A RINA
Nell’aria di settembre (aria
d’innocenza sul chiareggiato
colle) sopra le zolle
ruvide mi sono care
le case a colori grezzi
del tuo paese natale.
Scherzano battendo l’ale
candide sui tetti a fiore
giunti, le colombelle
nuove.
Mentre commuove
dei voli l’aria il giro
tondo, nel cielo ai tocchi
festevoli delle campane
è il lindore dei tuoi virginei
occhi.
ESPERIENZA
Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne sono certo:
non ci sono mai stato.
CONDIZIONE
Un uomo solo,
chiuso nella sua stanza.
Con tutte le sue ragioni.
Tutti i suoi torti.
Solo in una stanza vuota,
a parlare. Ai morti.
Una prima lettura delle poesie di Giorgio Caproni dà l’impressione che egli non sia transitato attraverso le ultime esperienze poetiche, che abbia ignorato futurismo, crepuscolarismo, surrealismo ed ermetismo ma senza mettersi in barricata, senza contrastare nessuno, facendo la scelta che il cuore gli ha dettato. Fuori dal suo tempo, dunque, in disparte, come un alpinista solitario che punta alla vetta ma non vuole percorrere i sentieri usuali. In ciò mi viene spontaneo apparentarlo a Umberto Saba: stesso atteggiamento riservato e sornione, stessa rinuncia agli intellettualismi di moda, medesimo atteggiamento incantato-disincantato davanti allo svolgersi caotico del mondo letterario, con una personalissima lente d’ingrandimento che focalizza particolari per altri irrilevanti e desueti. Insomma, fuori dalla mischia, dalla bagarre che poi travolge istituzioni e paludamenti, soprattutto a partire dal 1963, creando la malattia del significante e riducendo la poesia a una poltiglia di intenti filologici fine a se stessa. Giorgio Caproni prosegue per la sua strada con lo scetticismo e a un tempo la fede di chi è sicuro dei propri mezzi e delle proprie virtù. Non scende a patti (e non era facile resistere alle tentazioni visto che si erano sbracati diventando paladini della moda quasi tutti i critici militanti e quelli accademici), non recrimina e coltiva ostinatamente la sua tecnica espressiva impegnandosi in traduzioni talvolta difficilissime, Proust e Frénaud Char, Céline, Cendrars per esempio, che gli permettono di approfondire il linguaggio, di chiarirlo ulteriormente e di affinare lo stile, di essenzializzarlo e pulirlo via via dalle scorie troppo sporche di letteratura, perché l’assillo di Caproni è comunque identico a quello di Saba: anch’egli guarda a Metastasio, a Chiabrera, alla poesia melica settecentesca, ai libretti d’opera dai quali ricava accensioni vitali per i propri versi, in direzione di una intensità musicale che possa dare alle immagini e alle emozioni uno scatto di luce visiva. Ma non si lascia andare all’apoteosi del suono, pur essendo un cultore del violino, non s’innamora di fattori esterni e smorza il canto con una maestria che lo porta sui ritmi della prosa senza tuttavia inficiare minimamente la sinfonia, anzi rendendola più accattivante. Si è dibattuto se Caproni abbia subito, nei primi anni della sua scrittura, il magistero di Giosue Carducci. Giuseppe de Robertis vi accenna in un famoso articolo del 5 settembre 1959 e Giacinto Spagnoletti invece lo nega. Io credo che Carducci sia entrato negli interessi del primo Caproni, ma il Carducci senza enfasi, quello di Alla stazione in un mattino d’autunno, per esempio, che gli porge il primo segno grafico per il ritratto di Annina. Comunque stabilire parentele di Caproni con i poeti a lui più consanguinei (Giovanni Pascoli, come ha dimostrato in un recente e documentato studio Michela Zompetta; Alfonso Gatto, come è stato più volte ripetuto da Baldacci, da Pampaloni, da Iacopetta, da Mengaldo, da Marco Marchi non porta molto lontano per comprendere la forza e la bellezza di testi che hanno sempre uno spiccato senso di assoluta libertà e di autonomia. Anche