“Insoliti sguardi” di Patrizia Pallotta, letto da Marco Onofrio

INSOLITI SGUARDI di Marco OnofrioInsoliti sguardi“, di Patrizia Pallotta (EdiLet, 2011, pp. 80, Euro 12) costituisce un punto fermo nel percorso di una crescita costante che – dopo gli “avvistamenti” di Assolo, 2008 – ha portato l’autrice a bordeggiare le coste della poesia metafisica, ovvero a trasformare la scrittura delle “poesie” nella composizione della “poesia”: passando così dal plurale episodico al singolare assoluto, la parola si precisa e fortifica nella sua capacità di contemplazione, di rappresentazione, di presa in carico e, al contempo, di oltranza conoscitiva del fenomeno. L’essenza a cui tende la visione è un fervore lucido che apre lo sguardo a una dimensione chimerica, di fuochi bianchi e fermi, di panorami lontani, di luci fumose e sospese, di acque remote del sogno, di ricordi che tornano, di presagi che attraversano, di opzioni indecidibili del senso. Il dominio più sicuro della fiamma contribuisce alla realizzazione di un clima di armonia generale, ma è un’armonia starei per dire “disarmonica”: sfuggente, strana, piena di inquietudini e brividi d’ombra. La poesia si propone qui a mo’ di specchio ustorio che riflette la totalità del visibile per proiettare, nell’estremo della concentrazione eidetica, i bagliori arcani dell’invisibile. La linea ondivaga delle parole diventa così cerniera tra reale e surreale:

Reale e surreale si baciano,
fanno strada al tesoro aureo
del fortino fatiscente…

Occorre trovare la trascendenza nella spazzatura: la perla che si cela in fondo al mare delle cose. Il “fortino fatiscente” della realtà caduca in cui passiamo, racchiude un “tesoro aureo” che spetta proprio alla poesia rivelarci, nella sua essenza di incrocio tra suono e visione, ovvero nell’incontro che annoda lo sguardo alla voce (e viceversa). Dal seme dello sguardo scaturisce la voce; che è, a sua volta, seme generatore di un nuovo sguardo.

Non conoscete
il canto interiore
di un uomo nato
privo della melodia
della parola?
(…)
Vorrebbe essere te donna,
dal tono armonioso,
o te eco che rimandi
ogni voce, o te vento
che fischi nel perimetro
delle finestre di quartiere.
(…)
È lo sguardo a intonare
la soave personale
canzone, che appartiene
solo a lui, al suo diverso
profondo essere a noi
ignoto.

Il problema primario del poeta è “farsi lo sguardo”, come il cantante la voce. La poesia è una dimensione dello sguardo da conquistare, da raggiungere all’interno di se stessi (prima che al di fuori). Per farsi nuovo lo sguardo occorre eliminare le incrostazioni e le velature che lo occludono. La metaforica degli occhi e dello sguardo emerge con frequenza insistita, e già da questo si capisce quanta importanza le dia l’autrice:

Pèrdono gli occhi
verginità;

Oppure:

Il colore fugge
dalle stanche pupille;

E ancora:

Gli occhi di vetro falso,
cadranno.

Ma il «miracolo / di una nuova visione» non avviene certamente, se ci si tiene al riparo dall’Ombra e dai segnali della profondità. Occorre evitare di rimuovere l’inquieto: la luce non trapela senza attraversare il muro numinoso della tenebra. L’operazione preliminare è, dunque, accettare l’imperfezione opaca del mondo: non nel senso di accordarsi al suo flusso energetico negativo, ma di prenderne atto con l’accoglienza prismatica della maturità.

Nell’immenso atlante
delle menzogne
si confondono regioni,
idiomi, costumi.
La scacchiera terrestre
non riconosce
il re, la regina,
il cavallo.
(…)

La parola poetica nasce come goccia distillata da un processo di macerazione interiore, di sedimentazione delle esperienze (soprattutto amare e delusorie). La voce poetica di Patrizia Pallotta si sviluppa sempre da un’attitudine rammemorante, di rivisitazione e riconsiderazione dei fatti accaduti, che la immerge nei

(…) dubbi irrisolti
partoriti dalla mente
affannata, in procinto
di riflettere, ripensare.

