La fisiurgia poetica di Camilla Ziglia. Per una lettura di “Rivelazioni d’acqua”, Puntoacapo – 2021, di Gabriella cinti

filePer accostarsi a questo libro con il giusto approccio, occorrerebbe spogliarsi di intenti critico-metodologici precostituiti volti a comprendere i nuclei di forza della poetica di Camilla Ziglia: piuttosto sarebbe opportuno affidarsi ad una recettività ermeneutica in grado di accogliere una complessità simbolica tutta affidata alla presa diretta, una oracolarità poetica affidata al contatto misterico con la natura. Si dipana una ricerca lirica della verità nel senso greco, di un disvelamento mai integrale, suggerito da vele “diagonali”, pregnante metafora di un’obliqua ricerca di senso, come cogliamo in questo testo quasi paradigmatico (p.49).

Chi legge il mondo su assi cartesiani
trascura la diagonale della vela
smarrita nel fileggio,
che sbatte e si ritorce
inarca e si distende
libera

e tutta esposta al vento.

Colpisce in primis la dimensione dei sensi, come organi preposti, cui è consegnata tuttavia non una recezione biologica del mondo, ma un vero compito noetico e medianico al contempo: l’udito, teso a cogliere i minimi sussulti sonori della natura, i suoi silenzi, e soprattutto le vibrazioni, per quella risposta ritmica che, in sintonia, suscitano nell’uomo; il tatto compare nei soffi, nelle prese, nel senso di essere afferrati e, soprattutto, l’elemento visivo, quel vedere che, ellenicamente, costituisce l’aspetto fisiologico del pensare, passante appunto dagli occhi, come anche un forte cromatismo nei i testi, dai tratti a volte espressionistici. Questo sentire colloca l’autrice nella disposizione più idonea a cogliere le segrete e arcane epifanie, fulminee per la condensata energia della forma ossimorica che le caratterizza. L’ossimoro si snoda anche nelle polarità chiastiche che contrappuntano in chiaroscuro la scena poetica nei rimbalzi di luce-ombra. Il contatto con l’oltre – che spesso è anche vertiginosamente interiore – fa della ricerca un’operazione alchemica condotta con sbigottito stupore, un’allucinata autoagnizione all’interno di un sé metamorfico, quando non si colloca, con felice tensione analogica – emblema di un correlativo oggettivo ormai del tutto interiorizzato – nella catarsi della dimensione acquea, entità diveniente che rigenera il mondo.

