“Un pazzo?”, racconto di Guy de Maupassant

guy-de-maupassant-03Nella trentina di racconti che trattano il tema della pazzia, molti studiosi (critici, medici, psichiatri) vollero vedere i sintomi di un inquinamento delle facoltà intellettuali dell’autore. In realtà Maupassant rimase sempre perfettamente lucido e potè così descrivere i suoi incubi e le sue allucinazioni. La follia è un tema ricorrente nei racconti come nella vita. In questo racconto il protagonista Jacques Parent soffre di una “straordinaria malattia dell’animo”, nasconde costantemente le mani. Una sera mostra il terribile potere delle sue mani.

UN PAZZO?

Quando mi dissero: — Sapete che Jacques Parent è morto pazzo in una casa di cura, — un brivido doloroso, un brivido di paura e d’angoscia mi corse lungo la schiena; e lo rividi a un tratto, quel giovane alto e stravagante, forse pazzo da lungo tempo, maniaco inquietante, persino spaventoso. Era un uomo di quarant’anni, alto, magro, leggermente curvo, con due occhi d’allucinato, due occhi neri, così neri che non si distingueva la pupilla, due occhi mobili, irrequieti, malati, spiritati. Che essere singolare e conturbante! Egli portava e diffondeva intorno a sé un malessere, un vago malessere dell’anima e del corpo, uno di quei nervosismi incomprensibili che fanno credere a qualche influenza soprannaturale. Aveva un tic fastidiosissimo: la mania di nascondere le mani. Non le lasciava quasi mai errare, come facciamo tutti, sugli oggetti, sui tavoli. Non maneggiava mai le prime cose che capitano fra le mani, con quel gesto che è familiare a quasi tutti gli uomini. Mai che le lasciasse nude, quelle sue lunghe mani ossute, sottili, un po’ febbrili. Le affondava nelle tasche, o sotto le ascelle, incrociando le braccia. Pareva preoccupato che esse facessero, suo malgrado, qualcosa di proibito, qualche azione vergognosa o ridicola, se le avesse lasciate libere e padrone dei loro movimenti. Quando era costretto a servirsene per gli usi quotidiani, lo faceva a scatti bruschi, a scosse rapide del braccio, come se non avesse voluto lasciar loro il tempo di agire da sole, di rifiutarsi alla sua volontà, di eseguire altri movimenti. A tavola prendeva il bicchiere, la forchetta o il coltello così rapidamente che non si aveva mai il tempo di prevedere cosa stesse per fare. Ora, una sera ebbi la spiegazione della straordinaria malattia del suo animo. Di tanto in tanto soleva venire a passare qualche giorno da me, in campagna, e quella sera mi parve estremamente agitato! Un temporale si annunciava nel cielo cupo e soffocante, dopo una giornata di caldo atroce. Non un soffio d’aria agitava le foglie. Un vapore caldo, come d’un forno, saliva al viso e toglieva il respiro. Mi sentivo a disagio, agitato, e mi disposi ad andare a letto. Quando mi vide alzarmi per uscire, Jacques Parent mi afferrò per un braccio con gesto terrorizzato e mi disse:
— Oh! no, resta ancora un poco.
Lo guardai sorpreso mormorando:
— Questo temporale mi scuote i nervi.
Gemette, o meglio gridò:
— E io allora! Oh resta, ti prego; non vorrei rimanere solo.
Aveva un’aria sconvolta.
Chiesi:
— Che hai? Stai perdendo la testa?
— Sì, ogni tanto, in certe serate come queste, in certe serate d’elettricità.., ho… ho… ho paura… ho paura di me… non mi capisci? Sono dotato d’un potere… no… d’una potenza.., no… d’una forza… Insomma, non so cosa sia, ma c’è in me un’azione magnetica così straordinaria che ho paura, paura di me stesso, come dicevo! E nascondeva, con un fremito disperato, le mani vibranti sotto i risvolti della giacca. E io stesso mi sentii d’un tratto tutto tremante d’un timore confuso, potente, orribile. Avevo voglia d’andarmene, di scappare, di non vederlo più, di non vedere più il suo occhio irrequieto posarsi su di me, poi sfuggire, volgersi al soffitto, cercare un angolo buio della stanza dove fissarsi, come se avesse voluto nascondere anche il suo temibile sguardo. Balbettai:
— Non me l’avevi mai detto!
— Forse che ne parlo a qualcuno? — rispose. — Ecco, ascolta, stasera non posso tacere. E preferisco che tu sappia tutto; del resto, potrai aiutarmi.
— Il magnetismo! Sai tu cosa sia? No. Nessuno lo sa. Eppure è constatato, riconosciuto; i medici stessi lo praticano; uno dei più illustri, Charcot, lo professa; dunque esiste, non c’è dubbio.
— Un uomo, un essere ha il potere pauroso e incomprensibile d’addormentare, con la forza della sua volontà, un altro essere; e mentre questi dorme, di rubargli il pensiero come si ruberebbe una borsa. Gli ruba il pensiero, ossia l’anima, l’anima, questo santuario, questo segreto dell’Io, l’anima, questo fondo che si credeva inaccessibile, l’anima, quest’asilo delle idee inconfessabili, di tutto ciò che si nasconde, di tutto ciò che si ama, di tutto ciò che si vuole celare agli uomini, viene aperta, violata, mostrata, gettata al pubblico! Non è atroce, criminale, infame?
— Perché? Come avviene? Chi lo sa? E del resto cos’è che si sa?
— Tutto è mistero. Pensa alla musica, a quest’arte divina, a quest’arte che sconvolge l’anima, la rapisce, l’inebria, la confonde; che cos’è? Nulla.
— Non mi capisci? Ascolta. Due corpi si urtano. L’aria vibra. Queste vibrazioni sono più o meno numerose, più o meno rapide, più o meno forti, secondo la natura dell’urto. Ora, noi abbiamo nell’orecchio una pellicola che riceve queste vibrazioni dell’aria e le trasmette al cervello sotto forma di suono. Immagina un bicchiere d’acqua che si trasforma in vino nella tua bocca. Il timpano compie questa incredibile metamorfosi, questo sorprendente miracolo di cambiare il movimento in suono. Ecco.
— Quindi la musica, quest’arte complessa e misteriosa, precisa come l’algebra e vaga come un sogno, quest’arte fatta di matematica e di spirito, proviene unicamente dalla strana proprietà d’una pellicola. E se questa pellicola non esistesse, non esisterebbe nemmeno il suono, che in se stesso è solo una vibrazione. Senza l’orecchio, immagineremmo forse la musica? No. Ebbene! Noi siamo circondati di cose che non supporremo mai, perché ci mancano gli organi che ce le rivelino.
— Il magnetismo è forse una di queste. Noi possiamo solo presentire questa potenza, solo tentare tremando la vicinanza degli spiriti, solo intravedere questo nuovo segreto della natura, perché non abbiamo in noi lo strumento rivelatore.
— Quanto a me… Quanto a me, sono dotato d’un potere spaventoso. Si direbbe che un altro essere racchiuso in me voglia continuamente sfuggire, agire mio malgrado; e si agita, si rode, mi sfinisce. Chi è? Non lo so, ma nel mio povero corpo siamo in due, ed è lui, l’altro, che spesso è il più forte, come stasera.
— Mi basta guardare le persone per intontirle come se avessi dato loro dell’oppio. Mi basta stendere le mani per produrre cose… cose… terribili. Se tu sapessi! Sì, se tu sapessi! Il mio potere non si estende solo agli uomini, ma anche agli animali e anche… agli oggetti…
— Ciò mi tortura e mi spaventa. Spesso mi è venuta la voglia di cavarmi gli occhi e di tagliarmi le mani.
— Ma voglio.., voglio che tu sappia tutto. Senti. Te lo mostrerò… non sulle creature umane, come si fa ovunque, ma… sugli… animali.
— Chiama Mirza.
Camminava a gran passi con un’aria da allucinato, e mi tese le mani che aveva nascosto in petto. Mi sembrarono spaventose come se avesse messo a nudo due spade. E meccanicamente gli ubbidii, soggiogato, tremante di terrore e divorato dal desiderio imperioso di vedere. Aprii la porta e fischiai alla mia cagna che stava accucciata nell’atrio. Subito udii il rumore precipitoso delle sue zampe sulla scala, ed eccola comparire festosa, scodinzolante.
