Le “gondole” di Byron e alcune lettere inviate a John Murray e Thomas Moore

lord_byron_coloured_drawingGeorge Gordon Byron nacque a Londra nel 1788 da famiglia nobilissima. Nel 1807 pubblicò la sua prima raccolta di versi , Hours of Idleness (Ore d’ozio), ma è nel 1811 con i primi due canti del Childe Harold’s Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo) che diventò di colpo celebre e uomo alla moda. Nel 1813 scrisse The Giaour (Il Giaurro), nel 1814 The Corsar (Il Corsaro), racconto orientale. Separatosi dalla moglie fu costretto nel 1816 a lasciare l’Inghilterra per i suoi debiti e scandali sessuali ( fu accusato di rapporti incestuosi con la sorellastra Augusta Leigh ) e si recò prima a Ginevra dove conobbe Shelley e poi a Venezia. Sono tanti i luoghi che legano Byron alla città lagunare: Palazzo Mocenigo, dove il poeta visse dal 1816 al 1819; Palazzo Querini Benzon, dove conobbe la giovanissima Teresa Gamba Guiccioli, moglie del benestante di Ravenna Alessandro Guiccioli; l’isola del Lido, dove fece la storica nuotata fino a Santa Croce; l’isola di San Lazzaro degli Armeni, dove viveva una comunità di monaci e imparò l’armeno. A Venezia il poeta è divenuto una vera e propria leggenda per le sfrenatezze carnevalesche, la sua vita viziosa, le tantissime amanti. Ma Venezia certamente è stata fondamentale per la crescita della sua poesia. Durante gli anni veneziani Byron ebbe una ricca corrispondenza epistolare con gli amici inglesi, fra i tanti il suo editore John Murray e il poeta Thomas Moore. Da queste lettere emerge la visione che il nostro ebbe della città delle gondole. In una lettera del 25 novembre a John Murray scrive:

giro-in-gondola-a-venezia-e-serenata-con-cena-in-venice-114953Venezia mi piace tanto quanto mi aspettavo, e mi aspettavo molto. E’ uno di quei luoghi che conosco prima di vederli, e che più mi ha stregato, dopo l’Oriente. Amo la malinconica gaiezza delle gondole e il silenzio dei canali. Non mi dispiace perfino l’evidente decadimento della città, anche se rimpiango la singolarità delle sue usanze scomparse; ne sopravvivono ancora, tuttavia sta per arrivare anche il carnevale. San Marco, ma in realtà tutta quanta Venezia, di notte specialmente è pieno di vita. I teatri non sono aperti fino alle nove, e la gente vi arriva ancora più tardi. Tutto ciò è di mio gusto; ma ai vostri nostalgici compatrioti manca per lo più il fracasso delle vetture da nolo senza il quale non riescono a dormire.

Il 28 gennaio del 1917 scrive a Thomas Moore:

Venezia è nel pieno del suo carnevale e ho passato due notti in bianco al ridotto e all’opera e ad altre cose di questo genere. Eccoti ora un’avventura. Giorni fa un gondoliere mi ha portato un biglietto senza intestazione, contenente il desiderio di chi l’aveva scritto d’incontrarmi o in gondola o all’isola di San Lazzaro o in un luogo indicato nel biglietto… Ho risposto che nessuno dei tre posti mi andava bene ma che, o sarei stato a casa alle dieci di sera, da solo, o al ridotto a mezzanotte, dove chi scriveva avrebbe potuto incontrarmi mascherato. Alle dieci ero solo a casa (Marianna era andata col marito ad un intrattenimento), quando la porta del mio appartamento si aprì, ed entrò una fanciulla di bell’aspetto e (strano per un’italiana) bionda, di circa diciannove anni, che m’informò di essere la moglie del fratello della mia innamorata e di desiderare un po’ di conversazione con me. Io risposi educatamente, e chiacchierammo un po’ in italiano ed in romaico (sua madre essendo greca di Corfù), quando, dopo qualche minuto, entra d’impeto, con mia grande sorpresa, Marianna in persona, la quale dopo aver fatto una corretta reverenza a sua cognata e a me, senza profferir parola l’afferra per i capelli e le affibbia sedici schiaffoni, che ti avrebbero fatto bruciare l’orecchio solo a sentirne l’eco. Inutile descriverti gli strilli che seguirono. La sventurata visitatrice si eclissò. Io afferrai Marianna, che dopo vari e inutili sforzi per inseguire la sua nemica, si abbandonò in preda a convulsioni tra le mie braccia e, malgrado discussioni, acqua di Colonia, aceto, bicchieri d’acqua, e Dio sa quant’altra acqua ancora, continuò così fin dopo mezzanotte.

Nonostante la dissolutezza, gli eccessi, un poeta resta sempre tale. In una lettera scritta ancora a Thomas Moore in un momento di debilitazione invia all’amico una stupenda poesia dove appunto esprime la stanchezza:

Così noi non andremo più vagando
Tanto tardi nella notte, anche se ancora
Come sempre ama il cuore e come sempre
Splende la luna.
Perché la spada consuma il fodero,
E dall’anima il petto è consumato;
Deve aver posa il cuore per rivivere
E riposare amore.
Benché la notte sia fatta per amare
E troppo presto il giorno ritorni,
Pure noi non andremo più vagando
Al lume della luna.

Tra il 1816 e il 1824 apparvero il poema Beppo e il suo capolavoro il Don Giovanni. Byron morì il 19 aprile 1824 a Missolungi.

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