Costretto all’inerzia quasi assoluta, Sinisgalli settantenne era nella impossibilità di andare in giro per le strade, con gli amici o solo, a cogliere sensazioni improvvise. Sembrava che gli oggetti gli fossero diventati muti. Da giovane cercava la poesia come si cercano i funghi, rovistando pazientemente tra le radici degli alberi e nei cespugli. E la trovava. Nel 1978 la moglie Giorgia era gravemente ammalata e sarebbe morta poco dopo, il 16 dicembre dello stesso anno. L’artrosi e la cattiva circolazione gli avevano rotto le gambe e le braccia, sicché poteva, ormai, solo aggirarsi intorno alla casa. Trascorreva giorni e giorni dentro la sua camera, fissando il vuoto. Da quel vuoto, che si apriva come un buco nero nella superficie di uno specchio, e non come un buco, attraverso il quale, come in passato, filtrasse una luce nunziatrice, egli vedeva, talora, zampillare una “fola”, ultimo segno di una vita esaurita. La poesia si faceva pura registrazione sconnessa, quanto mai viziata. Veramente si tratta, come dice il poeta, di residui legati soltanto dal mastice dei contrari, come “rifiuti di un’Opera virtuale, schegge di un sospiro Unicum, monadi nate su una inarrestabile disintegrazione, o stelle raminghe della rapace entropia cosmica”. Il poeta non cantava più; balbettava.
Il senso della fine prendeva Sinisgalli. I suoi “oggetti” anche quelli più cari assumevano non più un senso nostalgico ed evocativo, ma diventavano piuttosto frantumi. Proprio il senso della fine è, in sottofondo, il motivo conduttore della raccolta, a cominciare dall’immagine, bella nella sua essenzialità, di una fontanella, posta sulla rotabile, che stenta a riempire d’acqua il cavo delle mani: “La vena s’è ridotta a un filo,/ il solleone la strozzerà. / Bevo le ultime gocce / ancora sapide di neve. / Ce ne vuole per riempire / la cavità delle mani”.La morte è quasi una ossessione. Il cimitero di paese, perciò, è sentito con quel senso di pace, ma anche di amarezza che viene dalla stanchezza e dalla rassegnazione: “Il campo delle allodole/ è a fianco del cimitero/ in una distesa di stoppie/ senza alberi. Si vedono in aria/ ruotare forsennate/ e col becco sdrucire veli di luce. / Poi ruzzolano per contendersi/ un chicco di grano”. Il cimitero non appare più come i Campi Elisi; la madre “è ricordata da una scritta sbiadita /su una lapide. / Trentatre anni / sono trascorsi da quando la composero / sul letto. Per la valle passavano soldati in fuga”. I morti sono sempre vicini. “Mangio, bevo, leggo, scrivo/ in comunione con i morti. / Anche la latrina/ ha una piccola finestra/ che inquadra le croci sulla collina”.
Per questo senso diffuso della morte, gli oggetti sembrano assumere i caratteri degli oggetti montaliani. Ma ciò è vero solo in apparenza. I correlativi oggettivi di Montale riflettono il male di vivere universale. Montale, di conseguenza, è freddo osservatore del mondo, in cui egli legge il male cosmico. La morte per Sinisgalli è la fine della vita, e quindi dei sogni, delle illusioni, ma anche del bello del vivere. In Montale non scatta mai un sentimento di rabbia o di ribellione, perché domina la divina indifferenza. Qualcuno parla di stoicismo. Per Sinisgalli il discorso è diverso. La morte è il contrario della vita, la sua negazione; non esiste, anzi, la morte, ma ci sono i morti. Ed è uno stillicidio, che riguarda, appunto, creature viventi, singole e autentiche, portatrici di un nome. Morire è come perdere il proprio nome, cioè la propria individualità. Ed è come quando si stacca il nome dall’oggetto.La morte comincia con la vecchiaia e si presenta come perdita della memoria, che è già una forma di morte, perché è uno scomparire: “I nomi si sono scollati / dalle cose. Vedo oggetti / e persone, non ricordo / più i nomi. A piccoli / passi il mondo / si allontana da noi, / gli amici scendono / nel dimenticatoio”. Non ci può essere, divina indifferenza, ma, trattandosi della scomparsa di esseri viventi, c’è partecipazione dolorosa che si rinnova ogni volta che un essere, soprattutto se amico, scompare. Nessuno vuol morire; perciò la morte è uno strappo inesorabile, cui si cerca di resistere. La fontanella, sulla rotabile, si sforza di conservare la sua vena d’acqua.. Singhiozza. “La vena s’è ridotta a un filo, /il solleone la strozzerà. / Bevo le ultime gocce / ancora sapide di neve. / Ce ne vuol per riempire / la cavità delle mani”.
Singhiozza anche, tecnicamente parlando, la poesia. Le liriche si fanno brevi, ridotte, a volte, a soli due o tre versi, che sono semplici annotazioni. Non c’è più il discorso lieve e dolce, modulato su larghe volute e su un ritmo spesso musicale, che è quasi un canto. I componimenti sono come “lacerti di composizioni più ampie, trascurate o eluse [ …]. In genere escono sequenze sconnesse che possono far pensare a un processo di automatismo psichico o a un comune stato di ebbrezza o di alienazione”.
C’era una sola via perché si potesse morire meno disperati e con la illusione di poter godere degli affetti di cui si era goduto in vita. Ed era quella di andare a morire nel proprio paese, idealmente ricongiungendosi con le persone che furono care e con gli oggetti che fecero parte della nostra vita. Qui “verrò a morire – aveva promesso a sé stesso – tra i ruscelli / le vigne le pietre / a forma di martello di cuore, / le pietre che chiamano “dinamiche”/ perché sono state limate / nei millenni”. Mantenne la promessa.
Giovanni Caserta
Splendida recensione che ci mostra l’umanità percossa di Sinisgalli, crepuscolare… ma che vuol dire? Leggendo ho trovato energia, e capacità di tradurre in immagini un vissuto sofferente. Poi la profezia. Già , i poeti sono profeti, e per questo restano inascoltati.
Narda
“I morti sono sempre vicini.”
Questo verso di Sinisgalli mi appartiene come pensiero e percezione della “loro” presenza accanto a me.
Lo scritto di Giovanni Caserta è veramente splendido e la poesia di Sinisgalli ne esce viva e pregnante benché parli di sofferenza, di stanchezza, d’ispirazione ormai debole, di morte.
Giorgina
Sinisgallli è un poeta con un senso della morte che avverto molto vicino al mio. Grazie a Luciano Nota per aver proposto questo scritto di Giovanni Caserta
“C’era una sola via perché si potesse morire meno disperati e con la illusione di poter godere degli affetti di cui si era goduto in vita. Ed era quella di andare a morire nel proprio paese, idealmente ricongiungendosi con le persone che furono care e con gli oggetti che fecero parte della nostra vita.” (Caserta)
Non capisco perché i poeti – spesso quegli stessi che apprezzano Leopardi – debbono cercare sempre una qualche consolazione di fronte alla morte. Meglio pensare che Sinisgalli morì davvero disperato. Come faceva a “godere degli affetti” di cui aveva goduto prima se le stesse persone care erano già morte?