“Vicinissima e pur lontana”: Aldo Onorati e Roma, di Marco Onofrio

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Aldo Onorati, poeta, narratore e dantista

Benché di origine brasiliana (la nonna materna era di Säo Paulo) e tradotto ormai in oltre venti lingue, tra cui cinese, coreano, arabo, esperanto, romeno, russo, polacco e portoghese, Aldo Onorati è uno scrittore profondamente e intensamente “laziale”. Erede di una latinità vissuta come istinto rabdomantico e memoria del sangue e coscienza saporosa delle comuni radici linguistiche, prima che dato di cultura da acquisire, ha nelle fibre le ancestrali vibrazioni energetiche di due terre elettive che da sempre lo ispirano, accendendo la sua pagina-filiera di colori, ricordi, immagini, evocazioni, insomma di “atmosfere” ascrivibili agli ambiti geografici della Sabina (Orvinio in particolare) e, soprattutto, dei Castelli Romani (Albano in particolare). La sua scrittura “grassa”, corposa, rupestre, multisensoriale, tutta scatti e guizzi, eppur dotata di sue proprie alchimie sinfoniche, in equilibrio tra i versanti della “natura” e della “civiltà” (grondante di “tempi storici” ma immersa nel ciclo dei “tempi biologici”: vita e forma mescolate in un grottesco pastoso e barocco, spesso funereo, che fa le pulci all’uomo e demistifica con spietato realismo la cecità folle che domina, a guisa di demone occulto, tutta l’esistenza) pare talvolta la manifestazione di un genius loci che, quasi riemergendo dalla terra, lasci le sue tracce nei percorsi misteriosi delle parole, facendo della pagina un magnete di suggestioni, e di “quei” luoghi un santuario mitico. Sono appunto Orvinio e Albano i luoghi-santuario di Onorati: si snoda intorno a questi poli, non a caso, il labirinto magico della sua infanzia. Peraltro, tutta la sua carriera di prolifico autore (oltre 40 volumi) e di instancabile operatore culturale è stata definita un “atto d’amore” nei confronti dei Castelli Romani, ed egli stesso (secondo una geniale metafora coniata da Domenico Rea) “Castello Romano ambulante”. Scrive di sé Onorati, in un lacerto degli Ominidi (il capolavoro di interpretazione antropologica della civiltà dionisiaca dei Castelli, documentata prima della sua scomparsa): “Un’adolescenza ribelle, scritta su ogni onda del lago, su ogni sentiero del bosco, su ogni foglia”. Egli ha un rapporto profondamente religioso e panico con queste terre, con cui si identifica e in cui, per entusiasmo d’amore, aspira quasi a trasfondersi.

Ma che rapporto ha Onorati con Roma? Come entra e con quale ruolo, la Città Eterna, nella costellazione geografica e simbolica delle sue scritture? Se Albano e Orvinio rappresentano le “stelle polari” di tale costellazione, ovvero le terre del cuore e dell’anima (in ordine a un concetto emozionale e personale – prima che fisico e scientifico – della geografia), Roma è un po’ come una meravigliosa e strana “stella cometa” che appare e scompare, qua e là, senza lasciare tracce determinanti sul paesaggio. Eppure Onorati la conosce come le proprie tasche, anche per averla frequentata fin da ragazzo (vuoi per gli studi musicali – canto lirico – presso il Maestro Ranucci; vuoi per quelli universitari – alla “Sapienza”, Facoltà di Lettere –, che lo videro allievo, fra gli altri, di Petrocchi, e assistente di Marmorale; vuoi infine per le collaborazioni giornalistiche, e le consulenze professionali presso editori storici come Armando). Niente: ancor oggi, quando il settantasettenne Onorati parte (di solito in treno) dalla sua Albano per raggiungere Roma, ne torna, invariabilmente provato, quanto prima possibile, avendone a noia il caos, il traffico, il furore, la dispersività, l’inquinamento acustico e atmosferico… Quando del resto ci si abitua all’aria senza dubbio più tersa dei Castelli (benché minacciati anch’essi, negli ultimi decenni, dalla morsa onnivora dell’inquinamento), è poi difficile respirare e sentirsi bene in una città che, allorché la si guardi dall’alto, scendendo dai suoi Colli, denuncia impietosamente una cappa bigia di smog sospeso su tutta l’estensione del suo cielo: polveri sottili che gli abitanti di Roma, inconsapevolmente, assorbono dall’aria tutti i giorni.

