesso della cosa. La poesia, da questo punto di vista, è sempre il resoconto di uno scacco; che cosa, altrimenti? se non il silenzio, cioè il bianco del foglio, che contiene ogni parola ma non dice? Le parole sono finite: lasciano sempre un “resto” che però ci spinge a sapere e andare avanti. Il riscatto dalla precarietà del tempo (come nella pagina scritta, che dura uguale a se stessa) procede mediante la ricerca e la conquista del tempo, fuori e dentro di noi. Come diceva Ungaretti: l’innocenza recuperata attraverso la memoria.
Restano poi, talvolta indimenticabili, le vie che le parole scrivono nel mondo. Come scie luminose. Come sentieri di stelle. Come tracce iridescenti di lumaca. Dice Paul Celan: «(…) sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi. Una sorta di ritorno a casa». Proprio a Celan dobbiamo la suggestiva immagine della poesia come “meridiano”: una linea vera, benché immateriale e inesistente, che indica una direzione attraverso molti territori, e su cui a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino di accostamento a se stesso e alla propria verità, di uomo e di essere nel mondo.
Marco Onofrio
Onofrio, credo non sia giusto usare ulteriormente questo spazio pubblico dei commenti di “La presenza di Erato” per sciogliere il contrasto (reale o presunto) tra me e lei. Le propongo di scrivermi a ennioabate@alice.it o di farmi avere il suo attuale recapito elettronico; e, se vuole, riesaminiamo assieme (e anche col senno di poi) tutti i commenti di quella nostra discussione del 15 nov. 2014. Che è ancora leggibile – senza cancellature mi pare – qui (https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/10/15/la-letteratura-invisibile-pensieri-a-briglia-sciolta-di-marco-onofrio-sul-sistema-letterario/comment-page-1/#comments). Un caro saluto
Resipiscenza. Meglio tardi che mai. Grazie Ennio!
Signor Alvino, in questo blog è ormai conosciuto come il tutto contro tutti; il niente del verbo. Tanto mi spiace, ma tanto, il fatto che il suo enorme vestito d’oro non abbia spazio in questo blog. Mi spiace perché le sue malevolenze siano partite con sicurezza, con determinazione di chi vuole rompere e basta. Scrive che il nostro blog ( gli amministratori sono Luciano Nota, Marco Onofrio, Fabrizio Milanese) vien meno alle richieste altrui o a ciò che si può proporre in poesia e in arte. Non ha mai mandato un suo scritto alla mail di erato per essere valutato e pubblicato, non si è mai presentato da autore ( mi scusi, io, noi, voi, non possiamo mica conoscere le opere e le operette che di anno in anno partorisce uova poetiche). Marco Onofrio non ha bisogno di nulla, parla la sua produzione letteraria. (gente, leggete , leggete, ne avrete sospiro). Quanto poi al dibattito tra il mio amico Marco e il mio amico Ennio, non entro perché non ho letto l’articolo nè i 100 commenti. Credo invece che 2 grandissime menti ( Marco ed Ennio) debbano avere la possibilità di unirsi in scontri piacevoli e costruttivi, lontanissimi da chi è capace di essere “tuo amico e ti scrivo bene”; “non sei amico, non vali un cazzo”: Linguaglossa. Dottor Alvino, torno a lei per pietas e stanchezza, proponga a me, a Marco Onofrio, a Fabrizio Milanese i suoi saggi, se saranno notevoli li pubblicheremo, ma mandaceli. Ennio , ci vedremo a Milano. In poesia ci vuole bontà e un soffio di vento. ( Lo scrivo coi denti digrignati).