
Nazario Pardini
Sono un lupo selvatico,
che vive nei boschi di una casa,
un sentiero dei libri,
sulle piane dei pavimenti,
sbranando carne di poesia,
dissetandosi alle sorgenti dei miei versi….
.. sono un lupo
e attorno a me c’è il vuoto,
e la fuga delle immagini
nell’oscuro del mio giardino:
lo sanno che vivo nelle tenebre
succhiando il sangue dei loro vaghi corpi (Sono un lupo selvatico)
La poesia autobiografica esprime con efficacia la personalità poetica di N. Pardini, che è un poeta di lunga data e di grande prove: la sua passione per la Poesia si perde nei tempi della fanciullezza e le prime sue composizioni poetiche risalgono agli anni 1952-53. Una vita di poesia. Organizza i suoi interventi in un blog “Alla volta di Leucade”, molto noto e molto seguito, frequentato e commentato. Dice di questo suo luogo poetico: “Leucade costituisce il sogno di ogni umano, l’aspirazione ad un’isola di libertà laica, dove le memorie si facciano realtà, e dove la vita si salvi in un impeto di ebrietudine poetica per affrontare, e concludere, in parte, il dilemma esistenziale del patrimonio del nostro esistere…”, e il bianco di Leucade “allude ad un processo di purificazione e di elevazione, ad una conquista quasi metafisica di sé, …o magari a un’ ideale condizione da perseguire, se non da conseguire…”. La Bellezza è il suo mito. Un poeta «antico» dunque, che a lungo andare, forse si rivela più moderno dei moderni. Molte le sue pubblicazioni di poesia, narrativa e saggistica, una trentina. A titolo d’esempio: Le voci della sera, 1995, Elegie per Lidia 1998, Si aggirava nei boschi una fanciulla, 2000, L’azzardo dei confini 2011, Dicotomie, 2013, I simboli del mito, 2015, I canti dell’assenza 2016, Cantici 2017,… Molti i premi letterari e la partecipazione ad antologie di rilievo, molte le collaborazioni come critico e redatore, le segnalazioni sui Dizionari critici di autori della letteratura italiana del secondo Novecento… La sua è una poesia “classica”. Non è mai qualcosa di immediato, emotivo, impressionistico o puramente paesaggistico-descrittivo, ma scaturisce sempre da una ricostruzione allegorica che trova la sua simbologia in un panismo di alto spessore sentimentale. È convinto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole: la poesia è un canto «antico» che ci parla delle nuvole e delle siepi «di tasso e di verbena», di «spighe» solari, di «barbagli», di «trifoglio reciso», di «cromatici oleandri», tutto un universo del paesaggio che sembra essere sprofondato nell’oblio…. Le sue poesie sono spesso canti distesi, lunghi poemetti, in cui emerge, in una visione evocativa/ emotiva il suo mondo geografico (toscano), la campagna, il fiume, la natura, le sue stagioni preferite (soprattutto estive ed autunnali), la sua giovinezza, gli affetti familiari, i ricordi, l’amore, senza facili sentimentalismi e abbandoni facili, l’ansia del futuro, il tema della morte, ma anche la riflessione sociale sulla tragedia dell’umanità in cammino.
Non meno evidente in lui l’attenzione stilistica e linguistica, la ricerca accurata del termine che denota la sua conoscenza ed esperienza di studi classici, una poesia che poggia sulle sinestesie e su un endecasillabo dalla classica positura piuttosto che sulla scelta prosastica del verso .. Il ritmo fluente dell’endecasillabo, talora franto dall’agile settenario caratterizza da sempre la sua Poesia dalle composizioni brevi alle composizioni ampie e sapientemente strutturate. Un esempio: Il vecchio
Ai bordi della piazza, solo, pare
dimenticato là sulla panchina
col cappello inclinato. Una comare
e un ragazzo passando lo salutano
e proseguono la via. La mattina
illumina due cani che lo fiutano.
