Nel 750° anniversario della nascita di Dante: Ulisse, il peccatore che non coniugò virtute e conoscenza (Inferno, c. XXVI), di Giovanni Caserta

Dante-Alighieri-300x234Di ponte in ponte, eccetto il caso di un ponte crollato, Dante e Virgilio raggiungono la ottava bolgia dell’ottavo cerchio. Hanno, nel loro faticoso e tormentato cammino, incontrato, bolgia dopo bolgia, seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti e ladri. Si son quindi trovati a cavallo del ponte che sovrasta la ottava bolgia, destinata ai consiglieri di frode. Costoro, avendo fatto cattivo uso della intelligenza, sono avvolti in fiamme, che rappresentano appunto l’intelligenza. Non è possibile vedere l’anima che dentro vi è nascosta, come non fu mai possibile sapere che cosa, veramente, pensasse un consigliere di frode. A prima vista, dall’alto dello scoglio, l’immagine che se ne ha può essere persino gradevole. Il canto, infatti, ha un momento di quasi rilassamento, dopo una invettiva contro Firenze, luogo di grandi ladri. L’immagine è quella di una bella sera d’estate, quando il contadino, dall’alto della collina, osserva la valle, avvinto da mille lucciole. Con incantevole e incantata puntualità, Dante dice che è l’ora in cui la mosca cede il posto alla zanzara. E’, insomma, l’ora del crepuscolo. Ma è solo un momento di distacco contemplativo. Dante sa che non è in campagna, sulla terra. L’immagine è ingannevole. Perciò aguzza lo sguardo, cercando di capire che cosa si può nascondere dietro quella visione, apparentemente così calma e quieta. Virgilio, vedendolo “tanto atteso”, al punto che pur tenendosi ad un “ronchione”, si sporge pericolosamente in avanti, gli viene incontro. La curiosità, infatti, se non debitamente frenata, potrebbe nuocere allo stesso Dante, facendolo precipitare in basso, anche “sanza esser urto”. Così nocque ai fraudolenti. Perciò lo previene, svelandogli ogni cosa: “Dentro dai fuochi – dice – son li spirti; / catun si fascia di quel ch’elli è inceso” (Inferno, XXVI, vv. 47-48). Dante l’aveva intuito; non era difficile. Ma ad altro va ormai il suo pensiero. Come era successo nel cerchio dei lussuriosi, nel cerchio degli eretici e in quello di Brunetto Latini, c’è sempre qualcosa che appare diverso dal resto. Qui, ad attirare l’attenzione, è una strana fiamma cornuta, che sembra ricordare il mito dei fratelli Eteocle e Polinice, che, in vita, si odiarono al punto che, quando i loro cadaveri furono messi a bruciare sul rogo, la fiamma si divise in due. Nel caso del mito, però, a dividere era l’odio; nel caso specifico, osservato da Dante, trattasi di due dannati che, in vita, avevano sempre proceduto in perfetto accordo, anche se a fin di male. In quella fiamma biforcuta, infatti, sono condannati Ulisse e Diomede. “Dentro da la loro fiamma [fra l’altro] si geme / l’agguato del cavallo”, che servì a conquistare Troia e, con la fuga di Enea, produsse l’origine della gens romana. Vi si piange anche l’inganno ordito ad Achille, che, indotto con frode a partecipare alla guerra di Troia, abbandonò la sposa Deidamìa, che ancora se ne duole. Infine è punito l’atto sacrilego e profanatore, con cui venne portata via la statua di Pàllade (Minerva), che, presente in un tempio di Troia, garantiva la resistenza e la non caduta della città. Erano, come si vede, tutti fatti largamente noti, che a Dante non dicevano nulla in più di quello che dicevano agli altri uomini, compresi i suoi lettori. Ma a lui interessa dare ben altro, cioè ben altro insegnamento, che vada ben oltre il mito. Erano, quelli di Dante, tempi fortemente segnati dalla dottrina cattolica, dalla teologia e dalla fede. Quei fatti mitologici non davano alcuna risposta a problematiche che interessavano e assillavano la società medievale, sempre divisa fra il cielo e la terra e sempre proiettata verso il cielo, dove era l’Onnipotente. Anzi, la mitologia poteva essere fuorviante rispetto alla dottrina cattolica, inducendo all’errore, se non al peccato. Lo dirà il Manzoni oltre cinque secoli dopo. Il peccato di Ulisse, ma non di Diomede, fu ben altro, secondo Dante, e ben più grave di quel che dice il mito. Non