In tempi recenti, la riacutizzazione più o meno improvvisa degli odi razziali e delle differenze etniche ha portato non poche istituzioni educative e culturali ad affrontare, a più riprese, il tema della cosiddetta intercultura. Generalmente i progetti finalizzati, se nati in concomitanza con alcuni fatti di cronaca, non sortiscono, almeno per l’immediato, alcun effetto, perché vengono pregiudizialmente guardati come fatti strumentali. Forse sarebbe meglio pensare a fare, anziché intercultura, più semplicemente cultura, la quale, quando è autentica, non ignora un principio fondamentale, qual è quello della assoluta inesistenza dell’autosufficienza. Si vuol dire che l’uomo di cultura, se è veramente tale, e quindi non è presuntuoso, non può non riconoscere, con Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca e tutti i grandi dell’umanità, che si è sempre tributari, quanto al nostro sapere, a qualcun altro, anzi a tutti. Basterebbe leggere tutti i filosofi autentici; e basterebbe leggere i migliori poeti, i quali, per il semplice fatto di essere interpreti dell’umanità tutta e dei suoi bisogni, riescono ad abbattere e superare qualsiasi barriera di ordine ideologico e razziale. Basti leggere Dante, che, uomo del Medioevo, e quindi sicuramente allineato a difesa della religione cattolica, seppe sempre rivolgere il suo sguardo critico all’interno della sua fede, così come seppe sempre apprezzare l’amore della ricerca negli altri, anche quando essi fossero nemici della Chiesa. L’importante era che ci fosse, da un lato, onestà intellettuale nella professione delle proprie idee e, dall’altro, coerenza etica con le idee professate.
E si potrebbe cominciare dal Limbo, in cui è collocata una lunga galleria di uomini pagani, i quali, pur essendo rimasti al di qua del cristianesimo, tuttavia meritarono e meritano il rispetto venerando della stessa cristianità. Anzi, l’inserimento successivo di Dante nel gruppo di Omero, Virgilio, Orazio, Lucano e Ovidio, sicché egli diventa “sesto tra cotanto senno” (Inferno, IV,102), può assumere il valore simbolico di una umanità cristiana che si inserisce, in un rapporto di continuità, nel mondo antico. Tuttavia, ben altro significato e interesse ha, sul piano della intercultura e della tolleranza, il rispetto che Dante ha non solo per quegli uomini che cronologicamente precedettero il cristianesimo, ma soprattutto per quelli che al cattolicesimo si opposero addirittura, combattendolo. Sempre nel Limbo, non c’è meraviglia che ci sia Aristotele, il quale, avendo offerto la sua filosofia a San Tommaso, merita il posto che ha e la definizione di “maestro di color che sanno”(Inferno, IV,131); ma suscita ammirata e commossa sorpresa il fatto che, nella cerchia dei filosofi vicini ad Aristotele, ci sia nientemeno che Averroè, se, come probabilmente è vero, proprio alla lettura di Averroè e alla sua interpretazione naturalistica di Aristotele fu dovuta la crisi di Dante e il suo conseguente smarrimento nella selva oscura. In tale smarrimento, com’è noto, fu coinvolto anche l’amico fraterno di Dante, cioè quel Guido Cavalcanti, che Dante condannò all’esilio nel supremo interesse della patria e che, nella Divina Commedia, sembra addirittura destinato alla dannazione eterna, quale eretico (Inferno, X, 62). Con grande apertura mentale, insomma, il poeta non distingue tra amici e nemici; né è disposto a credere che gli errori e gli smarrimenti morali dei discepoli possano attribuirsi ai maestri, che, dal loro canto, hanno il solo dovere della onestà intellettuale. Proprio seguendo tale criterio, e rovesciandolo, il poeta poté condannare sul piano morale il suo maestro Brunetto Latini, subito riscattandolo, però, nel suo ruolo di educatore e come disinteressato ricercatore della verità. Ognuno risponde solo di sé stesso e dei suoi comportamenti. Nello stesso Limbo, accanto ad Aristotele, Platone, Socrate e Averroè, c’è anche un altro grande uomo, ancorché di religione diversa e anzi, nel Medioevo, fieramente avverso al cattolicesimo. Si tratta del Saladino, muto e dignitoso, ormai consapevole della sua diversità. Dante usa per lui un verso solenne, di gran rispetto (“E solo, in parte, vidi ‘l Saladino”, Inferno, IV, 129), che sigla magnificamente tutta la rassegna degli “spiriti magni”.
