Il passaggio dal settimo all’ottavo cerchio non è nelle facoltà umane. A separare le due zone, infatti, c’è il “gran burrato”, un vero e proprio strapiombo, sul cui fondo pullulano folle di dannati, distribuiti in dieci bolge o borse. E’ il precipizio che porta l’uomo dalla matta bestialità alla frode, cioè al male fatto con intenzioni e volontà. Per poter scendere in quel burrato, si rende necessario un vero e proprio volo, garantito da Gerione, un mostro che, avendo la testa di buon uomo, il corpo di serpente e una coda biforcuta, sta ben a rappresentare il peccato della frode. Poiché non c’è da fidarsi dell’aspetto bonario del suo viso, Virgilio monta per primo, ponendosi fra Dante e la coda, sì che questa “non possa far male” (Inferno, XVII, v. 84).
Comincia quindi il volo del mostro, che è un lento planare verso il fondo. Forse è la prima descrizione di volo prima della invenzione dell’aereo. Si vuol dire che Dante non ha nessuna esperienza diretta delle sensazioni che il volo suscita. E’ perciò sorprendente la precisione con cui, uno dopo l’altro, annota i particolari del “viaggio”, che è un lento planare per cerchi. Non essendoci riferimenti di oggetti e di paesaggio “fuor che de la fera” (Inferno, XVII, v. 114), del movimento ci si accorge solo perché al viso e alle gambe arriva vento. Guardando giù, in senso contrario al movimento del mostro, per moto apparente si vedono ruotare le dieci bolge e i dannati.
Scaricati dal mostro, Dante e Virgilio cominciano l’attraversamento delle dieci bolge, su ognuna delle quali si leva un ponte, dalla cui sommità si può guardare la schiera che vi giace o che vi passa. Le prime due bolge sono destinate ai seduttori e agli adulatori. Con i seduttori, come affini, in marcia contraria e nella stessa bolgia, girano i ruffiani. Al loro passaggio schiere di demoni si accaniscono con frustate. Essi, che sedussero, “secum duxerunt”, qui sono spinti.
Nella seconda bolgia ci sono gli adulatori, che, come in terra si umiliarono e si avvilirono nel fare servili e ipocriti elogi di altri, così ora sono immersi in sterco umano. Si passa quindi alla terza bolgia, in cui il furore politico e morale di Dante si esprime con forza particolarmente violenta. Ci si trova, infatti, di fronte ai simoniaci, cioè di fronte a coloro che fecero mercato delle cose sacre. Come facilmente si può comprendere, è luogo largamente riservato ad autorità ecclesiastiche, quali papi e cardinali. Sono detti simoniaci, in ricordo di Simone, mago che, a leggere gli Atti degli Apostoli, chiese di poter comprare, con denaro, la facoltà di imporre con le mani, ai battezzati, lo Spirito Santo. Si tratta, dunque, di un peccato di straordinaria gravità, tanto più che, a praticarlo, sono, per lo più, quegli uomini che dovrebbero vigilare ed impedirlo. Dante, perciò, già nell’avvio del canto, è di un virulenta solennità. Di quei peccatori non fa descrizione o denuncia, ma suona il bando, come si usava fare, a quel tempo, nei Comuni, quando, ad alta voce, per le strade e i quartieri, si annunziavano grandi eventi, fausti e infausti. Lo strumento usato era la tromba. Quanto alla natura del peccato, esso è paragonato ad uno sporco adulterio. E “miseri” sono detti i peccatori. Perciò, che la punizione sia fra le più degradanti che si possano immaginare, è segno di somma sapienza divina. Nel luogo dei simoniaci, peraltro, l’occasione è anche buona per liberarsi di una falsa denuncia di profanazione, di cui Dante fu oggetto da parte di suoi avversari, essendo stato accusato di aver rotto un fonte battesimale, vuoi per sfregio, vuoi per rabbia. E invece tutto era accaduto per salvare uno che vi annegava. Notevole è anche il fatto che, per rendere chiara e vera l’immagine del luogo e del modo di punizione, Dante faccia, al solito, riferimento alla sua Firenze e a luoghi reali e ben conosciuti.
