Isabella Morra, da Favale alla ribalta nazionale, percorso culturale di Mario Santoro

 

 

santoro_marioAncora oggi, a distanza di secoli, appare troppo evidente la suggestione che scaturisce dalla breve, opaca e drammatica biografia di Isabella Morra che agisce, col fascino un po’ macabro dell’assurda e violenta morte, non solo sui lettori ma anche sugli studiosi. Del resto, pure a volerlo, diventa difficile, se non impossibile, analizzare il breve canzoniere della poetessa senza tener conto della sua vita, segnata da una sorta di carcerazione continua che diventa, via via, prigionia interiore senza possibilità d’uscita e determina solitudine profonda e lacerante con conseguente malinconia manifestata con impennate di desideri, di voglie, raramente scomposte, di urgenze laceranti anche a causa dell’impossibilità non solo di essere soddisfatte ma anche di essere capite da parte del rigido, chiuso ed ottuso mondo circostante. Con Isabella Morra e la sua condizione ben triste scattano, per sovrapposizione di immagini, richiami a figure della letteratura diventate universali come Francesca da Rimini, Pia dei Tolomei o Lisabetta da Messina, solo per fare qualche riferimento e, per associazioni, forse improponibili se non per la suggestione che promana dalle loro esistenze travagliate, a personaggi come Cesare Pavese, Rocco Scotellaro, e più ancora Guido Gozzano la cui precaria esistenza e la condizione di morte, sempre presente ed incombente, per decenni hanno finito col condizionare il giudizio in termini di critica poetico-letteraria. Va detto, però, che le qualità dell’autrice varcano sicuramente i limiti segnati dai pur suggestivi riferimenti agli accadimenti puramente biografici e ci consentono di poterla indicare non solo come la prima lucana di valore ma anche come degna di ben figurare nel panorama della letteratura italiana del ’500 accanto a Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Veronica Franco, Vittoria Colonna, Tullia d’Aragona. E se il giudizio di Toffanin, che nega troppo sbrigativamente validità poetica al canzoniere di Isabella Morra, pesa ancora come una sorta di ingiustizia, quasi che il critico, per timore di cedere alle tentazioni della storia personale e di rimanerne invischiato, abbia avuto fretta di licenziarla, al contrario, Benedetto Croce esalta in lei il sentimento e l’immediatezza della poesia e sottolinea il travaglio, lo sconforto e la disperazione della donna evidenziando i tentativi di uscire dalla sua condizione di prigioniera e sottolineando gli impeti religiosi autentici e capaci di appagarla sul piano spirituale. E se il De Gubernatis tende ad enfatizzare il “caso” Morra, ricorrendo ad un atteggiamento di adesione pressoché totale e presentando una versione poco veritiera e alquanto romanzata, va detto che, in tempi più recenti, gli studi sulla poetessa di Favale, condotti attraverso un approccio metodologico più rigoroso e critico, spingono ad una valutazione-rivalutazione della stessa ed ad una collocazione più giusta e veritiera nel quadro della letteratura italiana. Tanto viene anche affermata da Mario Sansone che, nel convegno del 1975, sottolineava la liberazione definitiva dalle istanze romantiche nel giudizio della Morra e dichiarava altresì essere importante considerare se ” il suo petrarchismo fosse un modo ( o il modo) sostanziale di cultura acquisito nella sua personalità, o modo di dilettantismo o edonismo compositivo…”. Ad una rivalutazione (o valutazione giusta) tendono gli studi critici successivi tra i quali possiamo ricordare quelli di Tateo, Stefanelli, Zaccone, Caserta, Bronzini. Questi si muovono nel solco della doppia indicazione: da un lato della imitazione e dall’altro della originalità nei confronti di Petrarca alla ricerca di una riproposizione non pedissequa di temi, termini, costrutti. In ogni caso è evidente, come sottolinea Zaccone nel suo recente lavoro, “…la presenza di Petrarca nell’impianto laudativo, nella trattazione di alcune parole tematiche, nell’assunzione di talune immagini, ma è anche evidente, in altri momenti, lo sforzo