Poi le feci segno di accucciarsi su una poltrona; la cagna vi saltò, e Jacques si diede ad accarezzarla guardandola. Sul principio parve inquieta; tremava, voltava la testa per evitare lo sguardo fisso dell’uomo, pareva agitata da un crescente timore. All’improvviso cominciò a tremare, come tremano i cani. Tutto il suo corpo palpitava, scosso da lunghi brividi, e volle fuggire. Ma lui posò la mano sui cranio dell’animale, e questi, sotto quel contatto, gettò uno di quei lunghi latrati che si odono di notte nella campagna. Anch’io mi sentivo rintontito, stordito, come se fossi in barca. Vedevo oscillare i mobili, girare i muri. Balbettai: — Basta, Jacques, basta —. Ma Jacques non mi ascoltava più, guardava Mirza in modo continuo, spaventoso. Ora la cagna chiudeva gli occhi e lasciava cadere la testa come se si addormentasse. Egli si volse verso di me.
— fatto, — disse, — ora guarda.
E gettò il fazzoletto dall’altra parte della stanza, gridando:
— Piglia!
La bestia allora s’alzò, e vacillando, traballando come se fosse stata cieca, muovendo le zampe come i paralitici muovono le gambe, si diresse verso il fazzoletto bianco che spiccava contro il muro. Tentò parecchie volte di prenderlo con la bocca, ma mordeva di fianco come se non l’avesse visto. Finalmente l’afferrò, e tornò indietro con la stessa andatura barcollante da cane sonnambulo. Era una cosa terrificante a vedersi. Egli comandò: — Accucciati —. La cagna s’accucciò. Allora, toccandola in fronte, disse:
— Una lepre, piglia, piglia —. E la bestia, sempre accucciata sul fianco, tentò di correre, s’agitò come fanno i cani quando sognano, e lanciò piccoli abbaiamenti, strani latrati, senza aprire la bocca, dei latrati da ventriloquo. Jacques sembrava diventato pazzo. Il sudore gli colava dalla fronte. Gridò: — Mordilo, mordi il tuo padrone —. La cagna ebbe due o tre sussulti terribili. Si sarebbe giurato che resistesse, che lottasse. Egli ripeté: — Mordilo —. Allora la mia cagna s’alzò, venne verso di me, mentre io retrocedevo contro il muro, tremando di spavento, col piede alzato pronto a colpirla, a respingerla. Ma Jacques ordinò: — Qui, subito —. La bestia tornò verso di lui. Allora, con le sue grandi mani, cominciò a strofinarle la testa come se la liberasse da legami invisibili. Mirza riapri gli occhi: — È finito, — egli disse. Non osai toccarla, e aprii la porta perché se ne andasse. Usci lentamente, tremante, sfinita, e di nuovo udii le sue unghie che battevano sugli scalini.
Ma Jacques tornò verso di me: — Non è tutto. Ciò che mi spaventa di più è questo, guarda. Gli oggetti mi ubbidiscono. C’era sul mio tavolo una specie di coltello-pugnale di cui, mi servivo per tagliare le pagine dei libri. Jacques allungò la mano verso l’oggetto. La faceva strisciare, avvicinandola lentamente; poi all’improvviso, vidi, si, vidi il coltello stesso trasalire, muoversi, scivolare dolcemente, da solo, sul legno, verso la mano ferma che l’aspettava, fino a posarsi sulle sue dita. Mi misi a gridare per il terrore. Credetti di diventar pazzo anch’io, ma il suono acuto della sua voce mi calmò subito. Jacques riprese:
— Tutti gli oggetti vengono verso di me. Per questo nascondo le mani. Che cos’è? Magnetismo, elettricità, calamita? Non so, ma è orribile.
— E capisci perché è orribile? Quando sono solo, appena sono solo, non posso impedirmi d’attirare tutto ciò che mi circonda.
— E trascorro giorni interi a cambiare il posto delle cose; non mi stanco mai di sperimentare questo potere abominevole, come per vedere se non m’ha abbandonato.
Aveva infilato le sue grandi mani nelle tasche, e guardava nella notte. Un piccolo rumore, un leggero fremito sembrava passare tra gli alberi.
Era la pioggia che cominciava a cadere.
Mormorai: — È spaventoso.
Egli ripeté: — È orribile.
Un rumore sibilò tra il fogliame, come un colpo di vento. Era l’acquazzone, la pioggia fitta, torrenziale.
Jacques sospirò a pieni polmoni sollevando il petto.
— Lasciami, — disse, — la pioggia mi sta calmando. Desidero star solo, adesso.

I° settembre 1884.

Guy de Maupassant (traduzione di Viviana Cento, Einaudi, 1993)

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