La poesia di Cecco Angiolieri e il suo Canzoniere irridente e beffardo sono abbastanza noti anche se spesso offuscati da scuole poetiche di maggior risonanza, come la scuola siciliana di origine provenzale e il dolce stil novo. Compresso tra questi due poli l’Angiolieri è stato, spesso sbrigativamente, associato ad un filone comico- umoristico che serpeggiò nel ‘200 senza raggiungere significativi esiti. Una lettura senza dubbio riduttiva e che non tiene conto di come quei fermenti, seppur minoritari, non si siano spenti, ma confluiranno, trasformati e rielaborati, nell’arte di Boccaccio. Il genere comico/umoristico o realistico, considerato generalmente “basso” rispetto ai toni elevati della poesia coeva e successiva (Dante e Petrarca), secondo i canoni dell’epoca, rimase cosi laterale e secondario, quasi irrilevante, nel clima culturale del tempo tendente ad una sublimazione del reale. Pochi dati sicuri emergono della sua vita. Cecco nacque probabilmente intorno al 1260 a Siena da famiglia nobile, il padre banchiere di Papa Gregorio IX, era una figura di spicco nell’ambiente senese, facente parte dei Signori del Comune e anche membro dei cosiddetti Frati Gaudenti. Lo troviamo nel 1288 partecipante alla guerra contro Arezzo in compagnia del figlio. Cecco peraltro aveva già preso parte ad altre spedizioni militari e più volte multato per essersi allontanato dal campo senza permesso, vagando nella notte dopo il coprifuoco e sanzionato con la formula canonica “quia fuit inventus de nocte post tertium sonun campane Communis “, facendo già intravvedere il suo spirito ribelle e antiautoritario che troveremo più avanti nel versi della sua poesia. Rimase anche implicato in una oscura vicenda del ferimento di un tale Dino di Bernardo da Monteluco insieme al calzolaio Biccio di Ranuccio, ma evitò la condanna. Oberato dai debiti vendette una sua vigna e morì intorno al 1312, lasciando ai numerosi figli in eredità il pagamento di oneri verso il Comune. Dalla lettura dei sonetti emergono altre notizie in ordine sparso, forse “bandito” dalla sua città per ragioni politiche e presente a Roma ospite del Cardinale Riccardo Patroni, come rieccheggia in una tenzone con Dante “ s’eo so fatto romano e tu lombardo”. I due poeti sicuramente si conobbero, pur nella diversità dei caratteri e delle scelte letterarie reciproche, sostanzialmente opposte.
La sua poetica fa propria la tonalità dell’improperium e del vituperium in piena dissonanza con la spiritualità e rarefazione della poetica stilnovistica, rovesciandone i canoni estetici e culturali, sostituendo alla esaltazione della virtù la celebrazione del vizio, dell’eccesso; in tal senso Cecco può essere letto come il precursore di quella tendenza della poesia irrituale o “maledetta” che troverà nel suo cammino altre voci in Villon e nei “maledetti” francesi. La vena scapigliata ante litteram porta Cecco ad una opposizione radicale contro il mondo e i valori del suo tempo che gli paiono falsi, fondati sull’ipocrisia. Recupera invece una dimensione realistica e, se per cosi si può dire, grezza, bassa, carnale del mondo che riesce ad elevare a dignità di arte. La sua arte poetica ne risulta non improvvisata né sciatta, ma emerge come il risultato di un’alta elaborazione formale, tale da offrire un paradigma stilistico di sorprendente intensità. Valga in tal senso l’abilità del poeta di inserire nei suoi testi dei momenti dialogati che fanno pensare ad una situazione teatrale, ad una schermaglia che rende icastica la scena. E valga il rovesciamento del canoni stilnovistici dell’amore nel tratteggio di Becchina opposta alle eterea Beatrice. Alcuni sonetti fungono, al di là dell’intenzione dell’autore, come dichiarazione di poetica:
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.
E in positivo:
Tre cose solamente mi so ‘n grado,
le quali posso non ben men fornire:
ciò è la donna, la taverna e ‘l dado;
queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.
Ma sì me le conven usar di rado,
chè la mia borsa mi metta’l mentire;
e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,
ch’ì’ perdo per moneta ‘l mie disire.
E dico: – Dato li sia d’una lancia!-
Ciò a mi’ padre, che mi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.
Trarl’un denai’ diman serìa più agro,
la man di pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
La figura dell’innamorato respinto risuona nei versi di questo sonetto, ove il tema provenzale del servizio d’amore, s’estrinseca nella corposa malinconia di Cecco, con un dinamismo che infrange gli schemi codificati:
La mia malinconia è tanta e tale,
ch’ì non discredo che, s’egli ‘l sapesse
un che mi fosse nemico mortale,
che di me di pietade non piangesse.
Quella, per cu’ m’avven, poco ne cale;
che mi potrebbe, sed ella volesse,
guarir ‘n un punto di tutto ‘le mie male,
sed ella pur: – I’ t’odio – mi dicesse.
Ma quest’ è la risposta ch’ho da lei:
ched ella non mi vol né mal né bene,
e ched i’ vada far li fatti miei;
ch’ ella non cura s’i go gioi’ o pene,
men ch’una paglia che le va tra’ piei:
mal grado n’abbi Amor, ch’a le’ mi diène.
Lo schema teatrale serratissimo di botta e risposta, innerva questo sonetto, ove anche il linguaggio prevalentemente di ascendenza popolaresca, viene filtrato e ricomposto in un ordine formale che non lo depotenzia, benchè limato da una sapiente cucitura:
– Becchina mia? – Cecco non ti confesso.
-Ed ‘i son tu’. – E cotesto disdico.
-I’ sarò altrui. – E tu mi manda ‘l messo.
– s’i, maccherella. – Ell’avrà il capo fesso.
– Chi gliele fenderae? – Ciò ti dico.
-Sei così niffa?- Sì, contro ‘l mio nimico
– Non tocc ‘a me. – Anzi, pur tu se’ desso.
– E tu nascondi. – Perché non vorria?
– Ché se’ pietosa. – Non di te, uguanno!
– Se foss’un altro? – cavere’l d’affanno.
– Mal ti conobbi! – Or non di’ tu bugia.
– Non me ne poss’atar. – Abbieti ‘l danno.
La figura di Becchina, l’anti-Beatrice per antonomasia, è al centro di questo contrasto (si ricordi il genere dl contrasto introdotto da Celo d’Alcamo), e qui riproposto in una incalzante schermaglia, ove la donna ribatte colpo su colpo ai tentativi di Cecco di farsi perdonare per la sua vita sregolata. Il sonetto ha un evidente schema teatrale con la rottura del verso al centro, che ricorda l’antilabè della tragedia greca:
– Becchin’ amor! – Che che vuo’, falso tradito?
– Che mi perdoni! – Tu non se’ degno.
– Merzé, per Deo ! – Ti vien’ molto gecchito.
– E verrò sempre. – Che sarammi pegno?
– La buona fé – Tu ne se’ mal fornito.
– No inver di te. – Non calmar, ch’ i’ ne vegno.
– In che fallai? – tu sa’ ch’i’ l’abbo udito.
– Dimmel’, amor. – Va’, che ti vegn’un segno!
Vuo’ pur ch’i’ muoia? – Anzi mi par mill’anni.
– Tu non di’ ben – Ti m’insegnerai.
– Ed i’ morrò – Omè che tu m’inganni!
Dio tel perdoni – E che, non te ne vai?
– Or potess’ io! – Tègnoti par li panni?
– Ti tieni ‘l cuore – E terrò co’ tuoi’ guai.
Roberto Taioli
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.