Questa è proprio una domanda a cui non so rispondere. Non sono un santo…
Riformuliamola così: per quale motivo ha incominciato a scrivere e continua a scrivere?
Da giovane dicevo che mi ero messo a scrivere per cercare, chiamiamola così, la mia anima. Volevo vedere chi sono: era un modo di chiarirmi a me stesso.
E c’è riuscito?
Mah, non posso dirlo. Se avessi la convinzione di esserci riuscito, non continuerei a cercarmi.
Forse un indizio di questa ricerca è anche il suo gusto – o il bisogno – dell’antologia. Nel senso che molte volte ha ripreso tematicamente poesie di varie epoche in raccolte successive. Cronistoria (1943) e Stanze della funicolare (1952) sono confluite ne Il passaggio d’Enea (1956); L’ultimo borgo (1980), con la splendida introduzione di Giovanni Raboni, riepiloga il meglio della sua opera, comprese le poesie apparse sull’Almanacco dello Specchio n. 6 (1977) che poi sono recuperate anche nell’ultimissimo Il franco cacciatore (1982).
Nel Franco cacciatore non è che ci siano poesie recuperate. Alcune erano state anticipate nell’Almanacco, ma appartenevano già al libro, erano anticipi, non recuperi.
Come nasce, allora, la fisionomia di un libro?
I primi libri erano, più che altro, delle raccolte di poesie. Avevo poco patrimonio, e dunque cercavo di radunare il già fatto e di unirlo alle novità. Poi, invece, mi è venuta l’idea di fare dei libri che fossero unitari, almeno nel tema centrale, da Il seme del piangere in poi. I libri antologici sono però nati anche da un bisogno di revisione del già fatto. Per esempio, se si confrontano le ultime stesure del Passaggio d’Enea con gli originali, si trovano variazioni notevoli. Lo ha notato molto bene, nell’omaggio che mi fecero a Genova [Genova a Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, Genova 1982, Ndr], il prof. Mariani che puntualmente le ha annotate. Poi c’è anche un bisogno di riordinarle cronologicamente. Ora questa mania mi è passata.
Adesso c’è questa Opera omnia garzantiana in fieri…
Opera omnia che mi imbarazza moltissimo, per tutte queste successioni.
Il segno più vistoso dell’evoluzione della sua poesia appare proprio sul versante formale, della presentazione dei versi. C’è stato un progressivo scarnificare le parole per arrivare all’essenzialità «vetrosa» delle ultime poesie, con la loro delicatezza vertiginosa, ma anche con la loro forza dirompente.
C’è stato un movimento, se si può dire, a fuso, «fusolare»: ero partito da una scarnificazione ancora di carattere impressionistico, macchiaiolo, che pian piano si è amplificata o gonfiata nel poemetto, nell’endecasillabo, nel sonetto; finché poi, forse anche per il trauma della guerra, mi è venuta la saturazione di queste forme, troppo ampie, e allora ecco il bisogno di tornare alla massima semplicità possibile. Il rumore della parola, a un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio, tanto che adesso vorrei aver scritto poesie di tre, quattro parole al massimo.
La sua poesia, infatti, è «fintamente» cantabile…
È una forma di canzonetta indurita. Se uno la legge scorrevolmente, è sempre una canzonetta; non la canzonetta del Cavalcanti (eccetto nel Seme del piangere), ma la canzone dei primitivi, dei poeti delle origini, una canzone ancora dura, come nella scuola siciliana, come nei primi toscani, o in Giacomino Pugliese. La lingua italiana non c’era ancora: c’era questa durezza. Forse questo deriva dal fatto che nella biblioteca di mio padre c’era un’antologia proprio di quei poeti, fino a Cavalcanti.
Un nome riportato in voga lo scorso anno, per via del centenario, e che attende ancora una piena rivalutazione: Metastasio. Non le dice niente?
Metastasio mi dice moltissimo. Però credo che sia abbastanza lontana la mia poesia da quella di Metastasio, che pur merita un riconoscimento aldilà delle mode.
Comunque Metastasio l’ha letto, l’ha studiato…
Sì, sì, mi piaceva molto la sua musicalità: ma io cerco invece la musica. L’ho trovata più spesso nel Tasso lirico, nel Poliziano.
Nel suo itinerario poetico spicca l’evidenza dell’ossimoro, della coincidenza degli opposti: il viaggiatore che non parte, il cacciatore che è preda, l’esistenza e inesistenza di Dio. Che ripercussioni hanno questi temi, e soprattutto l’ultimo, nella sua esistenza personale?
Mi riesce difficilissimo dirlo altrimenti da come l’ho detto nei versi. Certamente non è un tema letterariamente assunto. È un tema sofferto (se la parola non è esagerata) nella vita, nell’esistenza. C’è un bisogno di ricerca, di continua ricerca.
Ma lei prega, per esempio?
Io prego, prego molto. Ma alla maniera del «preticello deriso» (cfr infra, ndr).
E non c’è il rischio – questa è forse una domanda un po’ cattiva – che questa ricerca su temi così alti, al confine con la teologia, finisca per diventare una specie di prezioso sofisma?
Il pericolo ci sarebbe se questi temi li facessi diventare dei pretesti letterari, ma io credo di non avere più neppure il tempo di poterlo fare… E poi c’è anche il controllo critico, la consapevolezza di averli portati all’estremo limite e dunque di doverli abbandonare. A meno che non avvenga qualche sconvolgimento a capovolgere la situazione.