Un rapporto complesso e controverso, dunque, quello di Onorati con la Città Eterna. Nelle pagine dei suoi libri di narrativa, Roma appare, tra luci e ombre, attraverso questo spettro di ambivalenza affettiva. È il luogo del contrappunto e dell’alterità, rispetto all’identità autoctona dei paesi, col loro “piccolo mondo” rurale di storie e conoscenze condivise. Quando a Roma, nella prima metà del Novecento, c’è già da secoli (e anzi va aumentando, con la massiccia urbanizzazione della capitale) l’anonimato tipico della città, che poi addirittura ingrandisce in metropoli, ai Castelli ci si chiama e si parla ancora da un colle all’altro. Ogni paese è un microcosmo, una realtà conchiusa dove tutti sanno tutto di ciascuno, come in una specie di tribù, di famiglia allargata. Per capire la differenza, basti pensare alle generalità onomastiche del villico: a Roma egli avrà un cognome e un nome statuiti; ai Castelli soltanto il soprannome con cui tutti lo chiamano e conoscono (i libri di Onorati abbondano di soprannomi curiosi e coloriti, ad esempio Lope, Gufarello, Gecche, Cacasangue, Sturapippe, Crastaporchi, Scorfana, etc.).

Roma, insomma, è vista o con gli occhi (fisici e mentali) del ragazzo che deve ancora conoscerla, e che per questo la immagina col brivido del mistero e del proibito (è in città, ad esempio, che si scende per iniziarsi alle prostitute), o con quelli del burino che già la conosce ma ci va di rado, per lavoro o per svago, e che la vive con sospetto, come qualcosa di estraneo, di pericoloso, da cui guardarsi con attenzione. Roma, in buona sostanza, è la “lontananza vicinissima” che turba: città sconfinata, babelica, tentacolare, per i “tipi” rustici e ingenui che popolano le pagine di Onorati: un gorgo che attrae e respinge al tempo stesso. Luogo di escursioni picaresche, di avventure rischiose, di notti brave, da cui puntualmente – toccata la sponda del pericolo – si torna al cantuccio caldo e sicuro del paese. Ecco un esempio tipico di queste notti all’avventura, sull’onda del caso e dell’entusiasmo, verso gli agguati e gli imprevisti (ma anche le torbide seduzioni) della capitale:

“Annamo tutti a Roma. Domani è festa!”, spiegò Trubbiano. (…) “Sopra!” comandò Lope. Salimmo sul cassone, come un branco di pecore e di porci. (…) Avanti, con Lope, salì Trubbiano. Eravamo in sedici. Più i due alla guida, diciotto. “Via!” ordinò Lope. (…) Coperto come un vagone, il camion prese la corsa e noi traballammo gli uni addosso agli altri. (…) Trubbiano pregò tutti di tacere, perché lungo l’Appia avremmo incontrato la polizia stradale. Chiuse anche l’entrata del cassone con il copertone scuro. Scendemmo all’aria solo a Roma, quando fummo cioè  nella penombra dei lecci e dei pini alla Passeggiata Archeologica. Solo quattro “nobildonne” passeggiavano. Trubbiano andò a contrattare. (…) Quella sera, non era aria per me… Al momento opportuno, tentai di svignarmela verso l’Appia Antica. Le quattro “dame” avevano accettato. Vollero i soldi in anticipo. E da ragioniere fece Trubbiano.
   Le ombre si persero sulle rovine romane.
   M’allontanai verso le rotaie del tram. D’un tratto, come in un’allucinazione, udii canti religiosi. E vidi una processione di pellegrini diretti alla Madonna del Divino Amore. Scalzi.
   Credetti che fosse la stanchezza a farmi vaneggiare. Portavano le candele accese i pellegrini. E cantavano. Erano passati pure vicini al camion. Una forza maggiore mi trascinò dietro a loro. C’era una Croce nera, alta su tutti, nella notte… (…) La notte di baldoria, che pareva interminabile, finì all’improvviso: all’apparire del “carrozzone” della polizia.      

