A Roma esiste da qualche mese un parco che porta il nome di Leonardo Sinisgalli. Nel maggio 2013 la Commissione Consultiva di Toponomastica della Giunta capitolina ha approvato la proposta che attribuiva l’intitolazione “Leonardo Sinisgalli: Ingegnere e poeta (1908-1981)” al parco cittadino situato tra Via Luciano Conti e Via Raoul Chiodelli. La Giunta capitolina l’ha approvata il 21 maggio 2013 con delibera 275.
La richiesta di intitolare al poeta ingegnere di Montemurro una denominazione toponomastica nella Capitale era stata avanzata alla fine del 2011 dalla signora Anna Maria Lutescu, erede testamentaria di Rodolfo Borra, a sua volta erede indiretto di Leonardo Sinisgalli.
Roma omaggia così un grande della letteratura del Novecento. Nella città eterna Sinisgalli ha vissuto gran parte della sua vita: dalla formazione universitaria nelle facoltà di Matematica prima e Ingegneria poi, alla decisione di viverci stabilmente in via del Sassoferrato, ai Parioli. A Roma ha incontrato i suoi grandi amici, Mafai, De Libero, Beccaria, Gentilini, ma anche maestri come Ungaretti che incontrava nel caffè Aragno, con Scipione, Cecchi e Barilli ecc.
Adesso un parco dalla natura prodiga, che ricorda la dolce provincia dell’Agri, da cui partì all’età di nove anni, accoglie bambini, giostrine e amanti del tempo libero e dell’aria buona, imprigionando il genius loci di un Leonardo del Novecento.
Chiedo ai gentili lettori e amici poeti di arricchire questo post (splendido parco) con un fiore (poesia) del grande Sinisgalli da inserire nei commenti. Grazie.
Faceva piena nei canali
la sera fiorita di eriche
e cresceva fino a toccarti il piede.
Chiamavi l’ultima luce
all’inganno della fonte e la rondine,
il petto molle dei primi
voli sugli orzi, ti garriva
nelle vesti.
da “Vidi le Muse”
non avendo molto tempo a disposizione, in questo periodo della mia vita, posso solo dire a pelle che l’idea di un parco intitolato ad un grande della poesia è bellissimo!
Poesia per una cicala
.
Io non so cantare lo zelo
della formica immortale.
Più vicino alla mia sorte
E’ lo stridore della cicala
Che trema fino alla morte.
Nel tempo mio diletto
Mi confidavo a quell’ira
Insistente che mi assopiva
Con la cicala nel petto.
Ora nello sfacelo
Della mia giornata mi resta
Un po’ di polvere in pugno,
Ma tanto vale la tua spoglia
Che ancora risento quel melo
Stormire e nell’aria di giugno
La tua allegria funesta
Nascere dietro una foglia.
.
Da “Vidi la Muse”
Infioriamo quindi, penso poi che questa sotto sia anche in tema.
Non è un orto
o un giardino
il cimitero
dove io sono sepolto.
È un luogo assorto,
un muro.
Ogni bene è scontato,
ogni debito pagato
e il nome tutelato.
Mio amico, fratello
contami i vecchi giuochi,
il fumo, i fuochi antichi.
Prendi di me l’effige,
le rughe, la fuliggine,
le lacrime, la ruggine.
Non è un orto
o un giardino
il cimitero dove io sono sepolto.
È un regno spento, muto.
Qui l’amore è perduto.
Qui la festa è finita.
Complimenti per quest’iniziativa.
Ho scelto questa, perché penso che un poco mi somigli.
Uno spicchio di pera.
Raramente mia madre
buttava via una pera fradicia.
Riusciva sempre col suo coltelluccio
che aveva la punta ricurva
e serviva a scappucciare le orecchiette
a salvarne almeno uno spicchio.
Ora non so dolermi
Ora non so dolermi
Se la mano nel buio
Tocca il fondo e tu non ci sei.
Allora cercavo la tua ombra
In quella del muro
Sulla terra bianca d’infanzia.
I compagni gridavano a perdifiato
Freschi di capelli nell’afa.
Tu muovevi la polvere dietro le spalle.
E questo è l’anti-parco (almeno credo) di Sinisgalli:
CREPUSCOLO
Il crepuscolo si deteriora,
gli uccelli penzolano
dai rami tra carte
e calze.
IN CAPPELLA
Mi godevo all’alba la crescita
dell’unghia del mio indice.
L’affondavo nel legno tenero
dei banchi aggiunti
per far posto agli spilungoni.
Leonardo Sinisgalli
Epigrafe
La poesia è dedicata ad una sorellina morta
Quando partisti, come è nostra usanza,
inzepparono la cassa dei tuoi piccoli oggetti cari.
Ti misero l’ ombrellino da sole
perché andavi in un torrido regno
e ti vestirono di bianco.
Eri ancora una bambina,
una bambina difficile a crescere.
Pure fosti accolta con rassegnata dolcezza,
custodita e portata alla luce
come matura la spiga in un campo esausto.
lo ricordo, sorella, il tuo pigolìo
quando ti chiudevi a piangere sulla loggia
perché volevi andare sul tetto a stare.
Eri felice soltanto se potevi sollevarti un poco da terra.
Ti misero nella cassa gli oggetti più cari,
perfino una monetina d’oro nella mano
da dare al barcaiolo che ti avrebbe accompagnata
all’altra riva. Noi restammo di qua
nella grande casa che tu sapevi rivoltare come un sacco.
Per un po’ di giorni nessuno ebbe voglia di riassettarla.
Ci raccogliemmo intorno al camino
pensando al tuo grande viaggio,
alla tristezza di mandarti sola in un paese sconosciuto.
La nonna stava ad aspettarci da anni.
Da anni nessuno di noi era stato chiamato.
Nell ‘immensa plaga, in quella lunga quarantena
come avete fatto a riconoscervi?
Ti avevamo messo dentro la cassa gli oggetti più cari,
il tuo ombrellino, il tuo pettine, un piccolo mazzo di fiori.
Mia madre ti seguiva ad ogni tappa, dalla casa
alla chiesa, dalla chiesa al cimitero.
Dava ricetto nella sua stanza ad ogni farfalla,
e tenne per lungo tempo la casa aperta
nella speranza che tu potessi tornare.
Un giorno una donna venne a bussare alla porta,
a dirci che ti aveva sognata.
La donna aveva una bimba malata, una tua compagna,
cultura e società
e tu avevi visitata.
Parlasti in sogno a quella donna, chiedesti qualcosa
che ella non sapeva: perché non sentiva in sogno
e tu parlavi e pareva che chiedessi una cosa
che nella confusione del distacco era stata dimenticata.
Mia madre rovistò tra le tue carte,
stette a lungo a cercare i tuoi quaderni a uno a uno.
Guardammo per l’ultima volta
la tua scrittura tenera, il tuo esile nome
scritto dalla tua piccola mano.
Furono legati con un nastro bianco i tuoi quaderni
che avevamo dimenticati. La bambina te li avrebbe portati.
Aggiustammo i tuoi quaderni nella cassa
della compagna che tu avevi prediletta.
Anch’essa venne vestita di bianco
nel torrido regno da cui nessuno è mai tornato.
da “l Campi Elisi”
Campi Elisi
Di là dalla dolce provincia dell’Agri
Siete approdati alle rive sognate,
Oscuri morti familiari.
Le vostre salme hanno dato salute
Al verde degli orti.
I campi di fave si sono allargati
Oltre i cancelli:
Dove arse superba l’età delle rose
Le capre pestano la terra
Nei giorni di siccità.
(Vidi le Muse)