quando, all’inizio, Caproni ha sullo sfondo i maestri e le suggestioni recenti, questi assumono la sua fisionomia, vengono, per così dire, immediatamente adottati e fusi nella propria identità. Egli aveva il dono naturale e, secondo me, eccelso, di saper aderire quasi carnalmente alle letture che lo appassionavano e gli scardinavano gli archetipi e gli stereotipi accumulati. Ma poi sapeva discernere prontamente l’essenziale dal marginale e trovare le sue adesioni a pelle, soprattutto tra quei poeti genericamente chiamati espressionistici. I lirici classici sono stati il suo pane quotidiano, ma anche in questo caso senza mai chiudere la porta ad altre occasioni, a confronti, a letture e riletture che potevano dargli la facoltà di entrare all’interno dei meccanismi musicali e metrici che hanno una rilevanza che andrebbe studiata con cura. Caproni era stanco degli affastellamenti e delle complicazioni inutili che le avanguardie avevano portato creando una confusione senza rimedio e banalizzando il senso della poesia che così andava verso una deriva senza sbocchi e verso un dettato bassamente realistico. Durante alcune conversazioni avute con lui mi sentii ripetere, se non ricordo male, più volte: “Immagina il Po che si gonfia d’acqua dopo violenti piogge e non ha sbocco al mare. Che succederebbe?”. La poesia in lui nasceva dalla presa d’atto di un particolare realistico ma subito dopo si trasformava in dato direi metafisico. Comunque dietro la semplicità della canzonetta tutta efflorescenze rapide di annotazioni e di accordi musicali ci sono lo strazio e il dolore, il senso della perdita che a volte assume toni struggenti, e la disperata consapevolezza del nulla che lo angoscia. Con voce il più possibile semplice, quasi elementare, che lo porta a utilizzare espressioni e immagini quasi usuali, egli ridà verginità e nuova vita alla parola accendendola di caldi e sincopati palpiti, di improvvisi scatti che fanno pensare a un grande giocatore di scacchi. Si noti come egli sappia creare uno sposalizio direi naturale tra la tragicità e l’idillio servendosi di assillanti domande, mai caricando di frenesia le dosi del dubbio, divagando appena e rientrando subito nel misterioso palpito della vita. Sottolineo della vita, perché in Caproni sono gli affetti a condurre la partita, affetti che portano dolore, perdite e strazio, ma che rendono trepidante il senso del viaggio, a cominciare dall’infanzia. Ci sono annotazioni finissime fatte a volo di rondine da Caproni nel mentre descrive e nel mentre si lascia andare alla ricostruzione memoriale del suo mondo. I dubbi s’accavallano, fremono, sostano e poi ridanno voce al poeta che così può proseguire la sua indagine (che altro può considerarsi) sul senso del vivere e del morire, sul senso dell’amare e del restare fuori dal “ballo”. “L’arte del poeta consiste nel trattenere queste differenze e contrasti sotto un segno unico, che è poi un timbro accorato di voce, forte e distinguibile nei suoni, nelle parole ricorrenti, nel disegno melodico, nelle rime, sì da renderla una musica conclusa, esatta”. E questa musica conclusa ed esatta si riverbera poi anche nelle opere della maturità che per molti critici hanno subito mutamenti notevoli rispetto alla produzione degli esordi. In realtà a me pare che Caproni mirasse a conservare la propria identità di voce al di là delle nuove acquisizioni, al di là dei nuovi interessi. Il suo timbro rimane fermo e denso come in principio e su questo timbro, come usavano fare i poeti e gli scultori barocchi, avviene l’innesto mobile. Certo, la metafora del viaggio e il senso del divino che si affacciano nella sua vita creano una dilatazione dell’io, ma niente si scompone, semmai egli si rinserra maggiormente all’interno di un mondo che aveva