Per comprendere adeguatamente il valore di oralità della poesia ellenica, penso non sia inutile ricollocare con maggiore attenzione il fenomeno poetico nella dimensione del simposio, vero e proprio rito collettivo. Già Omero, parla di un banchetto allietato dal cantore Demódoco tra i Feaci, e da Femio tra gli Itacesi, come del «momento più nobile dell’esistenza», ma nell’epopea omerica Dioniso ha un ruolo marginale e come tale è citato solo quattro volte da Omero. Il convito, allora, era sicuramente più “selvaggio” – per quanto assolutamente centrale, almeno nell’Odissea, dove il narratore è strettamente legato al pubblico, dando voce a un rituale sociale fondamentale, in cui erano entrambi impegnati in maniera significativa rispetto al simposio ellenico, più tardo, articolato e strutturato in modalità ufficiali ben definite e tramandate nel tempo in modo più codificato. Il simposio, innanzi tutto, era una pratica diffusa e per lo più si svolgeva al tramonto (solo i barbari, secondo i Greci, bevevano di giorno, un po’ come, per noi, bere alcolici di mattina, abitudine considerata riprovevole, non soltanto dal punto di vista medico, ma anche nel vissuto comune) e il vino ne costituiva la presenza dominante come libagione sacra e propiziatoria (il nome stesso lo indica, perché il bere era legato strettamente a esso, in queste situazioni conviviali,e non ad altre bevande). Gli Elleni ereditarono probabilmente dai Fenici, l’abitudine di consumare il vino, come i pasti, sdraiati, il che comportava una precisa distribuzione dello spazio, organizzandosi con letti e tavolini individuali. Sicuramente, anche il mondo etrusco ci ha lasciato analoghe raffigurazioni di siffatti costumi, descritti anche da vari storici. Il piacere, l’euforia e le gradevoli conversazioni erano una delle finalità principali, come anche l’allentamento dei freni inibitori, che pure erano sottoposti a un tentativo di controllo, grazie a un opportuno dosaggio delle parti di acqua e vino, per diluire il denso “ákratos” (aãkratoj), il «vino puro». Consuetudine squisitamente ellenica, era sollevare le coppe, formulando un invito alla gioia, cháı˜re! (xairª e) «gioisci», da cui deriva in forma molto più spiritualizzata e meno edonistica la nostra “carità”), e al bere, esplicitamente formulato, “kài píe éu!” (kai\ pi/e eãu), «e bevi al bene di», seguito dal nome della persona cui si voleva dedicare il brindisi; d’altro canto, questo invito gioioso costituiva anche la forma del saluto abituale tra amici, e si rispondeva con un anticháı˜re (an) tixairª e), traducibile, approssimativamente con «anche tu allietati a tua volta», ben lontano dal prosit latino, più legato a una vaga propiziazione salutistica, così distante dal sentimento ellenico dell’e – done -´, cioè del piacere. Spesso era intonato un peána, con accompagnamento di aulós (au)lo/j), una sorta di flauto a doppia ancia, dal suono simile a quello dell’oboe, che suscitava forte impatto emotivo.
Il vino, poi, era considerato non solo come un dono degli dèi o un’offerta a loro, ma una divinità esso stesso, per questo le coppe e le brocche erano incoronate e circondate di ghirlande come omaggio al loro contenuto di-vino. Tra l’altro, le coppe, a riprova della “interlocutorietà” del bere ellenico erano tutte decorate anche al di sotto, in modo che i commensali potessero leggere o ammirare le immagini. Emozionanti, addirittura, quelle in cui figurano degli occhi dipinti, nella parte sottostante della base (oltre alla valenza apotropaica dell’occhio nella mentalità greca, tramandatosi fino ad oggi persino nella versione turistica di questo simbolo nei souvenirs), come se la coppa guardasse il vicino, essendo il prolungamento della sua faccia, per mantenere uno sguardo di comunicazione attraverso il recipiente, essendone il bevitore, fisicamente, impedito, per il viso necessariamente inclinato all’indietro; questa attitudine di rilassamento del collo, con tendenza al rovesciamento, di natura fisiologica e rituale, al contempo, è osservabile con chiarezza, anche nelle riproduzioni di pitture vascolari che sono allegate, come corredo d’immagini, al mio testo, dove la postura del capo, unita al braccio sollevato con la mano appoggiata sulla fronte, esprime la posizione di abbandono estatico. Questa sacralità diffusa si riverberava nell’ambiente presente, in modo particolare nel thíasos, dove i suoi membri stringevano legami quasi religiosi. Oltre ai giochi e divertimenti che potevano intrattenere i presenti, un aspetto sicuramente caratterizzava il simposio greco, e cioè l’atmosfera intellettuale, dagli iniziali indovinelli, a schermaglie dialetticamente più sostenute, fino a dispute filosofiche vere e proprie (vedi l’omonima opera di Platone). Cioè, gli aspetti linguistici erano indispensabili, non solo come necessario codice di comunicazione per qualsiasi rapporto interpersonale, bensì come piacere di conversazione e soprattutto nel godimento estetico della poesia letta o più probabilmente interpretata a memoria, cantata per il diletto degli spettatori e per rafforzare il sentimento d’identità dell’aedo o del poeta stesso, insieme alla condivisione con un pubblico totalmente coinvolto. D’altro canto, per inciso, questa idea della messa in comune, la “koine-´”, è rimasta nella nostra parola «cena», anche attraverso la traduzione latina “c(o)ena”.