cosciente della poetessa di infrangere il codice petrarchesco con soluzioni stilistiche e, più frequentemente, tonali, più personali ed originali”. Egli va oltre e si avvale di un prezioso riferimento di Sansone: “Isabella, rimescolando la trama e i punti del Petrarca, intendeva dire altra cosa; ma il rapporto fra il senso della sua meditazione ed i sostegni richiesti al grande poeta non costituisce un semplice incontro, nel quale un contenuto più o meno affine di idee ritrovi sul piano della agevolezza espressiva un corredo utile di parole ed immagini””. In tutti i casi, ritengo che si possa dire trattarsi di un petrarchismo che consente margini, anche notevoli, di originalità e nella forma e, più ancora, nel contenuto che risulta sostanzialmente diverso e strettamente personale. Qui forse non è disdicevole introdurre la distinzione, nel fenomeno di imitazione del Petrarca, tra quello che viene comunemente definito “bembismo” e il “petrarchismo”. Nel primo caso l’imitazione appare più evidente anche se non manca una qualche forma di arricchimento linguistico, un certo processo di crescita e di evoluzione e maturazione della cultura poetico-letteraria; nel secondo, che si richiama a Giovanni Della Casa, non solo l’imitazione risulta certamente minore ma c’è una evidente attenzione alle istanze morali. Il gruppo delle poetesse citate, e quindi anche la Morra, sembra rientrare piuttosto nel primo fenomeno e tuttavia qua e là non mancano momenti di originalità o per lo meno di imitazione non mera, con approfondimenti, riproposizione di temi in chiave personale, meriti specifici e limiti conseguenziali. Va pure precisato che Isabella Morra non appare, per valore, da meno delle altre poetesse del Cinquecento; infatti se consideriamo, per un fugacissimo confronto, Gaspara Stampa, la cui breve vita fu occupata da amore tanto veemente da non poter essere appagato dai pur molti amanti, veri o presunti, appare fin troppo evidente il suo petrarchismo elementare o, se si vuole, poco o niente affatto originale. Lo stesso si può dire per Vittoria Colonna alla cui notorietà contribuì la sua estrazione sociale, la collocazione geografica, ma anche l’amicizia col grande Michelangelo. Poche sono le notizie che abbiamo su Isabella Morra per lo più ricavate dalla “Storia della famiglia Morra” del 1629 pubblicata in Napoli da Marcantonio Morra, figlio di Camillo, il più giovane dei fratelli di Isabella, nato nel 1528. La poetessa nacque nel 1520 a Favale, l’odierna Valsinni (Mt) a pochi chilometri dallo Jonio, in Basilicata, in un’epoca in cui l’Italia, soprattutto quella meridionale, era percorsa in lungo e in largo da Francesi e Spagnoli: si tratta di un’epoca di incertezze e precarietà, di cattiverie e malvagità. Favale aveva qualche centinaio di abitanti e la poetessa non l’abbandonò mai, malgrado qualche vago sogno e qualche tenue speranza di uscire fuori e nonostante l’illusione di poter riparare in Francia per raggiungere il padre, fuggito in volontario esilio per sottrarsi ad un processo politico, intentato dagli Spagnoli trionfatori, in quanto partigiano del visconte di Lautrec. Dalla “Storia della famiglia Morra” si evince che Giovan Michele, padre della poetessa, era legato fortemente ai Francesi e, dopo la sconfitta degli stessi, riparò in Francia mentre il suo feudo fu transatto con il pagamento di un’ammenda e restituito al primogenito, Marcantonio. Partito il capo famiglia con il secondogenito, Scipione, a Favale rimasero Luisa Brancaccio con i figli: Decio, Cesare, Fabio, Camillo, Isabella e Porzia. Proprio l’assenza del padre fu fortemente avvertita da Isabella, costretta a vivere con fratelli rozzi, sospettosi, ignoranti, in un ambiente povero di stimoli, arretrato, gretto, chiuso. Ciò determinò in lei una condizione di profonda infelicità, acuita dalla consapevolezza di essere sola e incompresa, le fece desiderare cose che non poteva realizzare, vagheggiare amori impossibili, vedere sfumare la sua bellezza e la sua giovinezza tra uomini selvaggi, come l’ambiente circostante, incapaci di apprezzarla e di comprendere il