Una dedica
Sono cresciuto nel paese degli alberi che finiscono.
Quante volte ho distolto lo sguardo, per non costruire sull’immagine l’oblio. Quante volte ho distolto il guardare, per la malinconia più acuta, per il pudore del ricordo, per serbare una mia memoria intonsa; ma stavolta ho trovato più coraggio o forse, piuttosto, era giunto un qualche tempo maturo.
Con l’animo assordato ho fatto il giro dei nostri pini, di quando insieme andavamo a raccogliere i pinoli, ho ripercorso a ritroso strade e tempi, riavvolgendomi in un lenzuolo di muri a secco, in un tepore per sempre settembrino.
E si potevano scostare gli sterpi, il finocchione e i giunchi secchi con le mani, i cardi e le gramigne con i piedi. E poi, oltre le spine e la penombra, si svelava il pino, il pino greco del casolare. Il pino ospitale, il pino sacro e regale alla pari del basilico, il pino racchiuso dal cortile del baglio, il pino che non era ancora divenuto palma, ma rimaneva palmo di una mano antica, della carezza della nostalgia. E non era per via di una mancata metamorfosi, ma per una scelta di morbidezza dello spirito, che quell’ombrello smeraldino era stato desiderato e piantato; e si fondeva forse per questo con le tegole del baglio, si levigava nella luce dell’ora assorta, prima del tramonto, al pari della pietra calcarea dei muri, che intiepidiva lentamente. O forse, invece, per qualche similitudine con un gorgoglio di verdi acque di fonte che, non ancora tramutate in ninfe, si levassero dal sonno della terra fertile e nera.
Ma solo chinandosi ed entrando da sotto l’arco lavico dell’ingresso, lasciato alle spalle l’odore acerbo dei campi, si raggiungevano la salvia intensa e i fagioli, la ricotta e il pane annerito, il crepitare di quell’altro pino, sul fianco della casa, ormai in pezzi per gli anni, i cui rami secchi crollavano per terra, ogni tanto, nei giorni successivi allo scirocco. Era quello l’angolo ingrigito del pavimento, in cui sabbia, cenere e aghi si mescolavano a legni e rughe. Non lontano c’era un forno, primordiale antro preistorico.
Non è dato sapere, ricordare che cosa, in questa sera lontana, a distanza di vite, sia frutto del gioco della memoria, oppure materia rincorsa dal sogno.
Insieme continuavamo il nostro giro per la raccolta dei pinoli, nei nostri posti segreti, sotto pini profumati.
Conoscevamo quegli angoli come le nostre tasche, ogni palmo di soffici aghi, chini a osservare e scovare i preziosi pinoli in ogni dosso o cunetta in cui si sarebbero potuti annidare. E poi ripartivamo, una stazione dopo l’altra, un albero dopo l’altro, inanellati; fino al termine perentorio e invalicabile dell’ora calda, quando anche le cicale sono spossate. Un rituale a cui aggrapparsi, pino dopo pino, anno dopo anno, prendendo in prestito giorni di tempo.
Frugavamo tra gli aghi e ci pungevamo dolcemente, una mano per raccogliere i pinoli con due dita, l’altra per ammucchiarli, quindi gli ultimi trattenuti con la prima mano, finché i due pugni non fossero troppo pieni per trattenerne altri, allora allontanarsi, lasciarli rotolare nel fagotto a quattro angoli e poi da capo, ricominciare senza fretta.
Una gestualità precisa, di mosse ancestrali, appresa da piccoli, da mani robuste e poi callose.
Divertendoci per le dita nere del colore che stingeva dai pinoli. Sentendoci quasi giocosi demiurghi di vulcani, di sciare.
E pregustavamo il momento in cui avremmo allungato le dita verso i pinoli già puliti, trattenendoci dal fare “schiaccia e assaggia”. Quella minima sottrazione dall’insieme che pure era addizione, sommando gusto al gusto, come l’ultimo raggio del sole al tramonto lancia un fiotto di zagara prima di inabissarsi tra le onde violacee.
Imparavamo la pazienza del tavolo, da quel schiacciare e riordinare i pinoli, dai quattro rintocchi esatti del martello. Ogni tanto la pausa silente, per pulirli dalle pellicine rosse, dal sapore di corteccia pallida, quell’involucro inspiegabile e fragile come se fosse fatto della stessa consistenza del tempo. Così stavamo affacciati dal muretto di cotto, come un tempo ci dondolavamo appesi al bordo del legno. E quando il vento si era volto in carezze e le nostre braccia si erano allungate, stavamo ancora schiacciando pinoli, osservando migrare gli aironi e finire le estati.
Così vedevamo insegnare il tempo ai giorni di calura. Un tempo riempito di costanza e gesti ripetuti, scevro di qualsiasi senso di attesa, semplicemente in armonia con lo scorrere dei galeoni in cielo, con la danza delle cime dei cipressi, con il rumore del mare incessante.
Ma vennero i giorni della cenere. Ciclici, conosciuti, temuti e in qualche modo attesi, così come ciclico era il bruciore degli occhi per la rabbia d’ingiustizia. Per le lingue di drago sul promontorio adorato, per le fiamme tutt’intorno che divoravano la macchia e le arance, fino alla nostra collina, per le lacrime asciutte sulle guance.
Socchiuse le palpebre delle persiane, la cenere danzava immobile nell’aria rovente.
Non ne ricavammo alcun senso dell’effimero, tutt’altro: la percezione dell’ineluttabile incertezza della durata.
Così imparammo a rispettare le mani callose della luna. Tra i nostri più cari pini, ormai ridotti in moncherini di carbone dall’odore dolciastro, su un letto d’aghi dolente, rugginoso e caduto come spada senza filo, ecco, aggirandosi tra di essi la luna si chinava dolcemente, con pazienza antica. Raccoglieva da terra i suoi raggi d’argento, le sue gocce di luce appese alle foglie degli ulivi superstiti intorno. Le raccoglieva e le versava in un’ampolla, da serbare gelosamente, dalla quale avrebbe stillato il balsamo della lenta rinascita.
Giovanni Asmundo