
Giuseppe Giusti, Monsummano Terme, 13 marzo 1809 – Firenze, 31 marzo 1850
Giuseppe Giusti nacque il 13 marzo 1809 a Monsummano Terme, dove poi si stabilì con la famiglia. A Montecatini, come narra egli stesso in una lettera autobiografica scritta nel settembre del 1844 ad Atto Vannucci, fu “educato da un prete, buon uomo in fondo e anche dotto“. Passò poi a Firenze nell’istituto Zuccagni sotto le cure di Andrea Francioni, “l’unico maestro” che egli riconobbe veramente tale. Ai dodici anni risale il suo primo saggio poetico: certe ottave sulla Torre di Babele. Dal 1831 in poi si volse alla poesia satirica e burlesca. Via via trovò una forma propria e nuova, e prese a soggetto la vita pubblica e le condizioni politiche. I suoi scherzi, com’egli li chiamava, corsero per l’Italia manoscritti incontrando favore per l’argomento, per la novità della forma e per certa facilità apparente e non reale, giacché, come risulta dai manoscritti pieni di cancellature, gli costavano gran fatica. Cominciò petrarcheggiando e, come scrive egli stesso, pagando al Petrarca il noviziato. Nelle poesie politiche ha il singolarissimo merito di avere adattato alla satira grande varietà di metri, liberandola dalla consuetudine dell’endecasillabo sciolto e della terzina. Le opere satiriche del Giusti formano tutte insieme un gran quadro dell’Italia dei suoi anni; esse flagellano ogni piaga della società contemporanea all’autore, e formentano ogni speranza di riscatto politico e di morale rinnovamento. Nel Dies irae, egli impreca all’imperatore Francesco, il carceriere dello Spielberg morto in quel tempo; nell’Incoronazione vitupera i prìncipi italiani pronti a fare atto di vassallaggio all’imperatore straniero; nello Stivale fa la storia delle vicende italiane ed augura un redentore; nella Scritta, nella Vestizione, nel Ballo, bolla di ridicolo la miseria della vecchia nobiltà e la sfacciataggine della nuova, creata per danaro e venuta su come i funghi, dal letame degli affari loschi; nell’Apologia del Lotto e nel Sortilegio, deridendo la superstizione e l’ignoranza delle plebi, accusa i potenti del turpe guadagno che vi fan sopra. In prosa pubblicò poco: qualche prefazione e una raccolta di proverbi toscani. L’Epistolario fu raccolto e pubblicato dopo la sua morte avvenuta nel 1850 a Firenze, e cioè nel 1859; le Memorie furono pubblicate soltanto nel 1890.
DIES IRAE
Dies irae! è morto Cecco;
gli è venuto il tiro secco;
ci levò l’incomodo.
Un ribelle mal di petto
te lo messe al cataletto:
sia laudato il medico.
È di moda: fino il male
la pretende a liberale:
vanità del secolo!
Tutti i principi reali
e l’Altezze Imperiali,
l’Eccellenze eccetera,
abbruniscono i cappelli:
il balì Samminiatelli
bela il panegirico.
Già la Corte, il Ministero,
il soldato, il birro, il clero,
manda il morto al diavolo.
Liberali del momento,
per un altro giuramento
tutti sono all’ordine.
Alle cene, ai desinari
(oh che birbe!) i carbonari
ruttan inni e brindisi.
Godi, o povero Polacco;
un amico del Cosacco
sconta le tue lacrime.
Quest’è ito; al rimanente
toccherà qualche accidente;
Dio non paga il sabato.
Ma lo Scita inospitale
pianta l’occhio al funerale
sitibondo ed avido,
come iena del deserto,
annosando a gozzo aperto
il fratel cadavere.
Veglia il Prusso e fa la spia,
e sospirano il Messia
l’Elba, il Reno e l’Odera.
Rompe il Tago con Pirene
le cattoliche catene,
brucia i frati e gongola.
Sir John Bull, propagatore
delle macchine a vapore,
manda i «tory» a rotoli.
Il Chiappini si dispera,
e grattandosi la pera
pensa a Carlo decimo.
Ride Italia al caso reo,
e dall’Alpi a Lilibeo
i suoi re si purgano.