suo dramma interiore. Non a caso scrive nella nona canzone: “Quella che è detta la fiorita etade/ secca ed oscura, solitaria ed erma/ tutta ho passato qui cieca ed inferma,/senza saper mai pregio di beltade”. Senso della solitudine, mancanza di prospettive, ciechi orizzonti chiusi dinanzi alla sua persona, sensibilità acuita da buona cultura, la spinsero a ricercare ogni possibile spiraglio e spiegano il suo attaccamento a Diego Sandoval De castro, la cui conoscenza originò nella donna sentimenti e palpiti delicati e profondi e significò, la possibilità di aspirare a realizzare, in qualche modo, il suo bisogno assoluto ed ardente di libertà. Infatti, sempre secondo il racconto di Marcantonio Morra, poco lontano da Favale, nel castello di Bollita (l’attuale Nova Siri, sempre sul mar Jonio), Diego Sandoval de Castro, poeta e cantore, fece spesso visita alla moglie Antonia Caracciolo, pur essendo egli stato sospeso e poi bandito dalla castellania di Cosenza. Non si sa bene come avvenne la conoscenza, certamente per mezzo dell’aio di Isabella che, all’inizio si prestò allo scambio delle composizioni poetiche e favorì gli incontri tra i due. Conseguenza di questa storia, che andrebbe analizzata con attenzione per trovare, non la giustificazione all’eventuale tresca, ma la comprensione ad un cedimento dell’anima, e forse anche del corpo, seguendo la linea di intesa spirituale attraverso il filtro della poesia con le sue connotazioni multiple pur nella consapevolezza di una folgorazione forse momentanea o quanto meno passeggera, fu la sua uccisione fredda e determinata da parte dei fratelli, a soli 28 anni (1250 -1258). Queste le indicazioni ed i riferimenti, minimi come si può vedere, e tutti chiusi all’interno del borgo di Favale che, località povera con abitanti per lo più dediti all’agricoltura e ad una vita di pura sussistenza. Del resto, è facilmente immaginabile, la mancanza assoluta di un cenacolo culturale, l’assenza di contatti con i centri di diffusione della cultura ma anche della possibilità di semplici scambi di idee. Agli svantaggi derivanti dall’ambiente piccolo e povero di stimoli si dovevano aggiungere quelli che scaturivano dal mancato rapporto con la gente comune per l’inesistenza, pressoché assoluta, di relazioni minime. Del resto la portata fortemente innovativa dell’Umanesimo – Rinascimento, con i suoi effetti dirompenti in tutti i campi della cultura, doveva arrivare come un’eco affievolita a Favale, modificata per il filtro inevitabile dei molti passaggi, mentre più facilmente penetravano le cronache, sovente stravolte, della guerra per il predominio in Italia tra Francesi e Spagnoli, con scontri, alleanze, accordi, intese non durature e con un generale clima di sospetto e di tensione culminante, per la poetessa, nel decesso del re di Francia Francesco I, che segnò la fine di ogni speranza di ritorno del padre. Tutto questo fece sì che Diego Sandoval De Castro rappresentasse il letterato che poteva capirla, che poteva ascoltarla, che poteva afferrare la portata dei sentimenti che altri non avrebbero capito e, al tempo stesso, era anche colui che poteva far uscire la sua poesia da Favale. Non pochi si sono domandati se il loro fu amore, se ci fu passione o solamente scambio di tenerezze ed effusioni o se si trattò esclusivamente di un legame sul filo del comune interesse per la poesia. Non ci sono notizie in proposito anche perché dopo la sua morte i fratelli certamente hanno fatto scomparire ogni riferimento al De Castro, ucciso in un’imboscata qualche tempo dopo. Il canzoniere, secondo alcuni studiosi, potrebbe dividersi in due parti: la prima, definita terrena, testimonia la sua sofferenza, gli aneliti, i sogni, i desideri, le ansie e le angosce; la seconda, indicata come celeste, sembra essere segnata dalla rinuncia, dalla rassegnazione e da una sorta di sublimazione dello spirito. A segnare questo passaggio, che tuttavia non è definitivo, è l’ottavo sonetto nel quale l’autrice si rivolge al fiume Sinni perché sia testimone della sua fine che sente vicina, se mai il padre dovesse fare ritorno:

“Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fine amaro
fa’ tu noto il mio duol al padre caro,
se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo”. 

 Nella poesia successiva è facile notare uno stile più piano, pacato e quasi rassegnato:

 “Poscia ch’al bel desir troncate hai l’ala
che nel mio cuor sorgea, crudel fortuna,
sì che d’ogni tuo ben vivo digiuna,
dirò con questo stile umile e frale” 

 E ancora successivamente:

 “Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contro Fortuna…” 

 E proprio il riferimento forte alla fortuna apre il canzoniere, con stile non certamente “umile e frale”, insieme con l’idea della solitudine e della natura selvaggia del luogo che l’ha vista nascere e dal quale non può fuggire:

 “I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etade,
me che ‘n sì vili ed orride contrade,
spendo il mio tempo senza lode alcuna”. 

 Proprio la mancanza di lode, la certezza di essere sola senza possibilità alcuna di riferimenti, il senso del tempo e della fanciullezza che passano inutilmente, alimentarono il bisogno di amore inappagato e quindi lo sconsolato e struggente desiderio del padre come il solo capace di toglierla da quella assurda condizione.

 E perciò scriveva:

 “D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella”. 

 E questo desiderio acuto ed autentico tornò più volte nelle sue poesie dove è sempre presente, nelle forme più diverse, la malinconia determinata dalla solitudine che non ammette soluzioni né lascia aperta la possibilità di una via di sbocco ma, dopo essere stata viva e pungente, si va facendo rassegnata come se la poetessa cedesse al proprio destino e alla sua ineludibilità.

 Ancora il padre e la sua assenza sono presenti nella nona canzone:

 “Tu, crudel, de l’infanzia in quei pochi anni
del caro genitor mi festi priva” 

 La lontananza del padre, la mancanza della conseguente sua disponibilità, l’assenza del fratello Scipione, suo coetaneo ed unico tra i fratelli sufficientemente istruito e sensibile, rese la sua solitudine a tratti devastante ed insopportabile ed è evidenziata attraverso la descrizione dei luoghi e delle cose. Straordinario il riferimento nel settimo sonetto:

 “Ecco ch’un’altra volta o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o spirti ignudi di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna” 

 L’ambiente è descritto a tinte fosche: “valle inferna”, “fiume alpestre” ruinati sassi”, “doglia eterna”. Altrove scriverà: “vili ed orride contrade”, “fere”, “selve incolte”, solitarie grotte”, “caverne”, “torbido Siri”. E se l’ambiente appare di per sé carico di significati sinistri, a renderlo ancora più squallido e quasi ributtante, è la presenza di “gente irrazionale”, priva di ingegno”, aspro costume”, e soprattutto “ignorante”. Questo quadro raggelante rese ancora più tragico il senso della solitudine e dovette predisporre alla resa e al presagio di quello che sarebbe accaduto sicché il richiamo alla morte e il rifugio tra le ali del perdono dell’amore divino sembra conseguenziale. In situazione siffatta il sogno della fanciulla di vedere arrivare dal mare il padre e il fratello o soltanto di averne notizie si presenta dolcissimo, quanto improbabile se non impossibile, e le parole si adeguano magicamente:

 “D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella” 

 Pure ella sentiva che la sua era illusione, di cui non poteva fare a meno per dare un senso alla sua esistenza, destinata a cadere come dichiara nel sonetto a Luigi Alamanni, nel quale lamenta la sua condizione e si augura che almeno le sue spoglie possano riposare in “saldi marmi”:

 “e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l’alma sciolta,
essere in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che ‘n saldi marmi la terrà sepolta” 