Potente è anche la vena analogica che scorre come linfa nella natura, in particolare in queste creature dendriche coinvolte nel fare senso nel mondo (“senti questo ramo/come s’inarca nell’accordo”), investite di un ruolo non di corollario dell’umano, anzi implicate in sincronicità (junghiana) con l’autrice: “piantato il mio stesso giorno”.
Il tessuto delle liriche presenti è comunque tramato degli elementi essenziali della natura, gli alberi, il vento e soprattutto il lago, come spazio cerniera di due mondi, celeste ed equoreo, dalle insondabili profondità, luogo dove la visione a occhi chiusi si affina in scaglie di “dettagli” (“Questo vento/scheggia l’aria del lago/esplode dettagli/sferzante sugli occhi”, p. 47; “il contorno vibra, si scompone/va in pezzi/fra i gabbiani in picchiata”, p. 48) e immette in arcani riconoscimenti (“si avvera un’oscurità più limpida/a occhi sgranati”, p. 29). Avviene una coscientizzazione concentrata della materia fisica, che dialoga con la poetessa, specchiandosi in lei come un io narcisico (ma dialogo dolente con gli umani) compie i suoi riti sulle superfici acquee, in una inesausta pulsione apotropaica. Si tratta, si badi bene, di un rovesciamento di prospettiva. È la natura soggetto che cerca di accostarsi al poeta, prende in prestito i suoi occhi per una segreta istanza di consapevolezza e le parole acquisiscono valenza di trasferimenti ontologici che garantiscano una certificazione d’essenza. E come le acque mobili che compaiono spesso, circola una segreta e continua trasmutazione da oggetto a soggetto finché i confini si perdono e si ritrovano su quella linea metaforica dell’orizzonte lacustre. Le polarità del mondo, il fluire trascolorante dei regni minerale, animale e vegetale, si snodano in una rete comunicativa animistica in un senso antropologico di livello elevato, confluendo in una sostanziale convergenza – pur tra corde diverse – sincrona del gran gioco del mondo. Una pietas metafisica accora e accorda i sussurri di una parola, quella delle cose, che si fa forma e colore, immagine vibrante di silenziosi cromatismi. Il tono dominante è un sottovoce che ci suggerisce una particolare complicità, un intimismo straniante, alla nabis. Vi è molto di più di un coinvolgimento o di una proiezione del sé – che anzi rimane in ombra – la natura, gli alberi e la terra sussumono il meglio degli umani e arcaicamente li accolgono, o meglio compare l’istanza non di una regressione, ma di inclusione metamorfica: “Sprofondare largo/ farsi terra /respirarne le muffe e la torba/ finché non serve più/ respirare in questo sentirsi/ risucchiare da radici / e proiettare in alto lungo i fusti/ fino alle foglie che tremano /che ansimano di luce”. Questa prodigiosa trasfigurazione si realizza solo grazie ad una percezione sapienziale e sciamanica, catabasi e anabasi ossimoricamente compresenti, il tutto affidato a una poesia che non è solo espressione ma piuttosto strumento “fisiurgico” (se mi si permette il conio). La prospettiva spinoziana si fa ancora più complessa in quanto tramata di un’inquietudine che si pacifica solo a tratti, come una tregua provvisoria e per questo ancora più consolante. Fotografia e comunicazione poetica di “eternità di istanti”, in una prospettiva fusionale, ci vengono donate “con gli occhi” della natura, in quella frontalità senza intermediari che è riservata solo agli eletti. Il paesaggio si fa passaggio, percorso di una conoscenza che è agnizione di uno stato anteriore, a tratti preumano, di cui è emblema “la verità dell’acqua/ senza forma, colore, senza tempo/ e senza neppure il nome”. Sottile ed espresso con straniata vigilanza è il parallelismo tra stati di coscienza, fenomeni atmosferici. Originali e cortocircuitanti le incursioni in una lucida osservazione etologica senza cadute nel patetico ma con un’inclinazione asciutta e catturante verso una miniaturistica dimensione ornitologica. Ci conduce in quel concetto di “ordine” segretamente presente nel libro, come tra i più complessi nella visione del mondo dell’autrice, un ordine non più cartesiano, che si palesa come un orientamento veritativo sfuggente o contemplabile, più che un approdo, una conquista cui tendere – appunto – attraverso anche le “rivelazioni d’acqua”, idrofanie lacustri, misteriche e metapaesaggistiche. La stessa disposizione frammentaria delle immagini conduce a questo tessuto percettivo per lampi e apparizioni. I contenuti di comunicazione, specialmente quelli drammatici, sono affidati a manifestazioni naturali che si fanno portavoce di un io distopico, espanso lucrezianamente nel brulicame del vivente, che si muove tra percezioni profetiche affidate ad intuizioni sinestetiche: da esse traluce uno smalto letterario di plastica esattezza ma al contempo esse costituiscono un potente strumento gnoseologico. L’autrice ci mostra un ordine delle cose in apparente equilibrio (“In superficie la calma /delle cose compiute”), una corda tesa tra gli abissi che sovrastano l’essere, uno spartiacque provvisorio tra due mondi altrettanto inconoscibili e abissali, il celeste e il sommerso. La carica noetica affidata ai simboli cerca quindi di sondare l’ignoto, di aprire un varco (ciondolo lanciato nel lago o sguardo proiettato nell’oltre), cosciente della inanità di tale slancio. Le colonne d’Ercole del conoscibile infatti risospingono indietro ogni tentativo ulissico. Ecco che allora Ziglia ribalta l’impasse, non interroga più ma lascia che siano le cose a mostrarsi, a parlare di loro, a lasciar trapelare qualcosa dei loro segreti, autorappresentandosi. Con ciò si raggiunge un prodigioso risultato. Camilla Ziglia riceve in dono dai Numi una lingua diversa, la lingua della Natura, che si autodecodifica o meglio lei ne è la impareggiabile e simultanea traduttrice, lei stessa “stele di Rosetta” delle forme non umane del vivente. Questo ruolo possiede una singolare sacralità che esula dalla dimensione poetica, per farsi missione, investitura spirituale. La silloge si configura quindi come un’esplorazione esistenziale dell’autrice tra i gorghi acquei misteriosi della vita, armata solo della fiocina di una visione misterica e sapienziale che è il vero dono della poesia e che a Camilla Ziglia offre autentiche “premonizioni”, illuminate e umbratili, strumenti della sua ricognizione metaforica e ontologica della realtà.

Gabriella Cinti

 



M’ha strappata a viva forza
strattonata per i polsi
all’apertura delle imposte.

Eccolo là che ancora lacera
le proprie vesti, è violento il cielo
stamattina, invincibile!

*

Il sole più freddo
acceca la neve d’alta quota
rimbalza e tuona dritto
all’alone scuro
lo strappo sull’altissimo universo
senza stelle,
giovane ancora
a quest’ora del mattino.

*

Una luce rosata sulle nevi di vetta

a valle filtriamo alterazioni
d’ombra, succhiamo riflessi
il tepore giallo dei volti arrotondati.

Indoviniamo il lampo all’orizzonte
le braci d’oro, gli spazi assolati del giorno
-che ancora è giorno-
sul ghiacciaio.

*

Un taglio di luna piena
il breve alone ceruleo che separa
il chiarore dalle ombre

quello è il filo del cammino,
dove si ferma lo sguardo

e non trova.

*

Il salto dei lavarelli rivela
il ventre nero del lago.

Dal vetro della campana
al riparo dagli schizzi
si avvera un’oscurità più limpida
a occhi sgranati.

Camilla Ziglia

 

Camilla Ziglia è nata e vive a Brescia, dove si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Premio “A. Gemelli”), insegna Discipline letterarie, Latino e Greco in un liceo. Suoi inediti hanno ottenuto il primo posto in alcuni concorsi letterari (“I colori dell’anima”, “Il Sublime di Lerici”), riconoscimenti da parte della giuria (Premio speciale “Ossi di seppia” ediz. XXV, Menzione d’onore al Premio “L. Montano” 2019). Compare nelle antologie cartacee di diversi premi, su “Atelier online” e altri siti o blog, nell’ebook iPoet, lunario in versi. Tredici poeti italiani (LietoColle 2019), nell’agenda poetica Il segreto delle fragole (ivi 2019). Ha partecipato a numerose letture, condotto eventi e presentazioni di poeti contemporanei. Rivelazioni d’acqua è il suo libro di esordio; con il titolo Fotogrammi, la raccolta è risultata finalista a “Bologna in Lettere”, “Beppe Salvia – Opera prima” e Menzione speciale al “Lago Gerundo” 2020.

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