Non temete: lo stivale
non può mettersi in gambale;
dorme il calzolaio.
Ma silenzio! odo il cannone:
non è nulla: altro padrone!
Habemus Pontificem.
IL SORTILEGIO
Il lotto, ve lo dissi un’altra volta,
il lotto è un gioco semplice, innocente,
che raddirizza ogni testa stravolta,
e chi si fonda in lui, non se ne pente:
lo dissi e lo ridico, e n’ho raccolta
la più limpida prova ultimamente
in un bel fatto accaduto tra noi,
che siamo al tempo che sapete voi.
In un castello de’ nostri Appennini
(e il nome non importa), era saltato
tanto nell’ossa di que’ montanini
l’estro del giocolin soprallodato,
che nelle gole giù de’ Botteghini,
in ambi e in terni avean precipitato,
colla speranza certa d’arricchire,
fin le raccolte di là da venire.
La voce Botteghino non è mia:
e una protesta mi pare opportuna,
se mai pensaste che la poesia
parli a malizia, o secondo la luna:
il Botteghino e la Prenditoria
volgarmente son due in carne una.
Se il nome è brutto, il popolo inventore
n’ha colpa, e non ne sto mallevadore.
Dunque, tornando a noi, que’ montanari
fino alle scarpe avean data la via,
sognando negli spazî immaginari
di fare un buco in Depositeria.
Di giocator, di prodighi e d’avari
oltre la borsa va la bramosia;
e come chi più n’ha, più ne vorrebbe,
chi più ne sciupa e più ne sciuperebbe.
Bazzicava lassù per que’ paesi
un di que’ rivenduglioli ambulanti,
che fan commercio a denari ripresi,
di berretti, di scatole, di Santi,
e di ferri da calze, ed altri arnesi
quanti n’occorre per cucire, e quanti
ne porta in petto, al collo e sulla testa,
la villana elegante il dì di festa.
Oltre a codeste brìcciche, costui
la sacca d’un gioiello avea provvista,
che tra le cose che giovano altrui
va messo per ossequio in capo lista;
cosa mirabilissima per cui
splende alla mente una seconda vista,
cosa che serve per tutti i bisogni;
e questa perla era il Libro de’ Sogni.
La famosa Accademia del Cimento,
l’Istituto di Francia e d’Inghilterra,
è tutta roba di poco momento
appetto a quella che il gran libro serra.
«Credete a chi n’ha fatto esperimento»
che quello è il primo libro della terra,
onde lo privilegia, e con ragione,
la sacra e la profana Inquisizione.
Questo libro utilissimo, non solo
egli lassù l’avea disseminato,
ma nel mezzo di piazza al montagnolo
spiegato con amore e postillato;
e il giorno dell’arrivo, al merciaiolo
il popolo, il comune, e il vicinato
correano a dire i sogni della notte,
ladri, morti, paure e gambe rotte.
Ed ei, presa la mano a far l’oracolo,
o rispondeva avvolto o stava muto;
anzi, tra l’altre, aveva un tabernacolo
con dentro un certo santo sconosciuto,
dal qual, secondo lui, più d’un miracolo,
e più d’un terno a molti era piovuto,
pur di destare la sua cortesia
pagando un soldo ed un’avemmaria.
Lo spolverava, l’apriva, e gridava
che tutti si levassero il cappello;
poi, brontolando Paternostri, andava
torno torno a raccôrre il soldarello:
e mentre ognuno pregava e pagava,
più numeri, disotto dal gonnello,
tirava fuori agli occhi della folla
il moncherino di quel santo a molla.
Né volendo, se a vuoto eran giocati,
parer, col santo e tutto, un impostore,
— Egli è, — dicea, — per i vostri peccati,
che non trovan la via di venir fuore —.
Smunti così gran tempo e bindolati
avea que’ mammalucchi in quell’errore,
e col Governo il traffico diviso,
e mescolato al vizio il Paradiso.
Stanchi alla fine, e come accade spesso
d’uno che al gioco giochi anco il cervello,
che, invece di pigliarla con se stesso,
e’ se la piglia con questo e con quello,
un dì che il rivendugliolo avea messo
fuori i fagotti e il solito zimbello,
da sei gli sono addosso, e con molt’arte
l’attorniano, e lo traggono in disparte.