 Subentrò così una sorta di consapevolezza che le impediva quasi di scagliarsi contro la Fortuna e la tempesta dei sentimenti sembrò placarsi, mentre la poesia rimase àncora di salvezza, rifugio, rivincita contro le angustie dell’esistenza e momento liberatorio. Così i luoghi diventarono meno odiati, anche se sempre insopportabili, e il silenzio circostante generò nella poetessa il richiamo ad altri spiriti del passato sottoposti alle sue stesse durezze. Il passaggio alla religione e l’abbraccio della stessa sembrano naturali con senso del pentimento del “cieco error” e delle vanità delle cose terrene in contrasto con la bellezza divina. A parte la dichiarazione spontanea e forse sincera di Isabella le cose non stanno proprio così: ella non ha conosciuto i piaceri della vita; la sua bellezza è passata invano; il suo essere donna non ha avuto modo di realizzarsi e quindi il suo “cieco error” non si riesce ad individuare se non nell’accettazione obbligata della sua condizione dei donna confinata. Siamo alla sublimazione che la spinse ad offrirsi a Dio donandogli la sua sofferenza sicché la religione finì per diventare una forma di affrancamento delle proprie frustrazioni. Scrive in proposito Caserta:” Ed è sintomatico che la religione in lei non si configuri come uno stato astratto e di vaga beatitudine, ma assuma i caratteri di una certa materialità e terrestrità perché nella religione si realizza tutto quanto le è mancato sulla terra” Non si può non concordare, tanto più che tutta la seconda parte del Canzoniere è ricca di riferimento, ora accorati, ora più distaccati ma sempre sinceri, a Dio definito “bel tesoro eterno”, “re del Cielo”, essere “supremo cogli occhi pieni di salute” “bocca divina di perle e di rubini”e non mancano riferimenti alle altre parti del corpo come le guance, le ciglia, la fronte. C’è una partecipazione intensa, penetrante, quasi fisica, al punto da indurla, a mo’ di giustificazione, a definire “folle” la sua canzone. Il suo amore raggiunse punte di vera e propria esasperazione e poi lentamente sembrò placarsi e lasciò subentrare una certa serenità che si può cogliere nel linguaggio.

 Nella XIII canzone, che è l’ultimo componimento poetico del canzoniere, ella scrive:

 “Or, rivolta la mente a la Reina
del ciel, con vera altissima umiltade,
per le solinghe strade
senza intrico mortale l’alma camina
già verso il suo riposo,
ch’ad altra parte il pensier non inchina,
fuggendo il triste secol sì noioso,
lieta e contenta in questo bosco ombroso”. 