Il traguardo è, a quel punto, oltrepassare gli innumerevoli limiti impedienti per sintonizzarsi con la musica del pensiero, che gira tra le “costellazioni mentali”, ed esplorare le abissali profondità del silenzio, pieno di tutte le parole pronunciabili. Attraverso la dismisura del buio, del mancamento, del “non conoscersi”, ritrovare il bandolo della matassa, il filo di luce che sappia riannodarci alla realtà. L’habitat connaturale alla normalità di questa poesia è una soglia crepuscolare di mezzi toni, dove trascolorano i contorni delle cose: una specie di “radura” intermedia fra il chiarore aperto e il buio profondo. È qui che si raggiunge la dimensione strana dell’“incanto”, localizzata a livello di sensi, percezioni, facoltà intellettive.

Sono insoliti sguardi in cui mi perdo.

Perdersi significa anzitutto de-automatizzare le abitudini dello sguardo, responsabili delle “solite” cose. Sono infiniti, dal centro verso una x ipotetica, i prolungamenti inconsci delle strutture razionali che armano il pensiero dinanzi alla realtà. L’edificio cognitivo affonda le sue basi dentro il vuoto. E allora, ispezionando queste ineffabili fondamenta, sfumano i confini netti che, alla luce diurna, separano le cose tra di loro. Cessa ogni inconciliabile alternativa fra realtà e rappresentazione, essere e senso, superficie e simbolo, oggetto e parola. Se, come dimostrano le neuroscienze, il “regno di Dio” è già dentro il nostro cervello, per raggiungere la quiete bianca della Luce, che abita il nirvana del vuoto mentale, occorrerà abbandonarsi alla pienezza del mondo, svincolando il pensiero dalle corazze della rappresentazione e dello “stare innanzi”; quindi infilare gli interstizi dell’esperienza, lasciarsi invadere dal silenzio, entrare nelle cose, anzi essere le cose: restare vicini al fondamento della loro misteriosa, sconfinata profondità. Si apre, così, un “mondo” nuovo di percezioni; ovvero un “modo” diverso di approcciare e vivere le sensazioni. Ecco ad esempio un suono del tutto immaginario:

Ascolto preghiere di pesci
che fuggono, spargendosi
in masse impaurite.

Oppure la sintesi di un movimento che viene scomposto fino all’essenza del suo fotogramma infinitesimo:

Stai muovendo
l’ultimo fugace battito
leggera colomba,
prima di toccare il
selciato che ti accoglie
chiudendo il tuo volo.

Il mondo, declinato “sub specie fascinationis”, assume le fattezze di un dolcissimo, languido, avvincente, enigmatico labirinto, in cui perdersi è ritrovarsi.

Scegli l’acqua o il bosco perché
la barca sonnolente nella baia
stringe le ore nella tela di resina.
(…)
Vorrò entrare nella grotta
del mio perenne incanto,
fasciata come un bozzolo
per rinascere.

È basilare questo concetto di rinascita modulato dalla poetessa, novella Penelope, sulla tela orfica del canto. La poesia è il telaio dove si intrecciano i fili molteplici e multicolori delle realtà. Fa come il tempo, che annoda i fili del passato nell’ordito in divenire del presente, da cui scaturisce il tessuto di un futuro sempre aperto, sospeso, continuamente da rielaborare. Il poeta, illusionista e giocoliere, è intriso di “temporalità”:

Oggi? Inutile cenere.
Ieri? Da togliere il fiato.
Sempre? Recuperarsi.
Piedi sfiorano
strapiombi di muschi
e licheni.
Un arrivo e una partenza
a soffocare traguardi.

Parla cioè da una condizione di scissione, disgregazione, frantumazione, attraverso cui nota le «crepe» che «si dilatano» progressivamente, minacciando crolli. È colui che vede, che avverte, che sente la decadenza naturale di ogni cosa. Ma è anche colui che fa del divenire uno strumento di conoscenza profonda:

Al punto fermo non si impara più.

Il tempo del poeta è la “quinta stagione”, l’eternità che tutte le annulla e le racchiude:

Petali di noi vagano
nei terricci sconnessi
della conoscenza.
La quinta stagione
di cui non si avvertono
che disagi felpati
colpisce tiranna.
Fiore nero, fiore del
malanno infernale
sottile come biscia
ti inchioda fra resti
incoerenti.

