
Vilhelm Hammershøi, Interior, 1899
Uno dei miei pittori preferiti è Vilhelm Hammershøi. È uno di quei pittori che discendono da Vermeer e arrivano a Hopper: pittori della luce fredda, nel gioco dei toni chiaroscurali, della quiete e del silenzio, della vita fulminata nel distacco, dell’assenza. Stanze per lo più vuote, ma riempite dall’immanenza degli stessi elementi architettonici (muri, infissi, scale) o degli oggetti, per altro scarsi componenti e complementi di arredamento (sedie, tavoli, divani, credenze, il pianoforte, la stufa di maiolica, e quadri, lumi, una zuppiera, una brocca, una tazza, un piatto). Luoghi riconsegnati alle loro misteriose funzioni di contenitori, privati quasi sempre di una presenza umana, a volte colta solo di schiena (una presenza femminile rivolta e concentrata nelle proprie funzioni domestiche). Un vuoto incorniciato da pavimenti, soffitti, montanti, stipiti e telai. Porte che si aprono verso altre porte in una successione di stanze, due, tre, quattro, a segnare la dimensione del vuoto e a sottintendere la sua vera natura nel potenziale dell’essere riempito o semplicemente transitato: da un vuoto a un altro vuoto. Sono gli interni della sua abitazione in Strandgade 30, nel cuore del centro antico di Copenaghen, il palazzo secentesco dove lui e la moglie Ida hanno vissuto per undici anni, dal 1898 al 1909. È quasi sempre lei, Ida, l’angelo custode della casa, qualche volta affiancata dalla giovane cameriera, di spalle e in scuro, riconoscibile per i bordi del grembiule bianco. Ma è Ida la musa tutelare della casa, sempre in abito nero e lungo, senza colletto a illuminarle il collo nel perfetto compensarsi di luci ed ombre, intenta a portare un vassoio sotto il braccio, oppure concentrata su un oggetto che non vediamo, qualche rara volta seduta allo scrittoio oppure affacciata alla finestra. Cosa guarda? Probabilmente quello che raffigurano i dipinti di esterni che mostrano gli scorci della città con i suoi palazzi e i velieri nei canali, le condizioni di fuori, altrettanto bloccate e come sigillate sotto vuoto, dalla neve, dalla nebbia o da una luce contratta. La spoglia raramente nei suoi quadri, Ida: intravista dal vano della porta o sdraiata sul letto, e il nudo prende le tonalità del resto sulla tela, livido e duro anche quando il contesto ha più colore per una coperta a strisce verdi. Del resto, a dominare è la gamma dei grigi (grigio azzurro, rosa, perla, violaceo, acciaio, ferro, piombo…), poi il bianco e il crema. E, oltre la raffigurazione, a campeggiare è il senso di quel contatto indecifrabile tra pieno e vuoto, tra movimento e arresto, tra vita e morte. Insomma la trascrizione figurativa è interiorizzata e consegnata alla rappresentazione allegorica della riflessione profonda, esistenziale. Anche nella galleria dei ritratti, dove la moglie, la sorella, lui stesso, come gli oggetti, sono affidati alla distanza dell’attimo catturato e sottratto al corso del tempo e della metamorfosi e, nell’improvvisa astrazione resa “eterna”, guardato con distacco ma anche con stupore, in un’attesa ormai senza pena. Consiglio di andare a vedere “La stanza di Vilhelm Hammershøi”, Davids Samling Museum, Kronprinsessegade 30-32 Copenaghen, nuovo allestimento permanente, perché ne vale la pena.
Paolo Ruffilli
Grazie tantissime a Paolo Ruffilli per questo articolo che davvero permette di fare conoscenza con un artista straordinario( grazie anche perchè non ne ero a conoscenza, quindi per me singolarmente doppiamente un regalo).
un saluto-
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.