Aveva, infatti, immediatamente notato che il fondo e le ripe della bolgia erano coperti di buche o pozzetti, in tutto simili ai “battezzatori” di San Giovanni, in cui si battezzavano i bambini. Ma c’era una novità. “Fuor de la bocca a ciascun soperchiava / d’un peccator li piedi e de le gambe / infino al grosso, e l’altro dentro stava” (Inferno, XIX, vv. 22-24). Come se questa novità non bastasse, si notò anche che le piante dei piedi di quei peccatori, così conficcati testa in giù, erano lambiti da fiamme che ricordavano le fiamme che si muovono sulle superfici unte. Che non fossero fiamme indolori, lo dimostravano le gambe dei dannati, che guizzavano e si agitavano violentemente, tanto che avrebbero potuto rompere solide funi. Tra gli altri, come sempre accade, c’era un dannato che, stando al movimento delle gambe, sembrava soffrire più degli altri. La curiosità di Dante è troppa perché Virgilio, cioè la ragione, si rifiuti di fargli vedere le cose da vicino e tirare il dovuto insegnamento. Così è successo con Ciacco, con Farinata, con Pier delle Vigne, con Paolo e Francesca. E così sì succederà sempre. Sa, tuttavia, che l’impatto, questa volta, potrebbe avere conseguenze imprevedibili, tanta e tale è la natura del peccato, che riguarda nientemeno che il magistero della Chiesa, i suoi precetti e le inqualificabili deviazioni dei papi, rappresentanti di Cristo in terra. Ne potrebbe derivare una sorta di disgusto, che potrebbe portare all’allontanamento dalla fede. Così, forse, si potrebbe spiegare la richiesta, da parte di Virgilio, della disponibilità del discepolo a scendere liggiù. Ve lo porterà, solo se lo vuole. E Dante, a sua volta, non fa che affidarsi alla saggezza del maestro. Decida lui, che non può non volere il suo bene. “Tanto m’è bel – dice – quanto a te piace: / tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto / dal tuo volere e sai quel che si tace” (Inferno, XIX, vv. 37-39).
Particolare molto interessante è che Virgilio porta di peso Dante. Si vuol dire che lo porta in braccio, certamente per la difficoltà di un corpo pesante, qual è quello di Dante, a percorrere la ripa scoscesa, ma certamente anche con intento allegorico, trattandosi di un incontro importante, rispetto al quale non si può commettere distrazione o improvvisazione. Dante, infatti, viene direttamente posto a contatto con l’anima dannata, anche quando si è nel piano e il cammino si fa agevole. “Lo buon maestro – racconta Dante – ancor de la sua anca / non mi dipuose, sì mi giunse al rotto / di quel che sì piangeva con la zanca” (Inferno, XIX, vv. 43-45). Virgilio, cioè, ha collocato Dante nella posizione che è ritenuta giusta, cioè in piedi, ritto di fronte al dannato, verso il quale può assumere un atteggiamento dominante, moralmente e fisicamente simile a quella di un confessore (Inferno, XIX, v. 49). Del resto, con vigore e con iattanza si esprime Dante, pur non sapendo ancora chi sia il peccatore. Lo ha aiutato in ciò il comportamento netto e deciso di Virgilio. E’ quasi offensivo Dante, quando paragona l’anima ad un palo e dice, sprezzantemente, che “ il di su tien di sotto”. Precedentemente aveva parlato di “anca”, a proposito di Virgilio, e di “zanca” a proposito del peccatore. Quindi arriva l’ invito imperativo (Inferno, XIX, v. 48): “Se puoi”, cioè se Dio te lo permette, ,” fa motto”. Il riferimento, in altre parole, è solo alla possibilità o impossibilità. Nessun appello e nessun rispetto per la libera volontà.
