La silloge di poesie intitolata A luce accesa è la prima opera poetica di Sara D’Ippolito. Inciampi ricorrenti, Di quello che chiamano amore (e altri disastri) e Le città fra il tempo e la fine sono i tre capitoli in cui si articola l’opera, che rappresenta un intrecciarsi di riflessioni poetica sul teatro e l’arte in genere, l’eros e il senso della memoria. Un tentativo di testimoniare le oscillazioni interiori e le domande della generazione a cui appartengo, orfana di passato e di futuro, generazione coscienziosa di chi ha creduto nell’arte e nella cultura e oggi si ritrova a dover ricostruire in un mondo profondamente estraneo il senso di queste parole. Istantanee di viaggio fra città e ricordi, percorsi di crescita emotiva più o meno realizzati e ricerca costante di fissare i piccoli dettagli della realtà che ne rivelano il senso oscurato dal quotidiano.
Soliloquio
La malattia del patetico con se stessi
E quella del ridere ad ogni costo con gli altri
Macchiano le labbra e l‟anima
E il volto si contorce sotto maschere di gesso
Troppo incrinate all‟uso.
Sospesa a malapena sopra il mio tempo,
Mi chiudo a conversazioni sbiadite
E attendo solo
Il cielo le pietre le foglie
Dei mattutini di mezz‟estate
Vergini di solitudini urbane
Arsure accennate d‟un altro giorno vuoto d‟attesa
Su una panchina lasciata lì
Verde e polverosa, apposta per me.
E non è più il tempo della fede.
La componente sentimentale
Tutto l‟erotismo che è proprio
Di un bicchiere vuoto a metà
La patina di calore che sa ricoprire
Un giaciglio dismesso,
Le vesti morbidamente slacciate
Io non le ricordo,
No. Non ricordo più.
Troppo tempo è passato da quando
Piegavo le ginocchia
Nell‟attesa della tua mano
I fattori sentimentali impliciti
In ogni chiamata ricevuta da te
Non sbarrano più la strada
Al coito ininterrotto
Del mio pensare in deflusso.
Non cercarmi non ti appartengo
E non mi sono familiari le tue stanze
Ho altri fratelli altri vestiti
Altri compiti che non restare qui
Ad attendere il ritorno dei tuoi giochi
Irriverenti con me e col tuo stesso amare
Hai giocato bene a nasconderti
E ci sei riuscito, non ti vedo più.
Per questo, mi perdonerai
Se non ti invio il mio saluto.
Dell’ennesima caduta
Memorie lascive graffiano la purezza del cuore
S‟innalza minacciosa la coscienza
– Con tanto di sferza –
E la natura mia femminea
Insieme pavida e testarda
Si abbassa fino a strisciare sotto lo stipite
Della porta sbarrata della morale
Come abile trapezista della caduta
Fino alle tue braccia pronte ad afferrare
Quel che resta di me
Dopo l‟abusato salto ad occhi chiusi
Nel gioco inquieto e consunto degli amanti.
L’ispettore del cuore
Si può rapinare la propria memoria?
Barare al gioco contro se stessi
Per non ammettere che lo scacco matto che ti sei dato
Si è ormai indeclinabilmente avverato.
E così ti ritrovi a cancellare come prove
Le macchie della coscienza
Tracciate dalle scarpe fangose della volontà acerba
Incapace di resistere alle tentazioni
Di un cuore che lascia gocciolar fuori
Il sangue di desideri inespressi, fantasie reiterate,
Canti di sirene dagli occhi spenti
Eppur seducenti nella loro decadenza
Sempre di nuovo ringiovanita,
Fugacità reiterata che si fa vizio nascosto
A invecchiare la giovane, ringiovanire il vecchio
In una notte umida di lampioni autunnali
E sirene di autombulanze nella notte
Che richiamano alla mente malattia e morte.
Ma le bottiglie ora sono vuote e non resta che rincasare
Alla propria privata e impettita virtù che tutto deterge.
E il povero giovane ispettore bagnato
All‟angolo della strada, testimone inutile
Di delitti non avvenuti, fuma silente e interdetto
Spiando nel cuore delle ultime finestre aperte.
E poi, poi più niente.
Il canto del tempo
E cantare si può solo ciò che passa e il fatto stesso del passare.
Solo il perituro è materia dell‟arte che dissolvendo appare.
Misteriosa rinascita, parola che fattasi silenzio risuona
Fragilità di pietra che immobile danza
Roseo candore di donna sulla tela
Fuggevole e imperitura icona d‟amore
Sorriso del tempo ai suoi piccoli
Nati e troppo presto divorati
Ma la penna come fioretto
Squarcia la tela dei secoli
Rivelandone consunte trame
O sottile ricamo si fa racconto traslucido
Che scavalca i monti degli anni perduti.
Creare è rammemorare.
E finalmente il tramonto
E un giorno mi farò uccello
E mi perderò fra le nubi che Tu hai creato
Come scoglio affronterò umilmente
i gioiosi attacchi delle onde
Come raggio di sole bacerò le case
Rifugio d‟amore che Tu hai donato
All‟inquieta stirpe degli uomini
E saprò cantare ogni Tuo sasso
Ogni filo d‟erba che calpestai incurante
Tutta presa dal mio stesso enigma
Rompicapo che Tu mi hai assegnato
Incolta foresta che saprò oltrepassare
Per ritrovare la via che a Te conduce.
E nulla comprendo di Te e del Tuo operare
Ma errando sempre nei confini infiniti
Del palmo della Tua mano io mi perdo
E più Ti ritrovo più mi manchi
Unico inenarrabile
Che degli infiniti nomi sei
Silenziosa origine.
Sara D’Ippolito
Sara D’Ippolito, romana di 36 anni, ha pubblicato nel 2011 la sua prima opera “Nelle contrade della nebbia e della polvere” con le Edizioni Memori di Roma. Nel 2013 la casa editrice Samuele Editore di Pordenone ha pubblicato “La prigione dolce, viaggio in monastero” cronaca poetica di un esperienza di vita in un monastero ortodosso russo. Entrambe sotto lo pseudonimo Arkadij Scestlivzev. Nello stesso anno è stato pubblicato in formato cartaceo e ebook con la Leucotea Edizioni di Sanremo un suo saggio intitolato “Verità della maschera, ovvero a teatro non si mente” un confronto fra lo Ione di Platone e Il paradosso sull’attore di Diderot. Nel 2015 il racconto “Passo dopo passo – un blues per via Caracciolo” giunto al secondo posto ex equo del concorso “Un mare di storie” indetto dal Museo del mare di San Benedetto del Tronto e dalle Edizioni Memori. Nel 2016 due poesie vengono pubblicate nel numero 79/80 dell’aperiodico delle Edizioni del Foglio Clandestino.