L’episodio del Saladino sembra anticipare canti non meno significativi riguardo allo spirito di tolleranza di Dante e alla sua apertura e comprensione verso gli errori altrui, i quali non sono mai tali – avrebbe detto il Manzoni – da non contenere una loro porzione di verità, così come, del resto, non ci sono mai verità o interpretazioni di essa, che non abbiano la loro porzione di errore. Nella cantica del Purgatorio, rompendo violentemente con tutti i pregiudizi, Dante avrebbe collocato, tra gli spiriti destinati al perdono finale di Dio, e quindi alla salvezza eterna, nientemeno che il re Manfredi, storico e indomabile avversario della Chiesa, di parte sveva, nonostante che fosse morto in stato di scomunica da parte del papa. E’ come dire che nemmeno la scomunica del Sommo Pontefice è tale da potersi accettare come una condanna definitiva, poiché c’è sempre qualcuno che è più tollerante del papa. Ed è Dio. Per la maledizione dei papi, infatti, “sì non si perde / che non possa tornar l’etterno amore / mentre che la speranza ha fior del verde”(Purgatorio, III, 133-135).
Stessa operazione coraggiosa Dante avrebbe compiuto nel Paradiso, III,1O9-120, e precisamente nel cielo della Luna, collocando fra i beati la nonna di Manfredi, cioè l’imperatrice Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI, di cui nel Medioevo si favoleggiavano cose orribili, allo scopo di spiegare e giustificare perché mai, dal suo grembo, fosse nato un “mostro” di errori e di peccati, quale fu Federico II. Anche in tal caso, insomma, Dante rompe con i luoghi comuni e la faziosità di parte, meritandosi, lentamente, quella presunzione di condanna all’Inferno, cui lo destinavano, subito dopo la sua morte, alcune autorità della Chiesa. Infine si potrebbe ricordare, sempre nel Paradiso, la condizione del cielo del Sole, ove Dante celebra proprio la sapienza, cioè la ricerca pura della verità e la cultura. Non per nulla gli spiriti, nel cielo del Sole, si presentano in cerchio, ruotanti e danzanti intorno a Beatrice, che rappresenta la fede, e quindi la verità. In quello stesso canto Dante colloca contemporaneamente, l’una dentro l’altra, una corona di spiriti francescani e una corona di spiriti domenicani, superando d’un colpo le antiche e lunghe rivalità, che fra i due ordini – intesi in senso lato – si erano creati. Il superamento avviene, considerando innanzitutto l’obiettivo comune che i due ordini ebbero, avendo ambedue operato nell’intento di “mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno”(Paradiso, XI,119-120).
E fin qui tutto era abbastanza semplice; ma non altrettanto facile era riconoscere i meriti dei propri avversari e, nello stesso tempo, riconoscere i demeriti propri. E’ quanto hanno la forza di fare San Tommaso e San Bonaventura. Il primo, infatti, dopo aver tessuto gli elogi di San Francesco, non manca, guardando all’interno dei domenicani, di notarne i tralignamenti; e San Bonaventura, tessuti gli elogi del rivale San Domenico, si ripiega umilmente a sottolineare i difetti dei suoi compagni francescani. Ma c’è di più. Come sanno anche i più modesti studenti liceali, tra gli spiriti dotti di ispirazione domenicana, e proprio accanto a San Tommaso, Dante colloca, addirittura, Sigieri di Brabante, filosofo averroista che, sulla terra, fu decisamente avverso a San Tommaso e da lui violentemente attaccato come eterodosso, se non eretico; ma Dante non solo lo colloca a fianco a San Tommaso, compiendo, già per questo, un atto di eccezionale coraggio, ma va ben oltre, facendo dire di lui, e proprio da San Tommaso, che “sillogizzò invidiosi veri” (Paradiso, X, 138). Stessa operazione il poeta compie poco dopo con i francescani, quando, accanto a San Bonaventura colloca un altro accanito avversario dei francescani stessi, attaccato costantemente da loro. Si vuol intendere di quel Gioacchino da Fiore, del quale si dice, addirittura, che fu “di spirito profetico dotato”(Paradiso, XII,141).
