Quattro anni fa ho letto un libro molto importante di Concita de Gregorio, Così è la vita – Imparare a dirsi addio, nel quale ho trovato un “impegno etico” da tenere in seria considerazione, come mi auspicavo, per le scuole. La De Gregorio sa andare dritta all’essenziale, non copre e non abbellisce ciò che racconta, anzi ne svela le scaturigini e le conseguenze con implacabile “senso del dovere”, come avrebbe detto Fiodor Dostojevkij. Anche in Mi sa che fuori è primavera, romanzo ispirato da una storia vera, avverto lo stesso senso del dovere, il piacere di raccontare arricchito sempre dal piacere di trasmettere messaggi salutari che possano andare a sgretolare nell’animo di ogni lettore le solidificazioni imposte dalle abitudini e dalle tradizioni radicate nella psiche. Qui si affronta l’Assenza, quel vuoto terribile e funesto che si crea quando le persone care scompaiono dal nostro orizzonte. Se poi le persone care sono due bambine, due figlie, Livia e Alessia, l’Assenza diventa una montagna invalicabile, un vuoto che non si riesce a riempire con nessuna cosa, perché tutto diventa inutilità, corsa senza un fine, ombra gigantesca che snerva dalle radici qualsiasi azione e perfino i pensieri. E’ come se le emozioni si fossero disperse in un alone di insipienza e non trovassero più ragioni per affermare la loro presenza. Ho letto da qualche parte che il limite di questo libro sarebbe la fonte, cioè l’essersi ispirato a un fatto di cronaca. L’obiezione non è soltanto irrilevante, ma perniciosa e fuorviante, perché da sempre la letteratura, la narrativa, di ogni epoca e di ogni Paese, ha spesso preso l’avvio dalla realtà. Si pensi soltanto, per restare in Italia, a Giovanni Boccaccio, a Masuccio Salernitano, a Giambattista Basile, a Verga, a Capuana, a Pirandello, ad Alvaro. L’elenco potrebbe essere infinito. Ma, come diceva Oscar Wilde, le opere riuscite, quelle che restano esempio da imitare e far fermentare in noi, non sono tali per il semplice contenuto, ma soprattutto per lo stile, per il linguaggio adoperato, per la forza con la quale vengono disegnate le psicologie, le ambientazioni, le tensioni ideali, le istanze umane e sociali. Lo stile di Concita De Gregorio ha il dono della presa diretta, come ho accennato, non si perde mai nei rituali marginali o nelle minuzie gratuite, va dritto alla sostanza del dettato e lo fa con partecipazione, come se le vicende appartenessero direttamente alla propria persona. Prova ne è Mi sa che fuori è primavera che non ha mai sapore di resoconto, di cronaca, di notizia. Questo modo di scrivere appartiene ai narratori di razza, a quelli che si sanno appropriare del mondo esterno e portarlo dentro fino a che, macerato e ricomposto, proprio come è descritto nel primo capitolo, Io e te, non trova la forma adeguata, la misura narrativa per sciogliersi in canto suadente, in nota di poesia: “ Vorrei che mi aiutassi, se puoi, a prendere le parole metterle in fila ricomporre tutti i pezzi che sento frantumati e dispersi in ogni angolo del corpo. Vorrei ricostruire i frammenti come si ripara un oggetto rotto, prenderlo in mano e portarlo fuori da me”. Non è casuale che Concita, prima di farci entrare nella storia di Irina, ci offra quei due splendidi magnifici versi di William B. Yeats: “ Ho steso i miei sogni sotto i tuoi piedi; / Cammina leggera perché cammini sui miei sogni”. Ma quasi dimenticavo di accennare alla vicenda che ha dato a Concita De Gregorio la possibilità di affrontare un tema così scottante e così tragico: il marito di Irina, Mathias, si suicida ma prima fa sparire le due figlie. La vita di lei si fa grigiore piatto, nero che serpeggia e grida da lontananze scomode e inarrivabili. Siamo dinanzi all’ineluttabile fatto toccare con mano, messo davanti a noi come un peso che logora e ci pone dentro il deserto. Sì, la stessa ineluttabilità davanti alla quale Leone Tolstoi ci mette in Sonata a Kreutzer. Non è poco, e non è poco che dalle macerie rinasca l’amore, perché “Bisogna fare pace col destino, qualunque cosa esso sia”. O, come ha scritto Bella Achmadulina, “la vita è un’abitudine, viverla qualunque cosa ti succeda”.
Dante Maffia