Quindi il pericolo è evitato dal riscontro biografico che sottostà alla ricerca letteraria…
Certamente.
Qual è il suo atteggiamento nei confronti del valore della vita, oggi così in ribasso nella considerazione sociale?
Credo che tutto dipenda dall’esser venuto meno di qualcosa: di una legge, di una regola, sia essa cristiana o anche pagana. È una crisi, si può dire, di religione.
E il culmine più allarmante di questa crisi mi sembra proprio consistere nel disprezzo del valore della vita fin dal suo sorgere.
Certamente. La vita, una volta che è data, non la si può togliere. Chi non la desidera, non la dia. Tanto più che dando una vita non è che si faccia, da un punto di vista non-cristiano, un grosso regalo. Perché la vita è più sofferenza che gioia: a maggior ragione, quindi, non bisogna stroncarla. Semmai, bisogna cercare di aiutarla.
Lei ha un’attività intensissima e molto apprezzata di traduttore. Tra l’altro ha tradotto, in anni lontani, Querelle de Brest, di Jean Genêt. Come mai?
Quella fu un’ordinazione, non una scelta. Fu una cosa professionale. La scelta fu organizzata da Giacomo Debenedetti. Non che mi attirasse l’osceno, tutt’altro. Anche nel caso di Céline, di cui ho tradotto Mort à credit, ciò che mi attirava, paradossalmente, era la bontà. Era un uomo buono, Céline.
Del resto nelle traduzioni lei si è applicato soprattutto alla poesia: Char, Frénaud, García Lorca, Apollinaire. E gli autori di lingua inglese?
È una lingua che non domino, e quindi quegli autori li ho frequentati poco. Conosco abbastanza bene Robert Lowell, anche perché l’ho avvicinato personalmente. Ho anche un ricordo abbastanza curioso. Una volta Lowell venne a Pisa, e mi invitarono a incontrarlo, insieme a Mario Luzi. A un certo momento, dopo la riunione conviviale, qualcuno disse: «Adesso ognuno legga una sua poesia». Tutti lessero e quando venne il mio turno lessi il Lamento (o boria) del preticello deriso, dove, a un certo punto, si dice: prego non so ben dire / chi e per cosa; ma prego: prego (e in ciò consiste / – unica! la mia conquista) non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista.
L’indomani mattina rivedo Lowell, lì nell’albergo Duomo, e mi dà un suo libro con una dedica: «Sperando che Dio esista almeno nelle nostre preghiere». Diceva di non capire l’italiano (infatti ci parlavamo in francese), ma il Lamento del preticello l’aveva capito.
Fra le sue amicizie letterarie, Sbarbaro che posto ha?
Il primo posto. Ho uno scaffale con tutti i suoi libri, e là ho i suoi dattiloscritti, le letterine che gli aveva scritto la Vivante e che egli mi ha lasciato prima di morire. Il nostro era un vero e proprio sodalizio. Lo conobbi in una maniera buffa: recensii, non ricordo dove, non so più quale suo libro, ed egli mi scrisse che per la prima volta aveva letto qualcosa di pertinente sulla sua poesia. «Altri – diceva – hanno scritto articoli bellissimi, ma io non ci ho capito nulla». A mia volta, emozionato, gli scrissi una lettera indirizzandola: «Illustrissimo poeta Camillo Sbarbaro – Spotorno». Allora lui prese una cartolina illustrata e l’indirizzò: «All’illustrissimo signor Giorgio Caproni». Testo della cartolina: «Pari e patta. E mi venga a trovare». Lo andai a trovare, con Angelo Barile. E sebbene ci siamo rivisti pochissimo, ho una corrispondenza abbastanza folta. Mi scriveva spesso. Io non lo andavo a trovare perché sono sempre stato un po’ appartato; non per timidezza: per pudore. E Sbarbaro aveva certe finezze. Mi ricordo che una volta mi portò in una trattoria, sempre con Angelo Barile (erano amici, ma proprio amici amici), e tutt’a un tratto, a tavola, notai che si era annuvolato. Mi domandavo: «Avrò detto qualche corbelleria?». Ma poi, all’uscita, Barile mi indicò il nome della trattoria: «Guarda, trattoria Da Rina», il nome di mia moglie. Io non l’avevo notato, e Sbarbaro se l’era un po’ presa.
Siamo nel ventennale della neoavanguardia. Il Gruppo ’63 sarebbe oggi Gruppo ’83. Come ha vissuto quella stagione?
Sento molto il freddo del laboratorio, in quella poesia. È una poesia come in fiala. Non riesce, per me, a passer la rampe, a superare la ribalta, ad arrivare al pubblico. E tuttavia è stato l’ultimo movimento, in qualche modo, vivente. Ma, tornando alla sua prima domanda, vorrei dire che il poeta non è un uomo superiore agli altri, tutt’altro. È una qualità quasi fisiologica, come avere il naso aquilino o camuso. Il poeta non è qualcosa di speciale, come forse pensava Saba. Saba un po’ si coccolava: «Il poeta, il poeta…». A me quella parola dà fastidio; è ingombrante. Io ho sempre pensato che nella vita ci sono tante cose da fare, oltre ai versi. Poi, se vengono i versi, uno li scrive. Ora come ora vorrei non averne mai scritti. Vorrei aver speso meglio quella che Machado chiamava la monedita del alma.