Lo scempio avversativo degli oggetti: rotture di ambiguità espressiva nella condizione poetica; Gilda Musa, Franco Manescalchi, Fabrizio Milanese, di Michele Rossitti

imagesDurante giornate autunnali la creatura allo stato puro è tutta presa a contemplare il rosaio che s’inerpica sui mattoni a fianco dell’argine: una reazione delicata le fa sognare l’attimo in cui il bocciolo risboccerà primaverile sopra la pianticella rachitica quando d’improvviso viene svegliata all’oggi dal brontolio del treno che romba sull’argine. L’impulso istintivo la spinge a sollevare la mano verso finestrini sconosciuti come augurio innocente ma il mezzo non ha né vetri né gente. Un tetro convoglio bellico reca sotto i teloni artiglierie mentre in aria aleggia l’aroma tradito. La bimba, stupita con il braccino alzato verso ignoti, incontra mentite spoglie che si sono fatte sostituire spettri da strumenti violenti invece di ricambiare, con sorriso paterno, il tenero saluto di chi non sa e nemmeno suppone. Il campo scottato assieme ai pali stagliati nello sfondo sfida una tela ad olio laddove l’eternità ripetuta per il cielo e il grigio trasformano le presenze inanimate in croci di dolore universale. In pancia al dramma della guerra, dinanzi alla pseudo-sapienza della maturità, Gilda Musa fa trionfare una tenerissima ignoranza più adulta.

Quanto tempo, ancora, prima che fioriscano
su quella bassa siepe contro il muro
rosa, le rose? Una bambina
dalla gonna troppo corta, guardava
come in attesa i rami bassi,
gli spini, i nodi del legno.
La pianta rimase ferma nell’autunno
nessuna cosa che le desse un soffio:
la bambina non seppe resistere
a distrarsi, l’attesa della rosa
dimenticò: all’improvviso, al rumore
colmo sul terrapieno: sulla cima
nel bruciato delle erbe alte, tagliate
prima della fine dell’estate,
fra i pali come pennellate contro un cielo
infinito di grigio infinito,
sbucò il muso del primo treno.
Scivolò, la bambina volle alzare la mano
per salutare qualche sconosciuto,
qualche signore che la vedesse,
così piccola, dal finestrino,
come un benvenuto prima di dire:
arrivati, siamo a Milano.
Nessuno
era affacciato ai finestrini, ma tele
bassamente verdi e rosse, sbiadite
come la gonna della bambina,
tentavano di passare tra le cabine
e i semafori, lente e inosservate;
nascondevano dentro
grandi gobbe e rigonfiamenti,
la bambina non indovinò, lunghi cannoni,
carri armati. Spuntava
solo la bocca, incappucciata,
contro il cielo.

Gilda Musa

germania_anno_zeroVisioni d’orrore che si rovesciano valanghe dentro i sensi del bambino in un’immensa impressione di crollo di immobili esterni ma soprattutto di vita dischiusa sotto il cui incubo abita l’età dell’illusione e dei sogni per spingersi ad accompagnarlo oltre, allerterà ogni attimo del domani. Un inferno estraneo a speculazioni teologiche e gironi adotta facce di un mondo negativo perennemente sfigurato dall’obbrobrio dei conflitti senza sindacare le ragioni dello sfollamento intestino o fuori confine. A ragione, Franco Manescalchi trasfigura uomini in animali inermi e profughi da una parte, dall’altra in cani aizzati nella battuta selvaggia.

Ballata per il ragazzo che fui nel 1944

Era polvere il cielo, sulle vie
le verghe deragliate, e case chine
protendevano, fra le batterie,
bronchi di mura, nubi di caligine.

Anni che in me, un ragazzo, si stamparono
franandomi d’intorno e mi franò
nel petto il cuore. Giorni, ore, minuti
di raffiche, di morti, d’arsi grani

abbattuti, un tempo che violò
i sogni, che mi spinse fra le mute
fameliche ai rifugi. Chi non dà
pace all’infanzia è già morto, è già
all’inferno. E l’inferno è sulle vie.

Franco Manescalchi

Comunque, da un osservatorio microcosmico a campione, si può assistere a quanto accade e prolungata la chiara o incompiuta degenza di bersaglio offeso, il presagire lentezza di tiro o senso incerto nell’esito del coprifuoco, abbassa la guardia al pensiero sostitutivo dei ritratti più crudi della luce del giorno, specie in tregue di pace.

Una casa per ricordare

Voglio una casa per ricordare.
Un muro che assorba
il mio odore di fatica.
Un focolare spento
con cenere di betulla.
Stare nel mistero fecondo
di un baratto silenzioso:
un vaso con una pietra
per attendere la sera
e sognare soli e girasoli.
E in questo azzurro umido
posare l’immagine di un fiore.

Fabrizio Milanese

Riccardo-BucciArchitetture e suppellettili tratteggiano i vari livelli simbiotici che il partecipante instaura con sé e il critico, fino alla radice più interna dove avviene l’intimissima esperienza di matrimonio spirituale con la materia. I primi versi appartengono a chi lotta contro le sue inclinazioni esterne e cerca contemporaneamente di sforzarsi per rimanere fedele alla pratica del vero sentire. Il vaso con una pietra è invece già accesso nella contemplazione e nei successivi s’introduce all’unione per mutare il proprio egoismo in dimenticanza di sé e attenzione totale a quanto lo circonda. La conclusione corrisponde a un fidanzamento animato dove l’autore sperimenta l’obbligo di fedeltà assieme alla prova che gli affina l’amore per abitudini quotidiane e l’abilita a varcare l’ultima soglia, troppo volentieri osteggiata dall’ostruzionismo lirico di finti ciechi. Fonda colonie affettive e tuffa il cuore nelle più distraenti preoccupazioni che un contratto appena stipulato provoca, senza scordargli il pericolo beato e floreale di poter soffrire qualche emozione per gli arredi, vette contemplative seppur sfuggenti. Ne “Il Castello” di Kafka il protagonista è assunto dal medesimo proprietario con regolare contratto: dopo che, per recarvisi, abbandona ogni cosa, si ritrova nel paradosso di non potervi accedere perché nessuno ne ha bisogno e per la mancanza della porta d’ingresso che rende l’edificio impenetrabile. In aggiunta, qualora lo desiderasse, non può nemmeno allontanarvisi considerato che vi appartiene per rispettare le clausole locative. Il risucchio turbato descrive l’approdo assurdo dell’uomo moderno; Fabrizio Milanese, invece, su scie quasi devote, pari a pari, adegua la dimensione di un destino alla finitudine fisica senza accondiscendervi, addita al singolo l’ingresso verso l’umanità nell’emancipazione d’un vaso previo galà imperfetto, cioè l’ipostasi smaniata dell’impotenza in sua dolce ma limpida fermezza.

Michele Rossitti

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