Assurge a vera e propria mitologia (personale e generazionale) questo rito della “discesa a Roma”, quasi una catabasi infera dal valore esperienziale, conoscitivo, o consolatorio. Ai fatiscenti postriboli di via dei Cessati Spiriti, nei pressi dell’Appia, si recano ad esempio i ragazzi dei Castelli in cerca di iniziazione o soddisfazione venerea:

Scesero all’inizio di Roma, a Cave, per andare alle casette di via dei Cessati Spiriti, ove un gruppo di donnine occupava di contrabbando tuguri di legno, dal pavimento di terra battuta. (…) “Lo vedi?”, diceva Vetriolo con aria da maestro; “Quello è il magnaccia, il pappone, cioè il protettore delle battone. Dagli poco spago, fai finta di non accorgerti di lui”.
Gira e rigira, Vetriolo trovò l’amorosa di suo gusto e la impose a Giano. (…) L’atto fu sbrigativo, anche perché qualcuno chiamò dalla strada bestemmiando. (…) La seconda esperienza a pagamento la fece in compagnia di Polonio, d’estate. Sempre alle casette. Erano stati al lago l’intera mattinata a remare. Stanchi e affamati, anziché tornare a casa per il pranzo, presero il tram delle tre pomeridiane e scesero a Roma. Di giorno via dei Cessati Spiriti sortì un altro effetto, meno misterioso ma più rassicurante, anche se più squallido.

Oppure si scende a Roma per ragioni commerciali, per andare a smerciare il vino o altri prodotti della terra. Così Onorati ricorda il suo primo contatto con la Città Eterna – sognata a lungo e intinta nei colori esotici della fantasia –, quando finalmente il padre Feliciano gli permise di soddisfare la brama divorante di andarci, di vederla, di conoscerla:

Il primo viaggio, fantastico e indimenticabile, che feci da Albano all’Urbe, fu sul carretto a vino di mio padre. (…) A notte fonda, dopo la guerra, papà permise alla mia ghiotta e insaziabile curiosità di placarsi. Salii dentro la chiocciola, sicuro della vicinanza paterna, nel buio stellare di una notte senza luna. (…) Mi sembrava un percorso infinito, solitario di profumi provenienti dalle vigne e dai prati a fianco della via Appia. Era talmente lontana Roma, che la mia fantasia di fanciullo pensava di arrivarci dopo giorni e giorni di trotto. Ricordo che, finita la discesa, da stradine immissarie, incrociammo altri carri provenienti forse da Marino o da qualche campagna fra la strada e il mare. Pian piano che ci avvicinavamo alla meta, si formò una lunga fila di cavalli ritmanti e di “linterne” or fioche or sobbalzanti al ritmo delle ruote… e i cani abbaiare fra loro come rimandi sonori di saluti arcaici ormai perduti… (…) Roma slargò, alla luce del mattino, nell’aria fredda e un po’ grigia, i suoi palazzi e le sue mura immense, le mille chiese e le strade larghissime ombreggiate da pini in salute e platani maestosi. Mi accorsi subito che a pochi chilometri di distanza qualcosa di profondamente significativo cambiava. A quei tempi Roma era la città per eccellenza mentre i Castelli Romani rimanevano paesini di campagna.

La scena dei carretti a vino si ripete anche nel romanzo La speranza e la tenebra, dove ricorre – per altri motivi rispetto ai precedenti – la zona dei Cessati Spiriti, e non muta la dimensione furfantesca, perigliosa, infida della città, porto franco di incontri imprevedibili, dove i castellani non si sentono più sicuri come entro le mura dei loro paesi.

