In autunno e inverno, i magredi del Meduna sono una spoglia distesa di arature e non si può far a meno, ogni volta che si corre a ovest, di ripensarli zeppi d’alberi fino alla vendemmia, quando, il ciak-ciak della ghiandaia fa sbucciare le ginocchia nell’umido dei sifoni fitti di equiseti che invece adesso saliscendono per striminzirsi cipressini sui ceppi sotto le motoseghe. La pernacchia impaurita della ghiandaia è rutto di un sorso che non disseta più: il furto del vino. Nelle campagne della periferia, l’uva è sparita assieme alle querce che ombreggiano le coppiette, piovono ghiande per il pascolo dei cinghiali o assicurano rifugi e dieta alle ghiandaie, primi bersagli a cadere sotto l’invadenza delle doppiette solo perché ritenute saccheggiatrici di covate e non spazzine di un eccessivo proliferare. Esistono posti dove la presenza dell’uomo è irrilevante e si perde nell’immensità di un luogo immoto. Se resta l’ansia, deriva soltanto dall’impressionante trascurabilità dell’ospite. Talvolta, capita un’esperienza terribile legata alla natura e al suo essere regina imparziale: vivere il sopraggiungere della notte all’aperto sotto la repentina variazione del clima, durante il temporale o un caligo minaccioso per l’incolumità. Ma la caccia, nel verde evaso dalle ruspe arriva con banale apatia, senza i presagi del crepuscolo né il coro dei Carmina Burana.
Ancora adesso, certa gentaglia vede nella ghiandaia l’altolà al lussureggiare delle colture così come la psicosi verso l’orso ha seminato ecatombi lungo lo Yukon, fiume della Corsa all’Oro di Zanna Bianca. Rosa di arsenico, il reportage biografico slitta l’avamposto tra i ghiacci sulla cosca di osceni in tuta mimetica pronti a esibire coi fischietti civetta e attira-ghiandaie l’avidità che cela il bottino del carniere dentro quel millantato “spirito della frontiera”.
La discriminazione in Italia abbonda più di quanto si pensi. Spesso coinvolge i cittadini ma rimbalza pure nei cacciatori che si scatenano contro una specie non protetta e che non può difendersi perché le leggi glielo permettono. I frutteti, gli orti, le vigne vengono depredati e distrutti con razzie proletarie da lor signori che, per risparmiare sull’erbivendolo, si riempiono le dispense perché l’articolo 842 del Codice Civile di eredità fascista permette l’esercizio venatorio sui fondi senza il consenso del proprietario, causa l’astensionismo al referendum abrogativo del Novanta. Le distanze di sicurezza dalle case poi son tarli che han messo ali e di continuo bucherellano le tapparelle e fuori addio gite.
L’agricoltura ne fa le spese e, anche se scacci quei ladri coll’ascia al grido di “Coglioni!”, il fucile teso ha la ragione di un duce. Se i cacciatori ti calpestano la proprietà privata investili di strombazzi con l’Ape Piaggio a tutta birra e chiama le sirene del 112 in aiuto prima di spezzargli le tibie.
A occhiolino fatto, mentre i privilegiati sparano agli indifesi, le loro mogli, al calduccio, godono nel prendersi la fava di chissà quale patta. Però, d’ottobre, se curiosi dal sentiero fiancheggiato di querce la beccaccia che spia in finta cova tutt’una col tappeto di clorofille scopri il travaglio della sua migrazione, il modo di medicarsi le ferite dei pallini con impacchi di fango, la sua mole tozza e erotica, il piumaggio miscuglio di foglie secche pinzate in collage artigianale dal mese delle castagne. Un trancio di coda all’insù col becco alla Pinocchio dividono pupille prosperose e gravide di nero: son ‘ste bacche di sugo a far perdere la clemenza ai freddi sicari! Dalla nascita, ogni esistenza sia sul chi va là, timorosa della Natura che è maiuscola e schiaccia per creare o distruggere ma offre a scopo debilitante libidini di matrona mai sazia. Nessuno faccia lo gnorri sulla spada di Damocle in capoccia altrui… Oggi a me domani a te!
La licenza di sterminio verso l’arca di Noè denuncia le pecche dei modelli antropocentrici di selezione e definisce sport pratiche incompatibili da imporre alle famiglie estese dei biosistemi. L’interesse di Dante per le espressioni della Natura, rivolto al senso di rettitudine e all’astio per chi “sua vita perde” a predare gli uccellini (Purgatorio XXIII 1-3) rende condanna e insieme vendetta all’inutile strage. Uno speaker nelle veci dei fagiani d’allevamento da sgabbiare a uso venatorio la vigilia dell’apertura della caccia, cresciuti a becchime e quindi più socievoli di oche e galline, durante il fuori onda della mattanza dovrebbe reprimerne l’avvio con la citazione dal dialogo di Leopardi: […] è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.”.
Lo scempio ecologico divenga banco di prova per un nuovo brindisi e abolizionista esulti il vino novello della rivoluzione perché, prima che nei G8 o in alambicco, l’innegoziabile deve fermentarsi nella zucca di ciascun sopravvissuto al buco dell’ozono, se cannibale senza più gengive sarà però resistito, ancora indolente, alla sua fiacca autodistruttiva.
Michele Rossitti
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.