Il poeta arriva dolorosamente a comprendere che la morte è premessa necessaria di rinascita. Come l’ultimo frinisce delle cicale, a estate ormai conclusa.

Eppure un frinire
Lapidato da umana sordità
Perdura debole,
sfuma.
(…)
Al di là dei cespugli
l’anima di un frinire
tace per rivivere in
un canto nuovo.

Nel morituro c’è il seme del nascituro: in ciò che s’inabissa già si lascia indovinare il nuovo che sta per emergere.

Gira, trottola impazzita per
fermarsi trasformandosi
in fanghiglia su cui
passare sopra.
Rinasco sempre.

La maturità coincide forse con l’atarassia dello sguardo, quando è capace inquadrare con distacco (che non è indifferenza, ma una “summa” equilibrata di imperturbabilità, serenità, superiore coscienza) il vorticoso turbinio degli atomi del mondo, il gioco infinito delle forze e delle forme che si combinano e si dissolvono nell’impasto dell’eterno divenire. La natura mette in scena uno spettacolo quotidiano di vita e morte strettamente intrecciate. Scrive Lucrezio: «Al pianto funebre si mescola il vagito / che levano i bimbi venendo a vedere le rive della luce». Né la vita né la morte possono prevalere per sempre, da sole, in modo definitivo: si con-tengono, anzi, nello sforzo della loro eterna belligeranza. La realtà può riprodursi e sopravvivere perché ha una grande capacità di resilienza: sa assorbire le catastrofi e riorganizzarsi in modo creativo, dopo la devastazione prodotta dai traumi a cui continuamente la sottopone il caso. L’esistenza stessa è fragile, sempre minacciata, esposta al fallimento e al “naufragio”. Non si danno certezze assolute, ma solo “possibilità”. Manca la base sicura per edificare una torre da cui assistere al naufragio: la terra si spalanca sotto i piedi e noi stessi siamo il naufragio, l’onda sulla quale andiamo alla deriva nell’Oceano del tempo. Il divenire stesso genera il nuovo dal vecchio servendosi dei suoi rottami. La soluzione a questo punto è: superare il “trauma dei traumi”, e quindi impugnare la “coscienza periferica” per affrontare direttamente, senza storie consolatorie, i pericoli della navigazione, sapendo che la nave dovrà essere riparata in mare, che non esistono più porti sicuri che ci accoglieranno. Non a caso infatti questo libro, nella sua forte connotazione esistenziale, trasuda di acque, onde, burrasche, isole, odissee, creativamente sospeso fra tentazioni di fuga e nostalgie di ritorno a terre cui ricongiungersi. Il “ritorno nell’acqua” battezza l’ingresso in una dimensione ancestrale, mitica, prenatale:

La rima si disgiunge
dal cordone ombelicale,
accecando endecasillabi,
distici da donare alla mancanza
di folle incuranti, ma
conservati nel grembo
di una donna, per sempre…

C’è qui una ricorrente metaforica equorea, anzi marinaresca, che configura nel “viaggio per mare” i connotati più emblematici dell’intera esistenza. Ecco, di seguito, tre esempi:

Un guscio di carta
la mia barca.
Passo tra nuvole
e sassi, foschie di
vetro, confini di dune
spettinate da tempeste
di sabbia.
(…)
Lembi di vela sonnecchiano
aspettando un porto
che rifletta forme
umane.

Ti lascio, casa mia
Mentre accarezzo
ancora le tue mura,
viverti è stato un dono.
Come Ulisse mi legherò
per non udire il tuo pianto
magico che mi
sollecita a un ritorno.

Chissà in quale portò
scenderò per cullare
l’eterna stanchezza
e essere chiamata
per nome?

La poesia stessa, tout court, potrebbe riconoscersi nell’immagine di una «chioma epica / della risacca / del pensiero»; così come la stessa poesia di Patrizia Pallotta sembra una nave che freme per salpare, poiché – dopo tanto attendere e riguardarsi – non ha più paura di affrontare il mare aperto.

Marco Onofrio

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