 Appena il tempo migliorò, e primavera cominciava ad annunciarsi, Tranquillo attuò un suo piano. Tramite amici e parenti si fece una clientela fra gli osti di Roma e partì di tanto in tanto con il mulo robusto e il carretto carico di barili.
“Il prodotto”, diceva, “non cammina da sé: bisogna portarlo noi alle trattorie e alle osterie”.
Allora, le limpide notti estive, accompagnato da una luna solitaria e lattiginosa, scendeva alla capitale lungo l’Appia selciata. A un tratto di essa, incontrava altri carrettieri molto più esperti di lui nel mestiere. Un saluto altisonante e via. Quel tragitto durava cinque ore perché ad un certo punto dell’Appia, molto vicino a Roma, c’era una sosta obbligata: il dazio. Una fila odorosa di vino rigava la strada. Poi uno scampanellio di sonagli vari e ognuno riprendeva la corsa fra le ombre che si schiarivano. La notte svaniva nel fitto orizzonte, sul mare, mentre dai lontani colli Albani una fosforescenza pallida annunciava il giorno. I carrettieri scendevano accompagnati dalla luna, ora piena, ora tagliata, e risalivano con il sole in viso. Non mancavano lungo il percorso facce losche di briganti e non di rado qualche carrettiere aveva da fare… (…) Alla fine dell’Appia (quando le mura di Roma si delineavano appena al debole chiarore della notte), c’era una salita piuttosto disagevole: la salita degli Spiriti. Siccome gli zoccoli ferrati dei cavalli scivolavano sul selciato e le bestie dovevano reggere una fatica notevole, per quell’erta i carrettieri erano impegnatissimi. Con una mano tenevano le briglie e con l’altra la frusta.
Proprio in quel punto così scabroso per gli automedonti, si agguantavano i pozzolanari che erano carrettieri di bassa risma, gente di pochi scrupoli. La salita degli Spiriti era temuta dai carrettieri a vino perché, mentre essi erano impegnati alla guida (se la bestia si fermava a metà, scivolava giù con grave rischio per le sue zampe e per il vino), i pozzolanari approfittavano per sfilare i barili e alleggerire il carico. Quei ladruncoli avevano sempre la meglio perché uniti, come banditi, in gruppi. Raramente i carrettieri a vino riuscivano a girare la frusta contro i ladri, ma con scarso risultato.

Allorché poi, quasi guidato da uno spirito archeologico, Onorati descrive la Roma millenaria del centro storico, passando in rassegna luoghi e monumenti anche celebri, lo fa – di solito – non più con l’occhio spaesato dei villici in trasferta, ma del provetto conoscitore, o del turista borghese disincantato. Lo sguardo sulle cose è “dall’alto”, non più “dal basso”, e coincide col punto di vista di chi riesce a dominarle, anche quando infide o becere o provocatorie. Come accade alla sofisticata Hélène ne La vigilia dei sensi:

Lecci nascosti sotto i pini della Passeggiata Archeologica… Arco di Costantino, piramidale sfondo al Colosseo nell’aurora. Arco di Tito, bianco di secoli, solitario, lontanamente malinconico. (…) Roma schiarisce al sole che si libera nell’elmo notturno dei colli Albani. Ed ecco la colonna Antonina avvitata al cielo, le acque di Fontana di Trevi, fresche e dure come il marmo.
Le acacie farnesiane di via Parma erano immobili, come ombre nell’olio. (…) Lasciato Luca a piazza Colonna, era andata al Pantheon. Via dei Coronari (…) Beve alla fontanella dal muso antico di via Ponte Vecchio: alza lo sguardo e un bell’uomo di mezz’età la fissa dalla sua bottega di antiquariato. Un vicolo taglia in vista dei marmi del Palazzaccio. “Allora sono vicina al Tevere se ci sono i platani (…) Gironzolò spensierata intorno intorno. Fino alla Roma brutta, al Governo Vecchio.
La sete la spinse in un bar. Facce losche, parlata greve, sguardi felini e cannibaleschi.
“Che Inter che c’avemo…”
“Fa du’ metri de coscia la commare, altro che Inter”.
Si stringevano intorno a Hélène.
“Moretto, controllate, er caretto ha già fatto la retata e tu ce sei cascato co’ la pupa all’Augusteo, ier l’altro al Policlinico, ier l’altro all’Università. Che ce vòi lascià orfanelli de’ padre? Ahò, ridete, sennò me va pe’ traverso”.
Denti canini, incisivi da cavallo, orecchie attaccate al collo, nasi camusi, menti sfuggenti, unghie sporche, occhi a fessura a lobo torvi acquosi sghembi porcini da gufo da pesce. (…) Si avvicinava il tramonto. Ripercorse via dei Coronari, chiara di cristalliere illuminate. Tornò a piazza Navona.