Assistiamo al rovesciamento del crepuscolarismo, alla ricerca di essenzialità, perduto ormai il racconto della temporalità quotidiana rassicurante. Bordi, margini, confini: le parole dell’esclusione. Solitudine. Le parole emblematiche del vuoto, sono contrapposte al pieno che configura l’idea di piazza, cui il vecchio, sulla panchina, col cappello inclinato, altro segno di esclusione,non appartiene. Nessuna amicizia: i poveri incontri dei diseredati e dimenticati: la comare e il ragazzo che salutano indifferenti. C’è luce intorno in questo gelido autunno dell’anima. Illumina i due cani che non lo riconoscono dei loro: lo fiutano incerti. Richiami minimi, che escludono il pathos, visioni giustapposte ,ferme, che improvvisamente assumono riflessività melanconica pregnante. Poche pennellate per realizzare un quadro dove solitudine ed emarginazione stanno in primo piano. Un disegno amaramente reale. Riceve saluti che hanno sapore di congedi il vecchio, e due cani, nel sorgere del sole, lo esaminano come eventuale preda per marcare il loro territorio. E questo è il significato delle due terzine sublimi in endecasillabi. Due terzine perfette, scritte seguendo le regole del metro classico per lasciarci liberi di immaginare…
Oppure: Piazza Belvedere
Piazza Belvedere, a sera, sul gradino
stavo disteso immaginando il cielo
e i sogni con voli fittizi senza esito
rischiavano sconfini,
gli stessi che fuggivo da bambino
nascosto nell’ombra di notte
per paura dei grovigli dell’azzurro.
Ficcavo la testa nell’erba
che ricordava profumi:
l’odore stridente del grano,
delle pesche giallo-luna appese al blu,
degli aghi di un pino sopra la cimasa.
Ronzava in sordina la fiaba
di un eroe che sconfiggeva le distanze.
Stasera mi sono disteso
sul gradino di piazza Belvedere;
ho sperso lo sguardo tra le stelle
annusando l’odore di gramigna:
strade bianche di polvere tra i cipressi,
chicchi di maggio a gonfiare le spighe,
spolveri perla dai rami degli ulivi
a spiovere sull’ocra di giunchiglie.
Ho ritrovato i brividi del vuoto
sillabando una fiaba nella mente.
Malinconia e gioia di una vita che si dipana nel tempo e che è stata ricca ed immaginosa quanto poco consapevolmente conosciuta, solo assaggiata nelle sue ondivaghe dolcezze. L’infanzia spensierata, innocente, la vita tutta da vivere, la paura del bambino di perdersi nei “grovigli dell’azzurro”. L’adolescenza saputa: immaginando il cielo/ e i sogni con voli fittizi senza esito/rischiavano sconfini,…: tutta una sinestesia di luci, suoni e colori, il profumo dell’erba, l’odore “stridente” del grano, delle pesche appese al blu… Sensazioni forti. Un eroe che sconfigge le distanze. L’adulto torna a ripetere la “favola bella”: sperde lo sguardo tra le stelle, annusa gli odori di sempre, le luci sbiancano il paesaggio ricco, ubertoso, maturo. Si ripresenta la favola: è un brivido…sul vuoto. Poesia di grande cultura e grandi emozioni.
L’ultima sua pubblicazione è Cronaca di un soggiorno,2017, ed. the Writer ,dal titolo emblematico, ed anche un po’ inquietante nella precarietà diminutiva di significato esistenziale che il termine “soggiorno” porta con sé e nella dimessa volontà narrativa: “cronaca” -CRONACA DI UN SOGGIORNO- Desta commozione l’osservare quanto sia generosa la Musa nei suoi confronti: gli dà la possibilità di continuare ad esprimersi, di vivere, di comunicare e moltiplicare le sue emozioni segnando il suo percorso poetico in modo incisivo e indimenticabile. Interessante l’ introduzione che riprende il tema baudelairiano del poeta come albatro e il tema del viaggio verso orizzonti inesplorati o forse impossibili e la riflessione sulla potenza della parola poetica.Temi eterni sui quali tornare a meditare.
Della nuova silloge N. Pardini segnalo alcune poesie: la prima – Il profumo della rosa-:
Quanto breve il profumo della rosa,
il suo bocciolo da regina!
dovevi respirarlo sorridente
quando sfidava il rosso dei tramonti…
Ci immette col suo gioco di rimandi e rimbalzi nel tema della misurata malinconia della brevità della vita e della bellezza, sempre effimera, caduca “nelle mani del vento”, ed apre al mondo dell’autore, misterioso evocato ne –Il viola dei cisti– che colora le dune spaurite e risponde timido all’azzurro del mare, dove il maestrale intona le sue sinfonie morbide nella luce, e la musica di Glen Miller, il suo sound vellutato, che ben sa utilizzare la sordina, dà corpo e significato all’inespresso sentimento che parla col suo linguaggio primitivo nella luce…
Il viola dei cisti sulle dune
Fa l’occhiolino al mare e il maestrale
Risponde coi buffetti sulle guance
Ai figli dell’estate…
Ci confrontiamo con una “evasione” poetica ed esistenziale,quella dell’uscita delle colonne d’Ercole della realtà quotidiana, verso l’isola della poesia, l’invocata Léucade, -la mia isola- una frontiera inesplorata ai più, un sogno che apre al sovra-sensibile, una porta che si apre verso l’armonia e il mistero, tra musica e profumi di cisti e di ginepri e cristallini, foce riposante di fiumi, l’universo magnetico dei profumi selvaggi, nuove fragranze, suoni palpitanti … e ti ritrovi immerso nel coro a bocca chiusa di Puccini, nell’unico mondo di verità di certezza che il poeta conosce dopo un percorso “sopra una barca effimera e precaria/contro venti nemici che la spinsero/ su scogli crudi e aguzzi”: un mondo di Melanconia, di sentimento, passioni, memorie che si disfano, in una “ natura fresca d’immagini procaci”, quasi dimentico e reso insensibile alla follia del mondo che ha rinunciato a capire, in un totale abbandono ai misteri del Bello, e al fascino della musicalità. Una ricerca di quiete -totale- che ha lasciato dietro di sé anche il sogno dentro il sogno- il mondo delle inquietanti riflessioni filosofiche e della conoscenza mitologica.