E dopo averlo strapazzato, e dette
cose del fatto suo proprio da chiodi,
gl’intuonaron minacce maledette,
e che voleano il terno in tutti i modi.
Messa lì su quel subito alle strette,
la volpe, che maestra era di frodi,
facendo l’imbrogliato e il mentecatto,
te gli abbonì che non parve suo fatto.
Poi, protestando che del trattamento
non facea caso e lo mandava a monte,
accennò roba, parlò d’un portento,
la prese larga, te li tenne in ponte,
e finse di raccogliersi un momento,
e chiuse gli occhi, e si fregò la fronte,
e disse: — Attenti, ché non diate poi
a me la colpa che si spetta a voi.
Bisognerebbe, quando il gallo canta
sull’alba, o appena il sole è andato sotto,
novanta ceci secchi, sulla pianta
côrre, senz’esser visti o farne motto;
e dall’uno giù giù fino al novanta
scriverci sopra i numeri del Lotto
con una tinta che non si cancella,
fatta di pece e d’unto di padella;
affilare un coltello, essere accorto
che chi l’affila non tocchi nessuno;
e un corpo maschio, defunto di corto,
scavar di notte, in giorno di digiuno;
e tagliata e votata a questo morto
ben ben la testa, dentro a uno a uno
mettere i ceci, stando inginocchiati,
tre volte scossi e tre volte contati.
Avere un pentolone, e a queste gore
qua sotto, empirlo di quell’acqua gialla,
e bollirci quel capo, e che di fuore
non vada l’acqua, Dio guardi a versalla!
A mala pena spiccato il bollore,
da’ primi ceci che verranno a galla,
avrete il terno; e se dico bugia,
che non possa salvar l’anima mia —.
Quel dettar tutto sì minutamente,
quel morto, quella pentola, e il gran guaio
d’aver bisogno, fece a quella gente
girar la testa come un arcolaio;
e creduto per fede agevolmente
e rimandato libero il merciaio,
stillano il modo di venire a capo
d’aver in mano e di bollir quel capo.
Di fresco era lassù morto il Curato,
e l’aveano sepolto dirimpetto
alla porta di chiesa, ove il sacrato
ha una lapide antica a questo effetto.
Quel prete, per disgrazia, infarinato
d’algebra, se di tempo un ritaglietto
gli concedea la Cura di montagna,
era sempre a raspar sulla lavagna.
Quell’armeggìo di numeri venuto
a risapersi nel paese, il prete
per un gran cabalista era tenuto,
e che de’ terni avesse in man la rete.
E scalzarlo parecchi avean voluto,
mentre che visse, sull’arti segrete
di menar la Fortuna per il naso,
pescando il certo nel gran mar del caso.
L’ultima carne maschia seppellita
era il prete, la cosa è manifesta;
dunque la testa che andava bollita
era la sua, certissima anco questa;
e tanto più che avvezzi erano, in vita,
i numeri a bollirgli nella testa.
Così dicendo quella gente grossa
pensò del prete violar la fossa.
Risoluti s’accordano costoro,
e si partiscon l’opere e le veci;
ammannisca il coltello uno di loro,
un altro il pentolone, un altro i ceci,
e poi tutti si trovino al lavoro
di nottetempo, là dopo le dieci,
nel giorno da Mosè dato all’altare,
ed alle streghe nell’èra volgare.
Tutto quel giorno che precesse il fatto,
Maso, un di quelli dell’accordellato,
girò per casa mutolo, distratto,
e torbo come mai non era stato:
la moglie era presente, e di soppiatto
coll’occhio che alle donne amore ha dato,
lo guardava e guardava, a quella vista
facendosi anco lei pensosa e trista.
Erano sposi da cinqu’anni, e stati
sempre insieme, su su da piccolini,
poi coll’andar del tempo innamorati,
s’eran congiunti da onesti vicini,
e dal dì che l’altar santificati
avea gli affetti lor, già tre bambini
rallegravan la rustica dimora
che tre rose parean colte d’allora.