La risposta del dannato non è meno perentoria, se non rabbiosa. Anziché chiedere, a sua volta, chi sia il visitatore, presumendo che è arrivato il dannato che, spingendolo in giù, lo sostituirà in quella brutta posizione, quasi con un pizzico di godimento sadico, essendo quello arrivato in inaspettato anticipo, così gli “grida”: “Se’ tu già costì ritto, / se’ già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto” (Inferno, XIX, vv. 52-54). Quindi, incalzando, come se il peccato riguardasse l’altro e non lui, gli dice, in tono di rimbrotto e con cattiveria: “Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio / per lo qual non temesti torre a ‘nganno / la bella donna, e poi di farne strazio?” (Inferno, XIX, vv. 55-57). Dante non capisce. Non ha capito nemmeno il dannato, che altri non è se non papa Niccolò III, che regnòe dal 1277 al 1280. Avendo egli, come tutti i peccatori dell’Inferno, la percezione del futuro, aveva previsto che, dopo di lui, macchiato dello stesso peccato, sarebbe arrivato papa Bonifacio VIII, tanto odiato da Dante e suo nemico. Le previsioni, però, dicevano che sarebbe arrivato il 1303, anno della sua morte. Poiché il viaggio di Dante è dato per avvenuto nel 1300, papa Niccolò III ha creduto che il suo compagno di peccato e di pena sia arrivato con un anticipo di tre anni, già sazio di danaro e di commercio delle cose sacre.
Ancora una volta Virgilio gioca sulla sorpresa, così come ha fatto con Pier delle Vigne. Non dice il nome del dannato, ma fa in modo che a scoprirlo sia Dante. Questi, infatti, dichiara di non essere lo spirito atteso, cioè di non essere Bonifacio VIII. “Non son colui – dice -, non son colui che credi” (Inferno, XIX, v. 62). E l’anima dannata, delusa, risentita e indispettita per essersi ingannata fino al punto di dire cose che non avrebbe voluto dire, letteralmente vomita tutte le notizie che può dare. E quelle notizie dà senza pudore, quasi con ostentazione e spregiudicatezza. Confessa di essere stato un papa. Che se poi il nuovo venuto vuol saper perché si trova lì, non ha difficoltà a dirglielo e a qualificarsi per papa della nobile famiglia Orsini: “ Veramente – dice – fui figliuol de l’orsa, / cupido sì per avanzar li orsatti, / che su l’avere, e qui me misi in borsa” (Inferno, XIX, vv. 70-72).
Il linguaggio di Niccolò III, pur papa e dotto, come si vede, è persino rude, ancorché si riferisca a sé stesso. Non che si possa pensare ad un suo ravvedimento o pentimento, impossibile nell’Inferno. Tutto è scaturito dal fatto che ha dovuto fare una inconsapevole ammissione su Bonifacio VIII e sul suo peccato di simonia. Non ha più motivo di nascondersi e nascondere i le proprie colpe. Una forma di autodifesa e autogiustificazione si può trovare solo nel fatto che non è l’unico papa ad aver esercitato il peccato di simonia, ché, anzi, altri, e in forma ben più grave, l’hanno esercitato. Subito dopo Bonifacio VIII, infatti, nel 1314, sarebbe arrivato altro papa, Clemente V, straniero, che, responsabile di aver trasferito la sede papale da Roma ad Avignone, a parere di Dante, e non solo di Dante, segnò il culmine della decadenza e della svendita del potere ecclesiastico e della Chiesa stessa. Parlando di lui, Niccolò III lo dice “pastor sanza legge”, macchiato “di più laida opra”, che, arrivando dopo Bonifacio VIII, coprirà Bonifacio VIII e Niccolò III, ad indicare una colpa che è più della somma delle colpe dei due che l’hanno preceduto.