Queste declamazioni prevedevano dunque l’utilizzo di vari strumenti musicali. Senz’altro, come sostiene M. Vetta, cui faccio riferimento: «Il simposio è stato addirittura il luogo dove è nata la poesia individuale e soprattutto da esso scaturisce la lirica non legata al rito. I più antichi poeti greci che esprimono sentimenti puramente personali, hanno recitato tale poesia nei banchetti». I “salotti letterari”, che da secoli sono in auge in Occidente, non sono che una prosecuzione di memoria di tali conviti, sia pure sbiadita e riduttiva rispetto al passato. L’emergere della coscienza individuale, avviene in un clima di comunicazione collettiva. Vi circola un senso di grazia, la cháris (xa/rij), e riportarla in vita, è l’unico modo che noi abbiamo per ritrovare quell’atmosfera; modo che non può esaurirsi nella difficile operazione di recuperare una musica, (per lo più perduta), ma deve tradurre in voce, in-vocare quella poesia, cercando di azzerare la distanza spazio-temporale e la barriera della comprensione strettamente semantica, per giungere a immaginare e ricreare un’idea (da éı˜dos, eiªdoj), «immagine» di tipo fonico di quell’ambiente; questo ci può condurre a riassaporare, in una fantasia acustica, quel senso di festa e di umana solidarietà che circolava nei conviti ellenici. Immaginario impossibile da ricreare oggi in modo realistico, perché troppi elementi ci sfuggono, come molte abitudini, quali, ad esempio, il singolare passatempo del cóttabo, di origine sicula e proto-italica, poi diffusosi in area ellenica, un piattello che spruzzava gocce di vino lanciate a cogliere determinati bersagli. Il gioco, nella sua forma classica e più complessa, consisteva essenzialmente nello scagliare le ultime gocce di vino (látax o latághe-) rimaste nella coppa, per colpire dei piattelli (plástinghes) collocati su un’asta di bronzo a un’altezza di quasi due metri. Un secondo modo era costituito dall’appoggiare una kylix al polso, con una presa imperniata sull’indice. La proiezione del liquido, da una posizione quasi sdraiata sul fianco sinistro, era accompagnata da un calibrato gesto di lancio (anky´le-), il cui successo doveva richiedere una notevole destrezza. Questo svago competitivo conservava chiare tracce dei significati augurali e sacri attribuiti agli antichi riti del versare per terra il vino, e rivelava anche valenze velatamente erotiche, come anche il lancio del giavellotto. Il gesto ludico, infatti, oltre che da eleganti e precisi movimenti, era accompagnato dall’invocazione del nome della persona di cui si desideravano i favori. Un’immagine di vaso attico riportata nelle illustrazioni allegate a questo libro, è riferita proprio a questo gioco. Un’analogia sorge subito alla mente con i divertimenti infantili-adolescenziali che permangono nel presente, con “penitenze” e premi, spesso costituiti proprio da effusioni e baci. Ora, questa singolare ma amichevole gara, oggi non riveste, almeno per il mondo adulto odierno, una particolare attrattiva; mi sembra possibile, invece, e auspicabile, ritrovare, se non questo antico svago, piuttosto l’atmosfera entusiastica, il soffio musicale e vibrante del logos ellenico e ridare vita a un aspetto così importante di quella civiltà, come la condivisione orale e interlocutoria di un patrimonio letterario e poetico.
Gabriella Cinti
Del Simposio significative le immagini della tomba del tuffatore di Paestum.
Attraverso reciproche contaminazioni e assimilazioni tra le polis della Magna Grecia e gli indigeni delle aree interne, vennero a formarsi specifici modelli culturali, di cui assumeva particolare significato quello della dimensione cerimoniale. Una testimonianza di tale costume è riscontrabile anche nei corredi funebri rinvenuti nel territorio di Garaguso, (alta valle del Cavone-Salandrella-L’Akàlandron di Strabone). Il Bettini, riferendosi al corredo funebre di avanzato V sec. di Garaguso, vi riscontra un’ampia documentazione conforme al modello cerimoniale greco: oggetti di uso reale da cucina e da mensa “segnalano – scrive – in maniera inequivocabile l’adozione della prassi conviviale, in cui il vino svolgeva un ruolo di rilievo quale bevanda socializzante”. Una prassi in cui si conciliavano gli aspetti materiali e quelli spirituali. “Transazioni di carattere economico, alleanze e forse anche scambi inseriti in strategie di tipo matrimoniale, vengono definiti nel quadro di forme rituali in cui dovevano avere sicuramente un ruolo determinante le valenze religiose…” (A. Bettini – I Greci in occidente – Bompiani -2006)