Ma lo sguardo e la scrittura virano poi inevitabilmente, come aghi magnetici, verso il profilo familiare dei Colli Albani. È lì che lo scrittore si sente a casa, è lì che vibrano le sue corde più autentiche. A Roma la sua penna gioca in trasferta. È per questo che l’Urbe, pur quando in apparenza magnificata, viene sempre descritta come attraverso una bolla di vetro, dietro un velo di scetticismo amaro, dentro un guscio di introversione, di sostanziale distacco affettivo. Ben altro è il calore che Onorati mostra quando parla dei “suoi” luoghi. Per questo è tanto più dolce e consolante il viaggio di ritorno post factum, la risalita agli amati paesi. Eccone due esempi:

Decise di percorrere a piedi i venti chilometri fino alla sua cittadina. (…) Respirò gli odori notturni fino ad assorbirne la vitalità interna e a trasformarla in sensazioni profonde. Fissò la luna e ne carpì l’arcobaleno, mutandolo in energia interiore. Ascoltò la musica delle cose, il canto millenario del vento lieve, acre dei mentastri nella campagna romana. (…) Quando dalla Regina Viarum sbucò sull’Appia Nuova, si imbatté nell’ultimo esemplare di carretto a vino trainato da un cavallo statuario, con la lanterna a destra della chiocciola, il cane fra le zampe dell’equino e il carrettiere sonnolento. In quel momento non passavano macchine né tram. Era il filmato sonoro d’un’epoca ormai agonizzante, la fine d’un’era lunghissima, poetica, umana, piena di fatiche e di rinunce, ma anche di saggezza, di armonia  tra le cose e gli esseri… (…) Quando si trovò innanzi ai Colli, albeggiava. (…) La linea scura del monte Albano si stagliava netta nel cielo di madreperla.

Uscì da Regina Coeli alla fine di marzo del 1925. (…) Magro e pallido, tornava libero, incredulo ed eccitato da una gioia nuova, da una consapevolezza effettiva del valore della libertà. Uscì all’aria aperta di via della Lungara con pochi spiccioli in tasca, un vestito sdrucito e un fagottello sottobraccio. L’espressione attonita. In quella mattina azzurra, l’incubo era finito (…) Fece a piedi il Lungotevere, con gli occhi rivolti al fiume e ai ponti, fino a piazza Venezia. Roma nel 1925 era meno della metà della Roma di oggi. Tuttavia, sortì nell’animo di Felice un effetto sorprendente, anche se il giovane già la conosceva per questioni di lavoro. A piazza Venezia prese il 4, che lo portò fino a San Giovanni, dove attese il tram che saliva ai Castelli. (…) Fin da fuori le mura di San Giovanni comparivano, nelle nudità dei prati ricchi di sambuchi, i colli tanto amati.

E poi, una volta tornati a casa, è meglio forse che Roma rimanga così, “vicinissima e pur lontana”, abbracciata con lo sguardo dall’alto dei colli con lo spettacolo delle sue luci tremule, “quasi in un mare di paranze notturne”, finalmente silenziosa e inoffensiva. Ammirarla dall’alto è, difatti, anche un modo per tenerla a distanza, dopo averne sperimentato le trafitture, le lusinghe, gli aculei dolceamari. Almeno fino a quando era possibile distinguere uno spazio di confine tra la città e le zone rurali circostanti. Non più oggi, che “Roma ha allargato i suoi tentacoli fino a Velletri, al mare, a Tivoli, inglobando principalmente nell’hinterland tutti i Castelli Romani senza significativa soluzione di continuità” …

Marco Onofrio

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