per niente è lui a parlare. Nel Medioevo correva voce che, non avendo mai raggiunto Itaca, la sua morte fosse avvenuta lontano dalla sua patria. Dante vorrebbe chiedere quanto di vero c’era in quel medievale racconto della sua morte, che alterava completamente l’immagine dell’uomo esemplare, dedito ai valori della casa e della famiglia. La domanda è abbastanza delicata e, si direbbe, insinuante. E’ per questo che Virgilio gli dice che è meglio che a parlare sia lui. Infatti Diomede e Ulisse, per essere dei greci, sono piuttosto “schivi”, cioè diffidenti. Molto si è discusso su questo passaggio e sul perché Virgilio impedisca a Dante di parlare, in considerazione del fatto che, davanti, gli stanno dei greci. Molto ingenuamente, se non superficialmente, si è voluto credere che Dante non potesse e non dovesse parlare, perché non conosceva il greco. In realtà ai poeti non serve una identità di lingua per mettere a confronto due personaggi di estrazione, cultura e lingua diversa. Quello che, invece, Virgilio vuol mettere in rilievo è la natura dei Greci. Forse lui stesso, latino, era influenzato dalla dominante opinione circolante in Roma, secondo cui i Greci erano sempre e comunque inaffidabili. Era stato lui, Virgilio, nell’Eneide, a far dire al sacerdote Laocoonte: “Timeo Danaos et dona ferentes” (“Temo i Greci anche quando portano doni”). E’ anche vero, peraltro, che Virgilio aveva in pieno adottato e accettato il programma di Augusto, che sanciva e sosteneva la superiorità della cultura occidental-italica rispetto a quella oriental-greca. Come altre volte, invece, anche in questo caso, i dannati vanno trattati con le loro stesse armi o arti. Infatti, molto subdolamente, Virgilio cattura la fiducia e la benevolenza dei due dannati, presentandosi come colui che, nell’Eneide, a lungo parlò della loro imprese e li rese famosi: “O voi – dice – che siete due dentro ad un foco, / s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, / s’io meritai di voi assai o poco // quando nel mondo li alti versi scrissi, / non vi movete; ma l’un di voi dica / dove, per lui, perduto a morir gissi” (Inferno, XXVI, vv. 79-84).
E’ un tasto cui i due dannati, eroi, sono sensibili. E poiché la domanda riguarda il “perduto” Ulisse, è questi a rispondere. E comincia il suo racconto, partendo da Circe e percorrendo a grandi linee il viaggio che l’avrebbe dannato. Interessante è, nel racconto, anche l’ammissione di una certa forma di colpevolezza e di irresponsabilità. Ulisse è uomo intelligente; sa, ora, di aver fatto cosa che non avrebbe dovuto, ancorché se ne giustifichi con la legittima sete del sapere. In fondo, ammette di aver ecceduto. Meglio avrebbe fatto a dirigersi verso casa e verso la sua famiglia. E lo dice quando ammette che, sulla sua sete di sapere non vinsero, come avrebbe dovuto essere, “né dolcezza di figlio, né la pieta /del vecchio padre, né debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta” (Inferno, XXVI, vv. 94-96)). Insomma, si tratta di un Ulisse assai diverso dall’Ulisse che, nell’Odissea, si era fatto legare all’albero della nave, perché non cedesse al richiamo delle Sirene. In forma di quasi giustificazione e autoassoluzione, tuttavia, ci tiene a dire che i compagni di viaggio, dopo tante decimazioni, erano ormai ridotti a pochi e tutti vecchi. Vecchio era lui stesso. Non c’era più tempo da perdere per tentare la grande avventura della conoscenza, anche oltre lo stretto di Gibilterra, dove Ercole aveva posto i confini del mondo, così vietando di andare oltre, verso l’avventura dell’Oceano. Fervido e appassionato, perciò, fu il discorso, famosissimo, che egli tenne ai suoi compagni: ”O frati – disse – che per cento milia / perigli siete giunti a l’occidente, / a questa tanto piccola vigilia // d’i nostri sensi ch’è del rimanente / non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo senza gente. // Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” (Inferno, XXVI, vv. 112-120) Ulisse ha chiara la missione dell’uomo. E in ciò si incontra con Dante. Quello che ha dimenticato, o non sa, è che la conoscenza, e quindi la ricerca, è lecita solo