A forza di risparmio e di lavoro
conducean vita semplice e frugale,
poveri sì, ma in pace e con decoro,
contenti nel pudor matrimoniale;
quando ecco il Lotto ficcarsi tra loro:
il Lotto, gioco imperiale e reale,
e quella pace e quel vivere onesto
subito in fumo andar con tutto il resto.
Vani usciti i consigli erano, e vani
con lui gli affanni di quella meschina,
che sempre più vedea d’oggi in domani
esso e la roba andarsene in rovina;
ed or facea concetti e sogni strani
del vederselo lì dalla mattina
senza toccar lavoro o far parola,
o consolarla d’un’occhiata sola.
E come più la sera s’appressava,
più lo vedea smaniante e pensieroso.
Un po’ sedeva, un po’ canterellava,
come fa l’uom che aspetta e non ha poso;
ed or prendeva in braccio, ora scansava
un fanciulletto, che tutto festoso
con più libero piè degli altri dui,
salterellava dalla madre a lui.
L’aria imbrunì, suonò l’avemmaria,
e sorta in piè la donna, a’ figlioletti
incominciò malinconica e pia
a suggerir garrendo i sacri detti:
Maso, fermo sull’uscio, o non udia
la squilla, vaneggiando in altri obietti:
o se l’udì, non ebbe in quella sera
né parola né cuor per la preghiera.
Notò la donna l’atto, e avendo piena
già già la testa di mille paure,
dentro se ne sentì crescer la pena;
ma la represse, e attese ad altre cure.
E acceso il lume e il fuoco, e dato cena
e messe a letto quelle creature,
ritrovò Maso come addormentato
col capo sulla mensa abbandonato.
Volea parlar, ma non le dette il cuore
d’aprir la bocca, e ste’ soprappensiero:
e quello immaginar pien di dolore
le cose più che mai le volse in nero;
poi, come fa chi dubbia e sente amore,
che cerca e teme di saper il vero,
soavemente a lui che amava tanto
si volse, e disse con voce di pianto:
— Maso, per carità, parla, che hai?
Via, parla, non mi dar questi spaventi.
Così confuso non t’ho visto mai;
oh, Maso mio, perché non mi contenti?
Se non lo fai per me, se non lo fai,
fàllo per que’ tre poveri innocenti,
che son di là che dormono: e non sanno
lo snaturato di padre che hanno.
Maso, bada alla gente! il viciname
sparla di te, che ti se’ mal ridutto,
che un giorno o l’altro quel giocaccio infame
t’ha da portare a qualcosa di brutto.
Oh senti, Maso mio, meglio la fame,
andar nudi, accattare, è meglio tutto;
ma, se non altro, non darmi il rossore
che tu perda col pane anco l’onore —.
E sì dicendo, a lui s’era accostata,
e dolcemente gli tendea la mano,
continuando con voce affannata
a interrogarlo, a scongiurarlo invano,
che da sé la respinse, e dispietata–
mente la minacciò, quel disumano,
e di tacer le impose, e che di volo
andasse a letto, e lo lasciasse solo.
Andò la dolorosa, e mezza morta
senza spogliarsi in letto si distese:
e là piange, e si strugge e si sconforta,
cheta, in sospetto e sempre sull’intese;
né molto sta, che, cigolar la porta
udendo, sorge, e coll’orecchie tese
sente, pian piano, con sordo stridore,
a doppia chiave riserrar di fuore.
Balza da letto, e prima che s’involi
del tutto, vuoi seguirlo arditamente:
e poi non si risolve, e de’ figliuoli
sorge il pensiero a divider la mente:
ma tosto il dubbio di lasciarli soli
cede al timor più vivo e più presente;
scende e tenta la toppa, e nulla avanza,
e del forzarla è vana ogni speranza.
Più l’ostacolo è forte, e più s’esalta
l’animo in quello; ond’essa audace e destra
si lancia ove ricorre angusta ed alta
cinque braccia da terra una finestra;
l’apre la donna e su vi monta, e salta
speditamente nella via maestra,
e per molti sentieri erra, e s’invesca
senza molto saper dove riesca.