Che Niccolò III abbia ammesso le sue colpe, anche con un pizzico di sfrontatezza, non è motivo perché Dante si trattenga dall’incalzare e dal muovere accuse con ferocia, tanto da avere egli stesso il dubbio di aver esagerato e di aver mancato di rispetto ad una così alta autorità ecclesiastica. L’accusa a Niccolò III non è diretta, perché vuol indurre ad una considerazione e riflessione obiettiva. Facendo infatti riferimento a uomini che fecero grande la Chiesa col loro sacrificio, se non col martirio, chiede, in forma retorica, quanto pretese Cristo allorquando concesse l’autorità delle chiavi a San Pietro; né san Pietro né gli altri apostoli chiesero denaro a Mattia, quando lo assunsero al posto di Giuda. Perciò non ci può essere pietà per chi ha rischiato di disfare quello che altri hanno costruito, anche col sangue. Se ne stia, dunque, sottoposto a sì forte tormento, papa Niccolò III, visto che, con la sua avarizia, ha appuzzato il mondo, calpestando i buoni ed esaltando i cattivi (Inferno, XIX, vv. 104-105). Ché anzi ben altre parole Niccolò III meriterebbe, se non fosse che, bene o male, fu anche uno che tenne le chiavi di san Pietro.
Donde poi derivi tanta degenerazione nella Chiesa, Dante lo sa. Purtroppo – come ha ripetuto più volte – si è voluta confondere la spada col pastorale, ovvero contaminare il poter temporale con quello spirituale. Ne è derivato che anche la Chiesa ormai puttaneggia, vendendo onori e amori. Si potrebbe dire che tutto è cominciato con la donazione di Costantino, che, guarito dalla peste, convertitosi, a papa Silvestro I assegnò la parte occidentale dell’Impero, facendo cosa indebita e illegittima. Dante, come è noto, non sapeva che l’atto di donazione di Costantino era un falso appositamente costruito per legittimare il potere temporale dei papi. Ma gli basta il rigore morale, per confutarlo e respingerlo. E il rimprovero non è solo un rimprovero. Dante non parlò, ma, come egli stesso dice al verso 117, a Niccolò gliele “cantò”. Non aveva detto che avrebbe usato la tromba? Non poteva, naturalmente, non ottenere il plauso di Virgilio, che quell’incontro aveva a voluto e a quell’incontro lo aveva accompagnato. Il dannato ne risente. Infatti, “o ira o coscienza che ‘l mordesse / forte spingava con ambo le piote” (Inferno, XIX, vv. 119-120). Dal suo canto, Virgilio, simbolo della ragione che vede dritto, solleva Dante fra le braccia, soddisfatto delle cose da lui dette. “Soavemente” lo ripotò in cima al ponte, fuor della bolgia, e “soavemente” lo posò a terra, pronto al resto del difficile cammino. In fondo alla bolgia, intanto, continuavano a bruciare le piante dei piedi di Niccolò III, che, per la legge del contrappasso, come non ebbe fiamme dello Spirito Santo a illuminargli il capo e la mente, così ha fiamme scottanti sulle piante dei piedi, giusta punizione per chi la religione aveva calpestato.
Si può dire che poche altre volte Dante sia stato così duro e irruente E se lo ha fatto è stato sempre quando si è toccato il tasto della corruzione della Chiesa, che dovrebbe fare da guida verso la giustizia in terra e verso la lieta beatitudine nell’aldi là. Lo farà persino in Paradiso, quando terribili parole metterà sulla bocca di San Pietro, primo papa, che lamenterà il fatto che della Roma, “cimiterio suo”, si sia fatta, dai suoi successori, una “cloaca del sangue e della puzza” (Paradiso, XXVII, vv.23-26). Certo anche l’Impero è colpevole. Ma è colpa di un potere che deve far rispettare le leggi dell’uomo e della terra. E non lo fa. Ben diverso è il caso della Chiesa, che deve far rispettare e rispettare le leggi di Dio.
Giovanni Caserta
(Da una Lectio Dantis tenuta per conto dell’UNITEP
– Università della Terza Età – ,
a Matera, in data 18 febbraio 2009)