Questo canto fu scritto, come ci assicura l’autografo, a Pisa, il 15 febbraio 1828. Nulla più che uno scherzo è veramente questa favoletta allegorica per mezzo della quale il Leopardi, rappresentando se stesso come un garzone apprendista nell’officina delle Muse, vuole esprimere un suo giudizio critico sulla poesia dei suoi tempi; poesia, secondo lui, improvvisata e mai sottoposta dai vari scrittori a quel labor limae, ossia a quel processo di meditazione, di revisione, di rielaborazione che solo può produrre vere e durature opere d’arte. L’aggettivo stanca del v. 17 ha lo stesso valore dell’altro aggettivo consumata del v. 15; al quale uso il Leopardi fu forse indotto dal significato di “fallire, venir meno, essere imperfetto”.
SCHERZO
Quando fanciullo io venni
A pormi con le Muse in disciplina,
L’una di quelle mi pigliò per mano;
E poi tutto quel giorno
La mi condusse intorno
A veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell’arte,
E i servigi diversi
A che ciascun di loro
S’adopra nel lavoro
Delle prose e de’ versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla
Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
Giacomo Leopardi
“Nulla più che uno scherzo”? O non piuttosto “vere e durature” riflessioni espresse con la sublime levità dello “Scherzo” ben valide ieri, soprattutto oggi e forse anche domani?
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