sarà la teoria degli angoli convessi
o quella delle rette parallele
o è il pigreco del tuo labbro superiore
a spaccare in un secondo tutti
gli assi portanti del mio mondo?
e sentirsi ancora nuda e rovesciata
come una figura piana
disegnata sempre storta
sulla carta millimetrata
dell’ennesima inutile illusione
*
abbandonati ora al sonno della sera
zittisci finalmente il pianto di bambina
la libertà è lenzuolo sopra un tetto
si impiglia da solo agli spigoli del cielo
giovinezza di rabbia e di illusione
gliel’hai lasciata tutta sulla strada
l’innocenza del domani e sei rimasta
l’unica a sentire un violino che non c’era
*
una veste rossa inebriante
scegliesti per l’ultima canzone
il concerto finale intonato con il sangue
invocasti le Pleiadi a trapuntarti gli occhi
e apristi i cieli solcando oceani d’acqua viva
varcasti il confine così col passo di una dea
soltanto una cosa dimenticasti di portare
la corona macchiata dei capelli
Laura Corraducci
Ho fatto una prima rapida lettura di questo libro incuriosito dalla “disinvoltura” espressiva di Laura Corraducci, dal suo timbro calibrato e affascinante facendomi trasportare dalla musica dei versi, che ho sentito ora incalzante e ora dissonante, ma sempre tesa a cogliere l’urgenza del dettato senza sovrastarlo e senza adombrarlo. A una seconda lettura mi sono reso conto che Laura Corraducci entra nel dettato poetico sull’onda di una nota che la spinge a realizzare “il fuoco del” suo “destino” al di là di qualsiasi progetto. C’è, ne Il canto di Cecilia e altre poesie, una ragione imperiosa che pretende di dipanare i nodi intricati di un essere oscillante tra pesantezza della realtà e leggerezza della spiritualità. Non è a caso che Laura conclude proprio con i nove “spartiti” dedicati alla Santa protettrice della musica. Ho notato che c’è quasi una folla di citazioni da poeti e scrittori di varie generazioni, come se la poetessa volesse trovare conferma a priori alle sue affermazioni, come se le varie affinità dichiarate fossero il richiamo a una tessitura ideale entro la quale muoversi legittimamente, ma al di là di ciò avverto nei versi di Laura una pastosità linguistica direi nuova e corroborata da una sorta di incandescenza morale che rende il tutto compatto e convincente. Il discorso critico di Francesco Napoli, davvero di grande profondità e di grande finezza, non mi trova d’accordo del tutto, specialmente sul discorso dell’io in poesia. Sarà sempre e soltanto l’io a dominare e a essere protagonista assoluto della poesia. L’importante che il benedetto io sia capace di diventare universo, altro da sé, come è accaduto a Dante Alighieri, a Francesco Petrarca, a Ugo Foscolo e a Giacomo Leopardi, per fare solo qualche nome. La poesia di Laura non è inchiodata nella confessione, basti soffermarsi a pagina 29, “la pietra oggi racconta un’altra storia / del Capitano nei suoi viaggi di profeta / degli oceani prosciugati / delle sete del suo sogno / del firmamento cucito / ogni notte sulle tempie… /” per rendersi conto di come il suo percorso s’insinua nei bagliori di mondi estranei e lontani facendoli diventare essenza della sua psiche e del suo calvario quotidiano. Trovo che la poetessa sappia tessere le ragioni ancestrali del proprio mondo sapendole innestare al sublime divario delle incertezze umane e ne sappia trarre la linfa necessaria per dare ai suoi versi la risonanza per diventare parole-sangue, parole-luce, parole in dissesto e capaci di rinnovare gli spazi metafisici. La piacevolezza surreale con cui sono condite le immagini è qualcosa che dà forza alle espressioni, non è semplicemente belletto o inseguimento d’una moda. Laura ha la consapevolezza delle sue doti e le adopera con disinvoltura e così la sua poesia riesce a trovare la misura per esprimere le sue tensioni ideali, la sua ribellione, la bellezza che si nasconde negli anfratti segreti della realtà.
Dante Maffia