Certo, nella assegnazione della beatitudine eterna, Dante non poteva prescindere da un principio irrinunciabile della fede cattolica medievale, che sanciva come la fede stessa fosse la condizione ineludibile della “salvazione”. Perciò, dei grandi spiriti vissuti prima di Cristo, e senza battesimo, egli non poté far nulla di più, se non collocarli nel Limbo (compreso il suo caro Virgilio). E quando volle salvare l’imperatore Traiano, immaginò, secondo una leggenda medievale, che egli era tornato a reincarnarsi e a rivivere sulla terra, ricevendo, per fortuna, quel battesimo, che è la “porta della fede che Dante crede “(Inferno, IV, 36). Pure, però, la sua coscienza di uomo nuovo, già aperto ad alte soluzioni di tolleranza e di comprensione per le “verità” altrui, non poteva accettare una divisione, che era anche una discriminazione pregiudiziale. Che colpa aveva mai un Indo o un Etìope, se dalle parti sue non era mai giunta notizia della nascita e della morte di Cristo, o dell’esistenza di un Dio uno e trino? Non si è mai ben capito il senso e il significato vero del cosiddetto Giudizio Universale, in cui ogni spirito udirà “quel che in eterno rimbomba”(Inferno, VI,99). Forse che non è definitiva la condanna dei peccatori infernali, quali Ciacco, Paolo, Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Capaneo e tutti gli altri numerosi fraudolenti e traditori, di cui appare piena la sacca dell’Inferno, al passaggio di Dante? Forse che saremo sottoposti a due giudizi, uno dopo la morte e l’altro in occasione del Giudizio Universale, alla fine del mondo? Al Giudizio Universale, probabilmente, Dante affidava il compito di correggere, in via definitiva, e a storia conchiusa, le parzialità e le divisioni che la storia crea, riscattando, al di là della Fede, tutti gli uomini di “buona fede”, che, indipendentemente dagli errori ideologici che avevano potuto compiere, e indipendentemente dalla appartenenza alla Chiesa cattolica, apostolica e romana, avevano cercato onestamente la verità, vivendo coerentemente con essa.
E’ una questione di suprema giustizia, che Dante proclama proprio nel cielo del Paradiso, quello di Giove, riservato agli spiriti giusti per eccellenza, là dove l’aquila, parlando della salvezza eterna, distribuisce beatitudine e dannazione secondo più elevati criteri di equità. La divisione definitiva, insomma, all’atto del Giudizio Universale, non poteva e non doveva più passare attraverso le divisioni ideologiche, che sono sempre legate alle vicende contingenti, storiche e geografiche, ma doveva avvenire sulla base dei principi della coerenza etica, che sono universali ed eterni. Non si capisce – ritiene Dante – perché non debba salvarsi l’Etìope, che non ha mai sentito parlare di Gesù ed è stato buono, e debba salvarsi invece il cristiano, solo perché è stato battezzato. “A questo regno / – dice infatti l’aquila imperiale – non salì mai chi non credette in Cristo, / né prima né poi ch’el si chiavasse al legno. / Ma vedi: molti gridano ‘Cristo, Cristo!’ / che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo; / e tai Cristiani dannerà l’Etiope: / quando si partiranno i due collegi, / l’uno in eterno ricco e l’altro inope” (Paradiso, XIX, 1O3-111). Dove è significativo l’uso e lo stacco netto tra il passato e il futuro, tra il prima e il dopo Giudizio Universale. In definitiva, è bene non essere precipitosi nel giudicare gli altri e nel pronunciare condanne affrettate, “sì come quei che stima / le biade in campo pria che sien mature; / ch’io ho veduto – dice Dante – tutto il verno prima / lo prun mostrarsi rigido e feroce, / poscia portar la rosa in su la cima… / Non creda donna Berta e ser Martino, / per vedere un furare, altro offerere, / vederli dentro al consiglio divino; / ché quel può surgere, e quel può cadere” (Paradiso, XIII,131-142). Che è una bella lezione di umiltà e apertura alle ragioni e alle speranze altrui.
Giovanni Caserta