Una poesia di Giuseppe Ligresti e di Gae Spes

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Quale primavera mi attende

Quale primavera mi attende
in questa aiuola desertica, in questa desolata terra,
su questo trespolo dove piamente affondo la mia fetta di culo.
Vivo, in questo podere, per metà fantastico,
tra queste stradine per metà pisciate dai cani,
tra le quisquiglie fraterne
che ammazzano se non il tempo
quantomeno l’asfissiante retorica quotidiana.
Vorrei di certo empirmi ancora il gozzo
e infradiciarlo di borgogna,
ma un istinto primordiale mi illumina,
rischierei di soffocare
se mi giungesse per ricordo un groppo in gola.
Questa primavera stinta, con le sue stinte sere,
darà tregua a questo spampanato ardore giovanile,
a questo affresco che troppo abbaglia e troppo inquieta.
Ai venditori di sogni, raccolti nella loro Giudecca,
ahimè, non chiederò più fortuna,
la cornucopia ha già troppo slabbrato,
sterco e mirtilli, sinuose Arpie.
Con questa rauca voce, la rauca voce dei defunti,
invoco il mio commiato,
per tutto il resto ho lasciato qualche verso,
tra gli orpelli, in una notte d’opale.

Giuseppe Ligresti

 

Qualcuno dice “Peccato Originale”

La fame e le sue guerre
non sono scritte dentro
il dono vegetale della terra,
nell’aria, nei mari, nella pioggia,
nella luce e nel buio del giorno.

C’è un uccidere “switch”,
a interruttore,
che scatta lesto digitato s’un congegno
o dall’immobile gesto d’un mandante.

Ce n’è poi uno, incrementale,
che si cumula,
lungo le vite, nel tempo, nello spazio
di molte genti distratte, o nell’oblio
di necessarie inconsapevolezze

– in breve, espanso in un lasso della storia –
con ogni comoda goccia,
in sé innocente,
dal rubinetto di un qualche privilegio.

Dove vediamo i pesi della nostra
complicità sapremo contentarci
di meno effimero e forse poi curarci
di quanto più in sostanza meritevole.

Gae Spes

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