In questo mentre i compagni di Maso,
a mezza costa, fuor dell’abitato,
celatamente avean la legna e il vaso
per la strana cottura apparecchiato:
egli co’ ferri che faceano al caso
d’alzar la pietra e scorciare il Curato,
per altra via, coll’animo scontento,
ultimo venne al dato appuntamento.
Qui ci vorrebbe una notte arruffata,
una notte di spolvero, che, quando
alla tedesca fosse strumentata,
paresse un casa–al–diavolo, salvando.
Se, per esempio, la nota obbligata
d’un par di gufi avessi al mio comando
e fulmini a rifascio, e un’acqua tale
da parere il diluvio universale;
e una romba di vento, e il rumor cupo
d’un fiume, d’un torrente, o che so io,
che giù scrosciando d’un alto dirupo
rintostasse de’ tuoni il brontolio;
di quando in quando un bell’urlo di lupo,
un morto che gridasse Gesù Mio,
e una campana che sonasse a tocchi,
riuscirebbe una notte co’ fiocchi.
A farlo apposta, tra le notti belle
vedute al mondo, questa, a mia sfortuna,
si potea dir bellissima: le stelle
erano fuori, tutte, fin a una!
Se a sciuparmi le tenebre con quelle
fosse venuta in ballo anco la luna,
piantavo la novella, e buona sera:
tiriamo avanti, la luna non c’era.
Zitti, spiando intorno, e come un branco
di lupi ingordi… Adagio, e colle buone;
il lupo è detto. — Di corvi? — Nemmanco,
ché di notte non vanno a processione;
sicché dunque dirò, lasciato in bianco,
per questa volta tanto, il paragone,
che s’avviò la frotta al cimitero,
(e passi per la rima) all’aer nero.
Intanto qua e là s’era aggirata
ratta, intendendo la vista e l’udito,
quella povera donna sconsolata
inutilmente cercando il marito,
e stanca per que’ sassi, e disperata
della traccia, per l’ultimo partito
alla chiesa risolse incamminarsi,
e là piangere, e a Dio raccomandarsi.
Su per una viottola scoscesa
va la meschina risolutamente,
e all’orlo del sacrato appena ascesa
che fa piazzetta, sul poggio eminente,
ode, o le pare, là, verso la chiesa,
un sordo tramenio, come di gente
che soprarrivi cheta e frettolosa,
e s’argomenti di tentar qualcosa.
Insospettita fermasi, e s’acquatta
giù rannicchiata, dietro a certi sassi
d’una vecchia casipola disfatta,
distante dalla chiesa un trenta passi;
e di lì guarda, e scorge esterrefatta
un gruppo strano, e parle che s’abbassi
in atto di sbarbar con violenza,
di terra cosa che fa resistenza.
Ecco, si smuove una lapide; e tosto
s’alza quel gruppo, e indietro si ritira,
e di subito giunge là discosto
il grave puzzo che l’avello spira.
Senza alitare o muoversi di posto,
trema la donna misera, e s’ammira
qual chi dorme e non dorme, e in sogno orrendo
volteggia col pensier stupefacendo.
Lenta calarsi dentro e risalire
una figura vede dall’avello,
e, sorta, accorrere i compagni e dire
un non so che di testa e di coltello.
E allor le parve vedere e sentire
ricollocar la lapide bel bello:
poi tutti verso lei tendere al piano,
e innanzi un d’essi con un peso in mano.
Quel vederli venire alla sua volta
tanto le crebbe tremito e spavento,
che dentro si sentì tutta sconvolta,
e chiuse gli occhi e uscì di sentimento.
Quelli che con molt’impeto e con molta
fretta correano in basso all’altro intento,
raccolti in branco e presa la calata,
l’ebber senza notarla oltrepassata.
Non molto andaro in giù, che dalla via
torsero a manca, e pervennero in loco
ove per molti ruderi s’uscìa
ne’ campi, scosti dalle case un poco.
La poveretta che si risentìa,
ecco, vede laggiù sorgere un foco,
e parecchi d’intorno affaccendati
dal baglior delle fiamme illuminati.