Dopo un lungo viaggio è là che io vivo
La tanta sospirata verità……
È questa la mia isola. Lontana
Dai rumori di terra, dai frastuoni
Che inondano le strade, dagli odori
Che marciscono dentro….
Non meno evidente in lui l’attenzione stilistica e linguistica, la ricerca accurata del termine che denota la sua conoscenza ed esperienza di studi classici, una poesia che poggia sulle sinestesie e su un endecasillabo dalla classica positura piuttosto che sulla scelta prosastica del verso .. Il ritmo fluente dell’endecasillabo, talora franto caratterizza da sempre la sua Poesia fin dalle composizioni brevi alle composizioni ampie e sapientemente strutturate. Pennellate pensose. Armonia di miniatura, perfetta in versi e rima: tra “tumorose e spente foglie e uno schizzo di rubino sull’incolto…”, metafora della vita e della sua quotidianità: “Gioia eguale sulla vita che scorre indifferente”. Un mondo di significati e bellezza, traspare dalla osservazione di una piccola rosa. Preziosa come ogni ultimo gesto, ogni ultimo sguardo, ogni ultima voce delle cose care di cui conserviamo, miracolosamente, per averla conosciuta, la gioia- che mirabilmente si mantiene “eguale” ad ogni altra gioia vissuta:
apparire frizzante di foglie
azzurrarsi odorato di cielo
marcire autunnale di spoglie.
Riproponiamo , per concludere, due poesie esemplari: Il viola dei cisti e Nausicaa sulle rive del Serchio, che ripropone il mito. Nausicaa la giovane, la bella, la innocente fanciulla che gioca sulle rive di un Serchio immaginario. Il sogno, l’ideale utopico di ogni Ulisse: “lo splendore degli anni, il bello dell’amore.” Lui sa: “ Ha navigato percorrendo gli oceani perché tutto scorre, nulla è mai come pensi che sia… perché la Medusa, fragile eppur pericolosa, ti attira verso l’inconoscibile, infinito desiderio…”, perché l’onda che si abbandona sulla spiaggia ti porta, vecchio ormai e cieco dopo tanta bellezza, forse a Penelope oscura, forse a Calipso la nasconditrice, forse a Nausicaa, la fanciulla incantata…. Lei unisce stupore, ammirazione e bellezza.“Il fulgore del bello”. La palla splendeva d’oro e Nausicaa la lanciava, la riprendeva, correva verso il sole,… poi le sfuggì di mano. E un vecchio- occhi fonte di dee- venne, le porse la palla: < Come sei bella, Nausicaa.. sei donna o dea?>, disse, e si perse nell’intrico verde. … , e narrò la peregrinazione, e venne tra loro evocato il forte iddio, traboccante desiderio. Lei non ha ancora declinato ammirazione sapienza e amore. La serica veste fu strappata. Inutile spreco di un “uomo logorato dai marosi”, dopo aver acceso in lei il desiderio di donare all’uomo la humanitas smarrita, la pietà, ammantata di necessità, di giustizia, di coraggio contro la debolezza. Il labirinto dell’anima. L’amore. Poteva ormai continuare il cammino tra gli uomini, indifferente alle garrule voci del mondo? Eppure- e lo pensavano entrambi- la vita è bella e riempie di frenesia che succhia il midollo, mostra le cose nel loro mistero.
Maria Grazia Ferraris
Nausicaa sulle rive del Serchio
Ho sempre immaginato che alla foce del Serchio
nel punto in cui il mio fiume sfocia in mare
ci fossero fanciulle arzille e gaie
a stendere il bucato sopra i rovi
che si assiepano attorno. E che nel fosco
delle pinete zeppe di frescura
ci fossero, sepolti dalle foglie,
naufraghi a riposare nell’attesa
di essere destati dalle grida
delle stesse fanciulle intente al gioco.