organizzato per esplorare la realtà e il divenire umano in modo che i suoi dubbi possano scoppiare in filigrane più luminose e più amare. Per molti anni ho dovuto sentire scrittori e critici che parlando del poeta livornese si esprimevano in maniera dubitativa utilizzando le categorie di “maggiore” e di “minore”. Un palestra stupida che non porta da nessuna parte e non fa entrare nel mondo dei poeti senza sovrastrutture. Sono testimone che Caproni ci soffrì, fino al punto da confidarmi che gli sarebbe dispiaciuto diventare, invece che linfa viva di arte, un nome in una via periferica di Livorno o di Genova. Io gli risposi che in fondo anche questo dubbio poteva diventare un’altra dissonanza della sua scrittura e ricordo che sorrise, come a cogliere una indicazione tutto sommato proficua, anche se paradossale. Ma ormai che Giorgio Caproni è diventato (scrive Luigi Surdich: “Caproni è poeta i cui libri sono da leggere come quelli di un classico” un classico proprio perché “non ha mai finito di dire quello che ha da dire”, secondo l’espressione di Italo Calvino , credo che bisogna ritornare a leggerlo e a rileggerlo con “Affetto e simpatia”, come sostiene Vittorio Sereni, perché egli ha il “gusto della vita, dei colori e della luce del mondo, e dunque calore, ricchezza dei sensi sebbene filtrata attraverso la convenzione, ancora accreditata in quegli anni, della malinconia”. “Malinconia, / ninfa gentile, / la vita mia / consegno a te // I tuoi piaceri / chi tiene a vile, / ai piacer veri / nato non è”. E su questo si potrebbe aprire un lunghissimo discorso, per ritornare ancora a Pindemonte, Metastasio, e perfino ad Arrigo Boito e a Salvatore Di Giacomo. Del resto se Gatto ha guardato a Di Giacomo e Caproni a Gatto, mi pare che l’equazione torni, ma sempre tenendo presente che Caproni non assomma e non diluisce, ma rigenera e dà la sua impronta con quel calore che fa vibrare le immagini come su un palcoscenico al punto che spesso mi è sembrato che il poeta adotti il passo e le misure del drammaturgo. Così facendo egli ci porta nel fuoco scoppiettante di quei risvolti che si muovono tra realtà e finzione sul teatro della vita. Da ciò quella sorta di spaesamento che a volte il lettore subisce per subito essere spinto dentro movenze che hanno il ritmo del sangue, la cadenza del cuore. La poesia di Caproni è cosparsa di lievito e proprio mentre afferma la cancellazione e l’azzeramento ritrova la sua forza di rigenerazione, di metamorfosi, ribadendo così che tutto va verso la dissoluzione e il deserto:
“Di noi, testimoni del mondo, / tutte andranno perdute / le nostre testimonianze. / Le vere come le false. / La realtà come l’arte. // Il mondo delle sembianze / e della storia, egualmente / porteremo con noi / in fondo all’acqua, incerta / e lucida, il cui velo nero / nessun idrometra più / pattinerà – nessuna / libellula sorvolerà / nel deserto, intero”.
L’idrometra è un insetto che si muove velocemente sulla superficie dell’acqua, metafora tipicamente caproniana, che ancora una volta ci fa entrare nel sublime di quella conoscenza lucida che si serve della musica per non soccombere, per non morire nella banalità del risaputo. Quindi un ritorno a Caproni non solo ci permetterà di scandagliare meglio un mondo ancora poco esplorato, ma ci darà anche la possibilità di comprendere che la poesia vera si ottiene soltanto se si persegue con totale abbandono il sogno che ci fa lievitare e fa lievitare il mondo in mezzo a contrasti e passioni, tra i dubbi persistenti e la consapevolezza di non esistere esistendo:
“No, non è questo il mio / paese. Qua / – fra tanta gente che viene, / tanta gente che va – / io sono lontano e solo / (straniero) come / l’angelo in chiesa dove / non c’è Dio. Come, / allo zoo, il gibbone”.
Dante Maffìa