Brillò la fiamma appena, che non lunge
da lei, più gente a gran corsa si sferra,
e, giù piombata in un attimo, giunge
là dove lo splendor s’alza da terra:
e altra gente gridar che sopraggiunge,
e d’un’altra che fugge il serra serra,
e su e giù per fossi e per macchioni
stormir di frasche, e salti e stramazzoni.
S’alza un alterco… Ahi misera! è la voce,
è la voce di Maso, e par che tenti
di liberarsi d’uno stuol feroce,
che lo serri d’intorno e gli s’avventi;
tosto drizzata in piè, scende veloce
onde venìale il suon de’ fieri accenti;
quand’ecco che la ferma un duro sgherro
con un artiglio che parea di ferro.
Le spie del luogo avean raccapezzato,
non si sa come, un che di quel ritrovo,
e un ser Vicario già n’era avvisato,
famoso per trovare il pel nell’ovo;
ma tardi e male postisi in agguato
i bracchi, mossi a chiapparli sul covo,
fallito il colpo della sepoltura,
te gli avean còlti alla cucinatura.
Raggranellati tutti e fatto il mazzo,
la donna fu creduta della lega:
il merciaiolo citato a Palazzo,
svesciando il caso dall’alfa all’omega,
provò che per uscir dell’imbarazzo
avea dato una mano alla bottega.
Tant’è chi ruba che chi tiene il sacco:
dunque fu detto che battesse il tacco.
Con più giustizia, della falsa accusa
uscì netta la misera innocente;
ma di vergogna e di dolor confusa
pericolò di perderne la mente;
perocché fissa in quella notte e chiusa
nel proprio affanno continuamente,
da paurose immagini assalita
s’afflisse e tribolò tutta la vita.
Veggano intanto i Re, vegga l’avaro
gentame intento a divorar lo Stato,
di quanti errori il pubblico denaro
e di che pianto sia contaminato!
Fuman del sangue sottratto all’ignaro
popolo, per voi guasto e raggirato,
le tazze che con gioia invereconda
vi ricambiate a tavola rotonda.
Dritto e costume nel consorzio umano
così per vostre frodi hanno discordia:
e cupidigia vi corrompe in mano
e la giustizia e la misericordia;
ché assolver non si puote un atto insano
che con legge e ragion rompe concordia;
né giustamente l’error mio si danna,
quando il giudice stesso è che m’inganna.
Premesso questo, è tempo di sbrigare
anche quegli altri che lasciammo presi.
Dopo un gran chiasso e un grande almanaccare
di spie, di birri e di simili arnesi;
dopo averli tenuti a maturare,
come le sorbe, in carcere se’ mesi;
dopo un processo lungo lungo lungo
si svegliò la Giustizia, e nacque il fungo.
E fu, che resultava dal processo
violato sepolcro e sortilegio;
ma visto che il delitto fu commesso
per il lotto, e che il lotto è un gioco regio,
chi delinque per lui, di per se stesso
partecipa del lotto al privilegio.
Se fosse stata briscola o primiera,
pover’a loro! andavano in galera.
CONSIGLIO A UN CONSIGLIERE
Signor Consigliere,
ci faccia il piacere
di dire al Padrone
che il mondo ha ragione
d’andar come va.
Dirà: — Padron mio,
la mano di Dio
gli ha dato l’andare;
di farlo fermare
maniera non v’ha.
Se il volo si tarpa
calando la scarpa
a ruota nostrale,
che ratta sull’ale
precipita in giù,
la ruota del mondo
andrà fino in fondo;
né un moto s’arresta
(stiam lì colla testa)
che vien di lassù.
Per tutto si vede
che il carro procede,
con dietro una calca
che seco travalca
con libero piè:
e mentre cammina,
con sorda rapina
i gretti, i poltroni,
i servi, i padroni,
travolge con sé.
Tra i re del paese
qualcuno l’intese
e a dirla tal quale,
più bene che male
n’ottenne fin qui.
Slentando la briglia,
tornò di famiglia;
temeva in quel passo
di scendere in basso,
e invece salì.
Giudizio, Messere!
Facendo il cocchiere
in urto alla ruota,
si va nella mota,
credetelo a me.
Pensando a un ripiego,
io salvo l’impiego;
e voi (dando retta),
rivista e corretta,
la paga di Re.
Giuseppe Giusti
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.