se unita alla virtù. Si vuol dire che, dal punto di vista di Dante, l’uomo è a due dimensioni. In lui esiste l’intelligenza ed esiste il cuore; esiste il corpo ed esiste l’anima; esiste la curiosità o funzione della mente, ed esiste l’etica o funzione della volontà. I due momenti, o aspetti della natura umana, però, non possono e non debbono essere separati. Da buon cattolico, Dante ritiene che non ha valore e senso l’intellettualismo etico, di ascendenza socratica. La vita e l’Inferno gli avevano più volte dimostrato che uomini di alta intelligenza possono sbagliare e sbagliano. Lui stesso, del resto, aveva avuto la sua deviazione intellettuale, correndo dietro alla filosofia averroistica. E aveva perso Beatrice. E’ per questo che sta facendo il suo viaggio ultraterreno, dietro la guida di Virgilio, che non è intelligenza fine a sé stessa, ma saggezza, o meglio, è “maestro e autore” nello stesso tempo. Che se proprio l’uomo deve scegliere sul suo destino, è meglio che scelga la virtute. E’ vero, infatti, che molti uomini dotti son finiti all’Inferno, così come è vero che molti uomini semplici, senza cultura, sono finiti in Paradiso. Notevole è il caso di Brunetto Latini. Ulisse stesso, pur ammettendo che la conoscenza deve accompagnarsi alla virtù, non riesce a porre un freno alla sua curiosità. Come capita a tutti i peccatori, anche in Ulisse si registra la sconfitta e la perdita del “ben” dell’intelletto, a favore del “talento”, cioè dell’istinto, quale che sia. Accade perciò che, appena la sua nave attraversa lo stretto di Gibilterra, da quel momento il suo viaggio diventa “folle”, significativamente andando sempre verso sinistra. Come aveva violato i limiti della terra, così, presuntuosamente, Ulisse aveva violato i limiti stabiliti alla natura umana. II monito è chiaro. Nella filosofia di Dante, che è anche quella di San Tommaso e di tutta la cultura cattolica, anche attuale, l’intelligenza non può presumere di indagare su questioni che sono materia di fede. La coscienza medievale si acquietava di fronte a tale concezione del mondo e dell’uomo. Riteneva, cioè, che esistono verità che non sono irrazionali, ma semplicemente soprarazionali, cioè vere, pur se non indagabili con l’intelligenza umana. Ulisse riconosce tranquillamente il suo errore. A cose avvenute, ne prende atto e si rassegna sotto quel mare che, violato, si era fatto tempestoso fino ad “acquietarsi” nella punizione inferta. Sommersa la nave, il mare si richiuse su sé stesso, tranquillo, come se niente fosse successo. Il dramma, invece, storicamente, scoppierà in tempi in cui ci sarà la nascita della scienza e del pensiero scientifico autonomo, con uomini quali Galilei, Bacone, Copernico e Newton. Gli scienziati, non accettando limiti, e rivendicando l’autonomia della scienza e della ricerca, sarebbero stati processati e comunque perseguitati. Oggi, certo, nei termini di fede e ragione, sotto il profilo intellettuale, il problema è superato. Non è però superato il problema morale, ricomparendo in termini angoscianti, e non solo drammatici, in tempi recenti. Ogni giorno, per esempio, ci si domanda fino a che punto è lecita la clonazione e fino a che punto sono lecite le alterazioni della cellule. Grossi quesiti e dubbi pone la fecondazione artificiale, eterologa o omologa che sia. Ci si chiede, ancora, se l’uomo possa fabbricarsi un figlio secondo i suoi desideri. Piace, in questo contesto, pensare al dramma vissuto da Ettore Maiorana che, avendo scoperto di avere tra la mani una energia capace di distruggere il mondo, sarebbe stato preso dalla paura, fino a distruggere tutto e persino sé stesso, Che questo, poi, sia vero o non sia vero, non ha importanza. Importa sapere quale sconvolgimento può derivare all’umanità, quando l’intelligenza sia scissa dalla morale. E’ la deriva cui è andato incontro Ulisse. Saperlo può indurre a rinunziare alla ricerca. Ma così non dev’essere. Il segreto è sempre e solo nella virtù. Si vuol dire che, sempre, prima deve venire il cuore e poi l’intelligenza, prima l’etica e poi la scienza.

Giovanni Caserta

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