 I legami terreni appaiono come forzatamente sopiti nella forza nuova della tragica rassegnazione e affiorano appena, a tratti, dal profondo dell’intimo rivelandosi leggibili come attraverso tratti soprasegmentali e costituendo, per il lettore attento, motivo di avvicinamento e di tenerezza profonda. Isabella Morra è figlia, sfortunata fin che si vuole, del suo tempo e basterebbe, allo scopo considerare una sola variabile particolare come il concetto di Fortuna con le relative attribuzioni specifiche. Il termine Fortuna lo ritroviamo, quasi come una costante, nelle sue poesie: nel primo sonetto: “I fieri assalti di crudel Fortuna”; nel terzo: “contra Fortuna allor spargo querela”; nel sesto due volte: “Fortuna che sollevi in alto stato” e “che tu Fortuna avendo in nome nostra”; nel settimo: “Che Fortuna che mai salda non stassi”; nell’ottavo: “l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro”; nella canzone nona: “Che nel mio cor sorgere crudel Fortuna”; “seguitata mai sempre empia fortuna”; “Ahi,ahi, Fortuna, e perché far nol dei?”; nel decimo sonetto: “Ma Fortuna al timor mostra il sentiero”; Nell’undicesimo: “un tempo, come sai, contra Fortuna”. E se Isabella Morra è debitrice per i richiami a Petrarca (basterebbe allo scopo mettere a confronto il sonetto “Solo e pensoso” del grande maestro con “Ecco ch’un’altra volta o valle inferna” dell’alunna), il grandissimo Leopardi, secondo non pochi critici, deve qualche cosa alla Morra. Intanto appare evidente una strana serie di coincidenze tra i due poeti; coincidenze che rendono possibile, suggestivo, significativo l’accostamento non in riferimento ai risultati poetici, ma piuttosto in relazione alla loro esistenza e non solo. Entrambi sono nobili di nascita e soffrono la solitudine ed il rimpianto della fanciullezza – giovinezza che passa inutilmente; entrambi hanno un monte di riferimento, isolato e silenzioso e che consente di guardare il mare, dà il senso dell’infinito, accoglie intorno a sé, sogni, speranze, vaghezze, illusioni ( Ci riferiamo al monte Coppola e al Tabor); entrambi sono relegati in due paesini isolati e tagliati fuori dalla civiltà. Inoltre si trovano in Leopardi riferimenti, costrutti e termini che richiamano la poetessa lucana e che inducono a pensare che egli fosse a conoscenza del Canzoniere della stessa. Solo per esemplificare possiamo dire che l’espressione “Quella che è detta la fiorita etade” trova riscontro in certi versi del “Passero solitario”. E ancora se Isabella scrive “fra questi dumi/fra questi aspri costumi/ di gente irrazionale, priva d’ingegno/… senza sostegno/sono costretta a menar il viver mio”, Leopardi sembra farle eco: “Né mi diceva il cor che l’età verde/ sarei dannato a consumar in questo/natio loco selvaggio, intra gente/ zotica, vil…” Infine va detto che sebbene il canzoniere sia assai breve ( solo tredici componimenti) molti sono gli aggettivi ricorrenti e particolarmente quelli che in qualche modo richiamano e sottolineano la sua assurda esistenza e il senso oscuro della stessa. A scopo puramente indicativo, prendiamo da Caserta:” Crudel, vili, orride, importuna, adversa, dispietata, tristo, deserto, infelice, denigrato, irato, acerba, cruda, basso, gravi, depresso, afflitto, sconsolato, vinto, prostrato, rozzo, orrendo, inferma, ruinati, incolta, solitario, miserando, torbido, amaro, acerbo, avaro, sassosa, fiera, empia, secca, oscura, strano, solitario, inique, estrema, dolente, predatrice, erto, angusto” ecc. Pur coi limiti propri e con le difficoltà di analisi derivanti dalla scarsità di informazione e documentazione e pur con le restrizioni derivanti dall’imitazione al Petrarca, troppo evidente, la poesia della Morra riesce a realizzarsi come autonoma, sentita, sofferta, a tratti dolorosa e rassegnata, originale, almeno in parte, capace di varcare i confini angusti della suggestione biografica, per apparire pulita, quasi cristallina, in un momento storico-politico-sociale difficile da decifrare, particolare, confuso, contraddittorio.

 

Mario Santoro è nato ad Avigliano (Pz) il 3.6.1943. Vive a Potenza. E’ docente di italiano e storia nelle scuole superiori e sociologo. Collabora a riviste in qualità di critico letterario.

Ha vinto il primo premio di letteratura per ragazzi “Città di montalbano” edizione 1999.

 E’ preside di facoltà e docente del corso di Arte e Letteratura nell’UNITRE di Potenza.

 Ha curato la pubblicazione di numerosi testi in prosa e in poesia.

 E’ presente, tra l’altro, nelle seguenti opere:

 “Tradizioni popolari”(a cura di) Franco Noviello – Laicata Edizioni – Manduria, 1988;

  “Poesia lucana d’oggi”- Luigi Reina – Il Portale – Pignola, 1992;

  “Storia della letteratura lucana” – Giovanni Caserta – Osanna – Venosa, 1993;

  “Poeti e scrittori contemporanei”- AA.VV. – Quaderni Humanitas – Potenza, 1994;

  “Scrittori per ragazzi di basilicata” – Antonio Romano – Osanna – Venosa, 1995

   “Il filo d’Arianna – Nel labirinto della poesia” – Luigi Reina – Ripostes – Salerno-Roma, 1997;

  “Dal Sud.Letteratura per l’infanzia e immaginario meridionale”- Daniele Giancane -Besa Edizioni – Nardò, 2000

 

 

 

 

 

1 commento
  1. La Morra è uno dei patrimoni della poesia femminile, è fondamentale riscoprirla. Aggiungerei a questa preziosa nota, anche il lavoro sulla Morra del gruppo di Marcella Continanza che ne sta diffondendo la voce in Germania. Grazie Mario Santoro.

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