In ogni luogo delle mie canzoni
ci sono Nausichee a ricordare
lo splendore degli anni. Il bello dell’amore.
Il fulgore del bello. Nausichee
che si aggirano su spiagge per narrare
canti di gioia, speranze giovanili,
sogni di dee, immagini di volti.
E nel mio mondo fittizio e nei dintorni,
su consiglio di Atena, giunta in sogno,
Nausicaa appresta il carro; vi dispone
con le ancelle che corrono al richiamo
le vesti da lavare lungo il Serchio.
Il fiume si disperde e quieto è il mare,
le cui onde carezzano le sponde
con dolce melodia. Da quell’acque
esce spossato Ulisse, naufragato,
spoglio di panni e salvo dagli affanni.
Si addormenta in disparte, ricoprendo
di foglie sparse il corpo affaticato.
Intanto Nausicaa con le ancelle,
nude le forme e tondeggianti i glutei,
si mette a giocare sulla spiaggia
nell’attesa che il tempo renda asciutto
il candido corredo esposto al sole.
Ma la palla non sempre segue il corso
e questa volta dritta va nel fiume
facendo uscire dalle labbra in fiore
un urlo di sorpresa che risveglia
il naufrago assonnato. Egli da subito
strappa una frasca alla ridente acacia
per tappare sul corpo le vergogne.
Fuggono le ancelle in qua e in là
stupite dalla insolita presenza
di un uomo logorato dai marosi.
Ma Nausicaa resta. A lei si volge,
rapito dal fulgore dei suoi occhi,
Ulisse sbigottito, frastornato:
“Sei donna o dea? Incantevole visione?
Dai lividi del mare io scampato
rimasi venti giorni nei suoi flutti.”.
Per un nuovo sentir che la percorre
lei gli si scioglie, sorpresa dalla vista
di un divino apparire, dalla grazia
di un fisico scolpito dai salmastri.
E insieme
si dirigono alla rocca dei Feaci,
dove suo padre regna.
Il viola dei cisti
Il viola dei cisti sulle dune
fa l’occhiolino al mare e il maestrale
risponde coi buffetti sulle guance
ai figli dell’estate. Tutto tace
su questa spiaggia sola e abbandonata.
E’ luce attorno. Ma è vera sinfonia
di palpiti gentili, di nascosti
linguaggi primitivi, di strumenti
che arrivano con gli archi
nei meandri dell’anima. L’azzurro
è il primo attore. Ti prende e ti trascina
in isole lontane, all’orizzonte;
ti è fonte d’illusioni, di astrazioni,
di sperdimenti. E più ti riconosci,
non ti ritrovi più oltre gli affanni;
sei ospite di terre in mezzo al mare
lontano dai rumori della vita.
Se poi viene la sera e dalla riva
odi Chiari di luna di Glen Miller,
l’ombre annuncianti l’aria della notte
ti chiamano a godere dei profumi selvaggi
che tutt’attorno irrorano fragranze.
Nazario Pardini
Grande pagina, amica. La tua vèrve esplorativa corre limpida come l’acqua di un ruscello alla sorgente. E la tua è poesia nella poesia. Siamo dei navigatori in un mare non sempre quieto e Lèucade è un’isola a cui cerchiamo di approdare portandoci dietro il patrimonio delle nostre memorie. Il fatto sta che essa allontana sempre più la sua sagoma e noi ci troviamo spersi in un oceano spesso in tempesta. Basta non perdere la voglia di andare; il desiderio di conquistare quelle sponde, per poter riposare là e concederci sguardi a nuovi orizzonti che, senz’altro, ci chiameranno ad altre imprese impossibili; se sbatteremo la barca in scogli aguzzi è importante sentire in noi lo stimolo a volgere lo sguardo oltre i confini.
Grazie a Erato e a te grandissima scrittrice
Nazario
Nazario è un grande poeta, un grande amico. Lui è figlio della poesia, la poesia intesa come disseminata lungo l’arco delle vicende umane, col coraggio di capirlo, di smuovere punti e traiettorie, di renderlo accettabile attraverso il sogno, la vera bellezza. E ha in più il segno di essere tremendamente umano. Un saluto caro, Nazario!
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.
Sento tutto a me molto vicino: la poesia classica di Nazario Pardini e il suo commento, la bellissima introduzione di Maria Grazia Ferraris, le parole di Luciano Nota. Avrei solo, di questa magnifica e composita pagina, cassato un “forse”: ” Un poeta «antico» dunque, che a lungo andare, si rivela più moderno dei moderni”. A tutti la mia commossa gratitudine.